In quel freddo giorno
di dicembre gli consegnarono una penna, una matita e una gomma, poi lo
condussero in cella. Prima gli avevano detto che poteva tenere i suoi abiti. Con
sua sorpresa, l'ambiente in cui lo lasciarono era molto spazioso. Comprese che
avrebbe trascorso il lungo periodo di detenzione con alcuni compagni. Lo
stanzone aveva i muri, un po' scrostati, dipinti di color giallo carico, una
tinta opprimente, che sconfortava. Prima di lasciarlo gli indicarono il suo
posto, in un angolo: una scrivania e una sedia. La sua carcerazione ebbe così
inizio. Era stato condannato a una pena di trentacinque anni. Il regime, fin
dall'inizio, sarebbe stato quello di semilibertà. Avrebbe trascorso l'intera
giornata in carcere poi, ogni giorno, sarebbe tornato a casa per dormire.
Trentacinque anni! Eppure, ripensandoci, aveva fatto di tutto per essere
condannato. Nel periodo immediatamente precedente l'arresto si era sbattuto in
tutti i modi, aveva percorso tutte le strade, cercato ogni complicità,
impiegato tutte le sue energie e le sue risorse per essere preso. Quando ciò
era finalmente avvenuto era stato contento. Soltanto quando si accomodò sulla
sedia cigolante, e appoggiò le braccia sul piano della scrivania tutto
graffiata, si rese conto di avere perso la sua libertà. I giorni, in cella, si
susseguirono tutti uguali. Gli fu assegnato un lavoro. Nulla di complicato,
nulla che non fosse in grado di svolgere. Si impegnò molto, in quella mansione,
anche perché quello era l'unico modo per far sì che il tempo trascorresse più
in fretta. Nel frattempo, quasi senza accorgersene, invecchiava. Riuscì a
stringere qualche amicizia con i compagni di sventura. Alcuni erano suoi
coetanei, anche loro condannati a pene analoghe alla sua, altri di mezza età,
altri ancora erano più anziani e avevano già scontato la condanna quasi per
intero. Invece di essere i più felici, questi ultimi erano i più tristi.
Trascorsero gli anni, tanti e tutti uguali. Gli fu cambiata la cella, conobbe
nuovi compagni, ma tutto il resto non mutò. Si comportò sempre in maniera
ineccepibile: rispettava l'autorità, eseguiva i suoi semplici incarichi, non
litigava con i compagni. Mai fu coinvolto in risse, e dire che in
quell'ambiente claustrofobico, sovente malevolo, le zuffe erano all'ordine del
giorno. Quando si avvicinava la fine della carcerazione, e lui era ormai un
vecchio, gli fu comunicato che la sua condanna era stata prolungata. Altri
dieci anni. Non gli fu data alcuna spiegazione. Era così e basta. Si sentì come
un recluso, innocente, di un gulag sovietico, finito in un incomprensibile
tritacarne, dove la liberazione finale era sempre dettata dall'incertezza, dal
caso quando non dal capriccio dei persecutori. Si consolò pensando che nella
sua cella almeno non pativa il freddo, la fame né altre privazioni. Rassegnato,
vinto, ricominciò il suo movimento ritmico, apatico e noioso di tutti giorni.
Ormai era tra i detenuti più anziani. I giovani erano pochi, negli ultimi anni
evidentemente gli arresti erano diminuiti. Alla fine della giornata, come
sempre, si recò stancamente a timbrare il cartellino, operazione che gli
consentiva di uscire all'aria aperta. Si trascinò in strada, il passo lento e
strascicato, e si rese conto che non avrebbe mai riottenuto la libertà. E se
anche ciò fosse accaduto, non avrebbe saputo che farsene. No, il tempo della pensione
non sarebbe mai arrivato, e comunque non gli interessava più.
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