Appena metto piede all'osteria sento una risata
agghiacciante. Mi avvicino al bancone.
"Ho sentito la risata di Angelo. Dov'è?" domando
all'oste.
Lui sospira e scuote il capo.
"È di là" dice, indicando la sala piccola, quella
vicino al gabinetto.
"Portami birra e gazzosa" dico, poi vado a cercare
Angelo.
Lo trovo seduto da solo a un tavolo, immerso nella penombra.
Si sta versando da bere da una bottiglia di rosso che è quasi vuota.
"Mi posso sedere con te?" gli domando. Angelo
scrolla le spalle. Immagino sia un sì, allora mi accomodo di fronte a lui.
Mentre lui fissa il vuoto, io lo scruto con attenzione. Sembra molto
invecchiato dall'ultima volta che l'ho visto da vicino. Ha più o meno la mia
stessa età, ma dimostra almeno dieci anni di più. Il volto è gonfio, quasi
tumefatto, la pelle tirata e, ovunque, solcata da minuscoli e ramificati
capillari di color rosso vivo. Le labbra sono scure, tinte dal vino. Non si è
più tagliato la barba, che è incolta e striata di grigio. In testa ha il solito
cappello di paglia, sporco e bucato in più punti. Anche la pesante camicia che
indossa, a scacchi blu e neri, è lercia. Da tutto il suo enorme corpo proviene
un dolciastro lezzo di stalla.
L'oste mi porta la birra, con la gazzosa per allungarla. Se
ne va scuotendo il testone, dopo aver lanciato un'occhiata pietosa al povero
bevitore.
"Ho il fegato spappolato!" sbotta all'improvviso
Angelo.
"Che dici?"
"Me l'ha detto il dottore, e lui non si sbaglia. Mi ha
fatto fare delle visite e poi ha detto che se continuo a bere non campo a
lungo".
Indico la bottiglia, adesso asciutta.
"È l'unica cosa che mi piace fare" dice.
"Comunque adesso all'osteria vengo solo la domenica, prima di
pranzo".
"A casa non bevi più?" chiedo. Lui scoppia a
ridere.
"Certo che bevo, mica posso morire di sete. Ma a casa
bevo il vino che faccio io, quello non fa male, è genuino".
"Allora quando è che non bevi?" faccio.
"Quando dormo".
Poi Angelo si alza in piedi.
"Guarda che pancia" dice.
Osservo il suo ventre prominente, a forma di palla. Ascite,
penso, se questo poveraccio non la smette con l'alcol è davvero spacciato.
"Ho iniziato a bere a cinque anni" dice Angelo,
che si è rimesso a sedere e guarda con angoscia la bottiglia vuota. Poi sembra
rasserenarsi, ha preso la sua decisione.
"Comando ancora un quarto" dice, e fa un cenno
all'oste.
"Hai iniziato a bere ancora prima di andare a
scuola?"
"Sì, era mio nonno che, a pranzo, mi versava sempre
mezzo bicchiere di vino. Diceva che faceva sangue, e i miei genitori erano
d'accordo. Poi, è vero, ho principiato la scuola, ma non ci sono andato per
tanto tempo".
"Per quale motivo?"
Angelo dapprima fa una smorfia, poi lascia esplodere la sua
spaventosa risata. Nell'osteria tutti si voltano a guardarlo. E a guardare me.
"La maestra diceva che ero ritardato. Il fatto è che a
me piaceva mica andare a scuola. Non riuscivo a stare fermo, non stavo ad
ascoltare e quindi non imparavo niente. Ma non ero scemo".
"E hai lasciato la scuola?" domando.
"Sì. Mia madre era arrabbiata con la maestra, ogni
tanto le andava a parlare, ma io ho continuato a comportarmi male. Allora a mio
padre una sera sono presi i cinque minuti, aveva bevuto, e ha detto che a
scuola non ci sarei più andato, che tanto a casa c'era da lavorare. E poi ha
anche detto che la maestra era una puttana".
Sospiro. Povero Angelo.
"Allora hai cominciato a lavorare in cascina"
dico.
"Sì, ero bravo a lavorare. Già da giovane sapevo fare
di tutto. E poi ero forte come un toro, riuscivo a spostare da solo il
rimorchio del trattore e portavo in spalla i sacchi di grano da mezzo quintale
senza il minimo sforzo".
"E anche adesso continui ad ammazzarti di fatica".
"Mi piace farlo. Da quando i miei poveri genitori se ne
sono andati sono rimasto da solo, perché mio fratello ha una cascinotta tutta
sua. Riesco a governare quaranta mucche. La mattina mi alzo alle quattro,
quando è ancora buio, e le mungo. Poi tutto il giorno nei campi. La sera vado a
dormine..."
"...con le galline!" lo interrompo. Lui ride, ride
alla sua maniera, spaventosa.
"Prima! Ci vado molto prima delle galline!"
Angelo beve un sorso del vino che l'oste gli ha appena
portato. Poi guarda il mio bicchiere.
"Non ti farà mica male bere quella roba lì? Ti gonfia
lo stomaco" dice, sinceramente preoccupato. Penso al suo ventre smisurato.
"No, stai tranquillo, non mi fa male".
"Ah!"
"Angelo" dico. "Non pensi mai a
divertirti?"
Scuote il capo, il cappellino gli casca, se lo rimette
calcandolo meglio.
"Non ho tempo, e poi non saprei che cosa fare. Il mio
divertimento è il lavoro".
"Non frequenti neppure più gli amici. Un tempo ti
vedevo sempre qui, con loro".
La sua espressione diventa dura. Beve ancora, poi si pulisce
la bocca con la manica della camicia.
"Quelli non erano amici. Quelli si divertivano soltanto
alle mie spalle. Mi facevano bere e poi mi portavano in giro e ridevano di me.
L'ho capito quella volta che mi hanno convinto a prendere a calci la mia
macchina nuova. Io l'ho fatto e l'ho ammaccata tutta. Ero troppo ciucco, non
capivo più niente. Ma poi ho detto basta, non ho più voluto sapere niente di
loro. Meglio stare da solo".
Annuisco. Sono d'accordo con lui.
"Angelo, hai mai pensato di sposarti?"
"Bah! A me le campagnole non piacciono, sono sempre messe
male in arnese" dice. Poi, prima di proseguire, abbassa la voce e mi
guarda in maniera furba. "A me piacciono le donne moderne, quelle tutte
truccate e che vanno sempre dalla parrucchiera. Ma quelle sono difficili da
accontentare, vogliono andare al ristorante, al cinema, e a fare le vacanze.
Come faccio io ad andare in vacanza? Come faccio con le mucche? Mica posso
portarmele dietro!"
Dal vicino campanile rintocca il mezzogiorno. Angelo scola
gli ultimi resti del quartino, poi si alza di colpo.
"Devo andare a mangiare" dice. Si volta e si
dirige verso l'uscita, senza salutare.
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