Doroteo
Guamuch Flores, che in seguito alcuni giornalisti americani ribattezzarono per
semplicità Mateo Flores, originario del Guatemala, è stato un valido corridore
delle lunghe distanze. La sua migliore prestazione, nonché vittoria più
eclatante, fu nel 1952 alla maratona di Boston. Flores, in quell'occasione,
sbaragliò tutta la concorrenza, atleti ben più famosi e titolati di lui. La sua
gara fu caratterizzata da una stranezza non di poco conto: corse con ai piedi i
mocassini di cuoio con i quali era arrivato a Boston il giorno prima. Era povero,
non poteva permettersi le scarpette da corsa, e quelle erano le uniche
calzature che possedeva.
Mateo
Flores, negli anni che seguirono, ebbe un unico emulo: il mio amico Antonio
Felini, detto Faccia di Cavallo. Il buon Antonio non vinse nessuna maratona
internazionale, la sua impresa non ebbe il rilievo di quella del corridore
guatemalteco ma, nel suo piccolo, merita comunque di essere ricordata.
Fine
di agosto. Un caldo infernale, di quelli che ti tolgono il fiato. Quel giorno
era in programma una corsa su strada di
dodici chilometri, e per il nostro gruppo podistico c'era un unico
obiettivo: vincere il trofeo per la
migliore squadra. Ognuno avrebbe dovuto dare l'anima, spingendosi oltre
il limite.
Dieci
minuti alla partenza e, come al solito, di Antonio, detto Faccia di Cavallo per il suo viso allungato e
l'espressione sempre triste, non c'era traccia. Arrivò all'ultimo momento,
tutto trafelato. Non ebbe nemmeno il tempo di scaldarsi. Ma lui era fatto così,
abituato a lanciarsi nella mischia all'ultimo secondo.
"Sbrigati
a cambiarti!" gli intimai, quasi urlando per la fretta.
Lui
mi guardò, annuì ma non disse nulla. Era incredibile come, anche quando gli si
dicevano le cose più banali, sembrava sempre non capire. Eppure, alla fine
ubbidì. Si sfilò la polo, rivelando la canottiera rossa e gialla della squadra.
I pantaloncini di raso blu li indossava già.
"Sono
pronto" disse con la sua voce flebile.
"Sei
scemo?" risposi, abbassando lo sguardo sui suoi piedi.
Anche
lui li guardò, poi alzò gli occhi su di me.
"Perché?"
domandò, dopo un attimo di silenzio.
"Ti
devi cambiare le scarpe!" gli ricordai, con un sospiro esasperato. Accidenti,
ma è proprio tonto! pensai tra me e me.
"Uso
queste" ribatté lui.
"Quelle?"
"Le
altre si sono rotte" spiegò, con la solita espressione imperturbabile.
"Ma
come fai a correre con quelle?" chiesi, incredulo.
"Sono
pur sempre scarpe" rispose.
Le
osservai meglio. Si trattava di mocassini di cuoio nero e lucido, quasi nuovi, forse usati per qualche
occasione speciale, magari un matrimonio. Avevano la suola spessa e un tacco di almeno due o tre centimetri.
"Tu
non sei a posto" ebbi il tempo di dire, scuotendo la testa. Lui sollevò le
spalle, e in quel preciso istante ci chiamarono a raccolta per la partenza.
Inutile
raccontare ogni metro della gara. La mia, comunque, fu buona. Anche gli altri
tre compagni si comportarono bene. Eravamo fiduciosi. Se Antonio fosse arrivato
nei primi cento, avremmo vinto senza problemi l'agognato trofeo. Invece, Faccia
di Cavallo arrivò tra gli ultimi, dopo i primi quattrocento. Ma arrivò. Tagliò
il traguardo con un'espressione molto sofferente, la faccia ancora più
allungata del solito. Altro che cavallo, sembrava un mulo stremato!
Venne
verso di noi, scuotendo la testa. "Scusate, non ce l'ho fatta" ci
disse con un filo di voce. "Oggi non ero in gran forma" aggiunse.
"Ma
è tutta colpa delle scarpe!" esclamai, puntando il dito verso i suoi
piedi.
"No,
con le scarpe mi sono trovato abbastanza bene" disse lui, con una calma
disarmante. Poi, con una smorfia di dolore, sfilò quella destra.
Il
calzino non era più bianco ma rosso,
tutto intriso di sangue. Rimanemmo inorriditi.
"È
soltanto la seconda volta che le metto" disse Faccia di Cavallo, come se
fosse la cosa più normale del mondo.
"Sono
ancora un po' rigide" aggiunse, faticando non poco a nascondere l'atroce sofferenza.


Nessun commento:
Posta un commento