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domenica 8 ottobre 2017

FINE PENA MAI


In quel freddo giorno di dicembre gli consegnarono una penna, una matita e una gomma, poi lo condussero in cella. Prima gli avevano detto che poteva tenere i suoi abiti. Con sua sorpresa, l'ambiente in cui lo lasciarono era molto spazioso. Comprese che avrebbe trascorso il lungo periodo di detenzione con alcuni compagni. Lo stanzone aveva i muri, un po' scrostati, dipinti di color giallo carico, una tinta opprimente, che sconfortava. Prima di lasciarlo gli indicarono il suo posto, in un angolo: una scrivania e una sedia. La sua carcerazione ebbe così inizio. Era stato condannato a una pena di trentacinque anni. Il regime, fin dall'inizio, sarebbe stato quello di semilibertà. Avrebbe trascorso l'intera giornata in carcere poi, ogni giorno, sarebbe tornato a casa per dormire. Trentacinque anni! Eppure, ripensandoci, aveva fatto di tutto per essere condannato. Nel periodo immediatamente precedente l'arresto si era sbattuto in tutti i modi, aveva percorso tutte le strade, cercato ogni complicità, impiegato tutte le sue energie e le sue risorse per essere preso. Quando ciò era finalmente avvenuto era stato contento. Soltanto quando si accomodò sulla sedia cigolante, e appoggiò le braccia sul piano della scrivania tutto graffiata, si rese conto di avere perso la sua libertà. I giorni, in cella, si susseguirono tutti uguali. Gli fu assegnato un lavoro. Nulla di complicato, nulla che non fosse in grado di svolgere. Si impegnò molto, in quella mansione, anche perché quello era l'unico modo per far sì che il tempo trascorresse più in fretta. Nel frattempo, quasi senza accorgersene, invecchiava. Riuscì a stringere qualche amicizia con i compagni di sventura. Alcuni erano suoi coetanei, anche loro condannati a pene analoghe alla sua, altri di mezza età, altri ancora erano più anziani e avevano già scontato la condanna quasi per intero. Invece di essere i più felici, questi ultimi erano i più tristi. Trascorsero gli anni, tanti e tutti uguali. Gli fu cambiata la cella, conobbe nuovi compagni, ma tutto il resto non mutò. Si comportò sempre in maniera ineccepibile: rispettava l'autorità, eseguiva i suoi semplici incarichi, non litigava con i compagni. Mai fu coinvolto in risse, e dire che in quell'ambiente claustrofobico, sovente malevolo, le zuffe erano all'ordine del giorno. Quando si avvicinava la fine della carcerazione, e lui era ormai un vecchio, gli fu comunicato che la sua condanna era stata prolungata. Altri dieci anni. Non gli fu data alcuna spiegazione. Era così e basta. Si sentì come un recluso, innocente, di un gulag sovietico, finito in un incomprensibile tritacarne, dove la liberazione finale era sempre dettata dall'incertezza, dal caso quando non dal capriccio dei persecutori. Si consolò pensando che nella sua cella almeno non pativa il freddo, la fame né altre privazioni. Rassegnato, vinto, ricominciò il suo movimento ritmico, apatico e noioso di tutti giorni. Ormai era tra i detenuti più anziani. I giovani erano pochi, negli ultimi anni evidentemente gli arresti erano diminuiti. Alla fine della giornata, come sempre, si recò stancamente a timbrare il cartellino, operazione che gli consentiva di uscire all'aria aperta. Si trascinò in strada, il passo lento e strascicato, e si rese conto che non avrebbe mai riottenuto la libertà. E se anche ciò fosse accaduto, non avrebbe saputo che farsene. No, il tempo della pensione non sarebbe mai arrivato, e comunque non gli interessava più.

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