La
prima volta che lo vide aveva otto anni. Quel giorno si era svegliato presto,
ben prima che sua madre, come faceva ogni giorno, venisse a scuoterlo per
costringerlo ad alzarsi. Saltò giù dal letto, completamente desto, pregustando
l’abbondante colazione, quando la sua attenzione fu attirata da qualcosa che si
trovava a terra, vicino alla porta della stanza. Era un coniglio, un grosso
coniglio bianco. Incredulo, si avvicinò con cautela, e anche con un po’ di
timore, alla bestiola. Il coniglio era immobile, anche se respirava, e muoveva
in maniera quasi impercettibile il naso. Lui non aveva mai visto prima un vero
coniglio, dunque rimase a osservarlo per almeno un minuto, interessato e
impaurito, con il piccolo cuore che aveva accelerato i battiti. Poi, all’improvviso,
tornò alla realtà. Aggirò l’animale e si precipitò in cucina.
“Mamma!
In camera c’è un coniglio!” urlò irrompendo nel piccolo ambiente.
“Eh?
Che cosa dici? Perché sei già alzato?” disse la donna richiudendo il
frigorifero.
“C’è
un coniglio! Nella stanza!” ribadì il bambino. “Vai a vedere!” aggiunse,
concitato.
“Che
cosa stai dicendo? Stai sognando da sveglio? Perché non hai aspettato che ti
venissi a chiamare?”
“Andiamo
a vedere!” disse il ragazzino. Afferrò la mano della madre e la trascinò nella
sua cameretta. Lei scosse il capo e lasciò fare. Entrarono nella stanza. Il
coniglio non c’era più.
“Visto?”
disse la donna. “Stavi ancora sognando”.
“Eppure
c’era…” disse il bambino a voce bassa , quasi parlando a se stesso.
Chissà
se il coniglio c’era o non c’era per davvero. Quel che è sicuro è che al
termine di quella giornata iniziata in quello strano modo a non esserci più fu
sua madre. Nel pomeriggio, mentre rientrava dopo avere fatto la spesa, un
furgone la travolse e la uccise, proprio davanti casa. Il bambino, per ovvi
motivi, non ripensò più al coniglio bianco per molto tempo.
Gli
toccò farlo quasi vent’anni dopo. Quel giorno era uscito tardi dal lavoro. Le
solite cose: il capo lo aveva pregato di fermarsi per ultimare un progetto
urgente. Aveva acconsentito, nella segreta speranza che un giorno il suo
impegno e la sua disponibilità sarebbero stati premiati con una promozione. Si
era sposato da poco, da ancora meno era nato un figlio, e con la mogliettina
aveva acquistato un appartamento gravato da un oneroso mutuo. Un aumento di
stipendio sarebbe stato molto utile. Giunto nell’androne del palazzo, notò che
in un angolo, sotto alle cassette della posta, c’era qualcosa. Si avvicinò ed
ebbe un tuffo al cuore. Di nuovo il coniglio! La bestiola sembrava la stessa
dell’altra volta. Stavolta non era più un bambino, e cercò di essere razionale.
La volta scorsa, di certo, l’animale era stata una specie di visione scaturita
dalla sua spiccata fantasia di fanciullo, adesso il coniglio invece era vero,
probabilmente appartenente a qualche inquilino al quale era scappato. Stava per
toccare la bestiola, che era rimasta immobile nonostante la sua presenza,
quando si bloccò. Senza una ragione apparente. All’improvviso gli era tornato
in mente che il giorno in cui aveva visto per la prima volta il grosso coniglio
bianco era stato pure il giorno della morte di sua madre. Non badò più alla
bestiola, e non prese neppure l’ascensore. Fece di corsa otto rampe di scale e
irruppe come una furia nel suo appartamento.
“Marta!
Marta! Ci sei?” urlò chiamando la moglie.
Sua
moglie in effetti c’era, ma la povera Marta era appesa al gancio del lampadario
del salotto, da molte ore ormai, a giudicare dal suo viso gonfio e dal colore
bluastro. Da una stanza attigua si sentiva il pianto disperato di un bambino.
