Fin da ragazzino, quando ogni giorno
scappava all’oratorio per disputare interminabili partite, era stato colpito da
quel particolare e importante elemento del gioco del calcio: il tiro. Perché,
alla fine, ciò che contava era proprio quello: calciare la palla con forza e
precisione e indirizzarla nella rete avversaria. Certo, allora su quel campo
polveroso le porte non esistevano. Ma questo, per lui e per gli altri
ragazzi, non rappresentava una grande complicazione. Per delimitare
quell'indispensabile spazio si utilizzavano bastoncini conficcati nel terreno
oppure semplicemente maglie e borse ammucchiate. La traversa, di conseguenza,
non c’era. A quel punto diventava necessario seguire il consiglio che don Mario
non si stancava mai di ripetere. Tienila bassa, suggeriva il giovane prete,
tira rasoterra, urlava staccando per un attimo il fischietto dalle labbra. In quel
modo si limitavano le dispute infinite sull’altezza del tiro. L’assenza della
barra trasversale rendeva difficile stabilire se il tiro era da considerarsi
buono oppure no. Una conclusione a pelo d’erba invece semplificava il problema,
anzi lo annullava. E niente discussioni, soprattutto.
Più tardi era riuscito a realizzare il
sogno della sua vita, diventare un calciatore professionista. Non era stato uno
dei migliori, non era mai stato considerato un vero campione, tuttavia aveva
ricevuto da quella pratica grandi soddisfazioni. Aveva militato in diverse
squadre di una certa importanza, sempre con ruolo da comprimario, tuttavia
aveva avuto la possibilità di girare il mondo, di vedere tanti luoghi e di
incontrare molte persone. In tutti quegli anni la sua vecchia ossessione aveva
però continuato a tormentarlo: il tiro. Si rifiutava sempre, con
incomprensibile ostinazione, di alzare il pallone da terra. La palla era fatta
per viaggiare sull’erba, pensava, e non per essere lanciata in aria a
percorrere improbabili e imprevedibili traiettorie. E questa regola diventava
assoluta quando si trattava di calciare a rete. Bassa, lui la palla continuava
a tenerla bassa. Non potevano esserci eccezioni.
La sua carriera purtroppo si era
interrotta presto. Un grave infortunio lo aveva costretto a fermarsi prima del
tempo e le scarpette erano finite, malinconicamente, appese al fatidico chiodo.
Ma gli anni trascorsi sui campi da gioco gli avevano permesso di acquisire un
notevole bagaglio di esperienza, perché lui era un tipo riflessivo, che amava
analizzare tutte le situazioni di gioco, le tattiche e le strategie. Aveva così
deciso che non doveva sprecare quella competenza, ed era diventato allenatore.
Aveva avuto così la possibilità di sperimentare tutte quelle teorie che, nel
corso degli anni, aveva elaborato. Come sempre, però, si era concentrato su
quell’aspetto che lo aveva così tanto affascinato: la balistica del tiro. Si
era convinto sempre di più che un pallone calciato non doveva perdere, per
nessun motivo, contatto con il terreno. Un tiro alto, anche se indirizzato
nello specchio della porta, era comunque da considerarsi come un tiro
sbagliato. Per non parlare poi di quegli sventurati palloni che andavano a
finire in curva, tra gli spettatori o, addirittura, di quelli calciati alle
stelle. Un vero orrore, che lo faceva soffrire. Proprio per evitare tali
sconvenienti situazioni non si stancava mai di ripetere ai suoi giocatori,
proprio come faceva l’ormai compianto don Mario con lui tanti anni prima,
che la vera essenza del tiro consisteva nella totale aderenza della palla al
tappeto erboso. Poco per volta, aveva mutato il modo di pensare di un’intera
generazione di calciatori, e aveva trasformato quelle giovani promesse in suoi
fedeli adepti: gli adoratori del tiro rasoterra.
Alla fine erano arrivati anche i
risultati. Aveva finalmente raccolto i frutti di quella sua instancabile
predicazione. La sua carriera di allenatore era stata un successo. Aveva
diretto le più grandi squadre, raggiungendo fama, ricchezza, onori e gloria.
Prima di ritirarsi, aveva deciso di
togliersi un’ultima soddisfazione. Aveva accettato di guidare la nazionale del
proprio Paese ai Campionati del Mondo, per conquistare l’unico trofeo che
ancora gli mancava. Il cammino nella competizione era stato più facile del
previsto. Raggiungere la finale era stato quasi un gioco da ragazzi.
E adesso si trovava molto vicino al
trionfo. Mancavano meno di cinque minuti alla fine dell’incontro. La partita,
fino a quel momento, era stata piuttosto equilibrata. La situazione era di parità.
Ma, pochi istanti prima, l’arbitro aveva concesso un calcio di rigore alla sua
squadra.
Era fatta, la vittoria non poteva più
sfuggire. Luiz Armando Ferreira Ramos Da Silva, detto Diablito,
aveva sistemato con grande cura la palla sul dischetto. Diablito era
un tiratore eccezionale. Le sue conclusioni, violente e dalle traiettorie…
diaboliche, rasavano l’erba fino alla terra. Diablito, voltando il
capo, aveva scambiato con lui un ultimo fuggevole sguardo d'intesa. Nei suoi
occhi si leggeva tutta la sua sicurezza. E la sua grande determinazione. Anche
se non era per nulla indispensabile, lui aveva risposto con il solito cenno, il
cui significato era sempre lo stesso: tienila bassa, il più possibile.
L’arbitro aveva fischiato, Diablito aveva preso una breve
rincorsa, come suo solito. E poi aveva calciato, con una potenza
impressionante. Il pallone per un tratto aveva arato il terreno, poi era
penetrato in esso e si era perso, diretto verso chissà quali lontane
profondità.
L’intero stadio si era ammutolito.
Centomila tifosi sbalorditi. Attoniti. Sgomenti.
Bassa. Troppo bassa, aveva pensato.
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