Vai a sapere perché, la donna si era suicidata. Chissà, forse l’aveva fatto a
causa del mutuo…
Non
tentò di staccare la moglie dal lampadario (tanto era tardi) né chiamò la
polizia, e neppure corse dal figlio, ma si precipitò all'opposto nell’androne,
alla vana ricerca di un coniglio bianco che non c’era più.
E
trascorsero altri vent’anni. La sua carriera era decollata eccome! Aveva
continuato a impegnarsi molto a livello professionale per due principali
ragioni: il lavoro lo obbligava a non pensare (non si era mai ripreso del tutto
dopo la tragedia della moglie) e soprattutto dava la possibilità a suo figlio,
quel povero orfano di madre, di vivere in piena agiatezza. Era diventato
direttore generale di una grande filiale della società. Quel giorno uscì dal
lussuoso ufficio per recarsi nell’ambiente open-space, dove operavano tutti i
suoi numerosi collaboratori. Appena fu in mezzo alle scrivanie notò qualcosa di
strano proprio in fondo al salone. Aguzzò gli occhi (avanzando d’età era
diventato un po’ miope) e lo riconobbe. Era lui, era di nuovo lui, il maledetto
coniglio bianco!
“Bastardo!
Assassino!” urlò, poi iniziò a correre.
“Dice
a me, dottore?” disse un timido impiegato, ma ormai il suo direttore aveva
quasi raggiunto il coniglio. E questa volta non ebbe indugi. Sferrò alla
bestiola un calcio potentissimo (ammaccandosi il piede, quella immonda
bestiaccia, oltre che vera, era pure dura) che la scaraventò in
aria. Appena il coniglio fu di nuovo a terra, il corpo sfatto, gli piombò
addosso a piedi uniti, imponendogli tutti i suoi novanta chili di peso. Il
coniglio esplose disperdendo frattaglie in tutto il salone. Lui immerse le mani
in quei poveri resti sanguinolenti, poi strappò le orecchie alla bestia e
iniziò a masticarle per poi sputarle subito dopo. Mentre si esibiva in tutto
ciò non aveva mai smesso di imprecare, in quella che pareva essere una lingua
sconosciuta tanto i suoni emessi erano gutturali e inarticolati.
Alla
fine alcuni suoi collaboratori, tra quelli più forzuti e che non temevano
provvedimenti disciplinari, riuscirono a bloccarlo. Furono chiamate le forze
dell’ordine e soprattutto un’ambulanza. Il direttore aveva dato fuori di matto.
In faccia gli era rimasto impresso un ghigno terrificante, dai bordi della
bocca fuoriusciva bava sanguinolenta. Seduta a una scrivania una ragazza
piangeva sommessamente, consolata da alcuni colleghi.
“Perché?
Perché? Che cosa gli aveva fatto il povero Fuffy? Non lo volevo portare in
ufficio, ma ci tenevo tanto a farvelo conoscere. Vero che era bravo? Era così
tranquillo, non si muoveva quasi…” diceva tra le lacrime. “Oh! Il mio povero
coniglietto bianco!”
Passarono
altri vent’anni, tutti trascorsi in una struttura psichiatrica. Dopo l’assassinio
del coniglio non era più tornato in quadro. La sua mente era precipitata per
sempre in uno stato di confusione totale. Tutti i giorni si vantava di avere
ucciso il coniglio bianco, e di avere così salvato suo figlio da una morte
certa. Perché era lui che la maledetta bestia voleva, ne era sicuro, e se non
lo avesse ammazzato se lo sarebbe preso, così come aveva già fatto prima con
sua madre e dopo con sua moglie. Oh! Se fosse intervenuto in maniera decisa
anche allora! Il fatto è che nella prima occasione era ancora un bambino e non
aveva capito, e ciò era costato poi la vita alla cara Marta (fingendo di non
sapere che quando lui aveva avvistato la bestia la mogliettina era un’appendice
del lampadario da parecchie ore).
In
ogni caso, ormai, tutte la sue giornate erano dedicate alla ricerca del
coniglio bianco. Ispezionava con cura ogni posto della struttura in cui era
ricoverato, ogni ripostiglio, ogni angolo più recondito. Era costantemente
vigile. Se quella carogna fosse rispuntata da qualche parte, di sicuro non
avrebbe di nuovo avuto scampo.
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