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sabato 16 gennaio 2016

FEGATO SPAPPOLATO


Appena metto piede all'osteria sento una risata agghiacciante. Mi avvicino al bancone.
"Ho sentito la risata di Angelo. Dov'è?" domando all'oste.
Lui sospira e scuote il capo.
"È di là" dice, indicando la sala piccola, quella vicino al gabinetto.
"Portami birra e gazzosa" dico, poi vado a cercare Angelo.
Lo trovo seduto da solo a un tavolo, immerso nella penombra. Si sta versando da bere da una bottiglia di rosso che è quasi vuota.
"Mi posso sedere con te?" gli domando. Angelo scrolla le spalle. Immagino sia un sì, allora mi accomodo di fronte a lui. Mentre lui fissa il vuoto, io lo scruto con attenzione. Sembra molto invecchiato dall'ultima volta che l'ho visto da vicino. Ha più o meno la mia stessa età, ma dimostra almeno dieci anni di più. Il volto è gonfio, quasi tumefatto, la pelle tirata e, ovunque, solcata da minuscoli e ramificati capillari di color rosso vivo. Le labbra sono scure, tinte dal vino. Non si è più tagliato la barba, che è incolta e striata di grigio. In testa ha il solito cappello di paglia, sporco e bucato in più punti. Anche la pesante camicia che indossa, a scacchi blu e neri, è lercia. Da tutto il suo enorme corpo proviene un dolciastro lezzo di stalla.
L'oste mi porta la birra, con la gazzosa per allungarla. Se ne va scuotendo il testone, dopo aver lanciato un'occhiata pietosa al povero bevitore.
"Ho il fegato spappolato!" sbotta all'improvviso Angelo.
"Che dici?"
"Me l'ha detto il dottore, e lui non si sbaglia. Mi ha fatto fare delle visite e poi ha detto che se continuo a bere non campo a lungo".
Indico la bottiglia, adesso asciutta.
"È l'unica cosa che mi piace fare" dice. "Comunque adesso all'osteria vengo solo la domenica, prima di pranzo".
"A casa non bevi più?" chiedo. Lui scoppia a ridere.
"Certo che bevo, mica posso morire di sete. Ma a casa bevo il vino che faccio io, quello non fa male, è genuino".
"Allora quando è che non bevi?" faccio.
"Quando dormo".
Poi Angelo si alza in piedi.
"Guarda che pancia" dice.
Osservo il suo ventre prominente, a forma di palla. Ascite, penso, se questo poveraccio non la smette con l'alcol è davvero spacciato.
"Ho iniziato a bere a cinque anni" dice Angelo, che si è rimesso a sedere e guarda con angoscia la bottiglia vuota. Poi sembra rasserenarsi, ha preso la sua decisione.
"Comando ancora un quarto" dice, e fa un cenno all'oste.
"Hai iniziato a bere ancora prima di andare a scuola?"
"Sì, era mio nonno che, a pranzo, mi versava sempre mezzo bicchiere di vino. Diceva che faceva sangue, e i miei genitori erano d'accordo. Poi, è vero, ho principiato la scuola, ma non ci sono andato per tanto tempo".
"Per quale motivo?"
Angelo dapprima fa una smorfia, poi lascia esplodere la sua spaventosa risata. Nell'osteria tutti si voltano a guardarlo. E a guardare me.
"La maestra diceva che ero ritardato. Il fatto è che a me piaceva mica andare a scuola. Non riuscivo a stare fermo, non stavo ad ascoltare e quindi non imparavo niente. Ma non ero scemo".
"E hai lasciato la scuola?" domando.
"Sì. Mia madre era arrabbiata con la maestra, ogni tanto le andava a parlare, ma io ho continuato a comportarmi male. Allora a mio padre una sera sono presi i cinque minuti, aveva bevuto, e ha detto che a scuola non ci sarei più andato, che tanto a casa c'era da lavorare. E poi ha anche detto che la maestra era una puttana".
Sospiro. Povero Angelo.
"Allora hai cominciato a lavorare in cascina" dico.
"Sì, ero bravo a lavorare. Già da giovane sapevo fare di tutto. E poi ero forte come un toro, riuscivo a spostare da solo il rimorchio del trattore e portavo in spalla i sacchi di grano da mezzo quintale senza il minimo sforzo".
"E anche adesso continui ad ammazzarti di fatica".
"Mi piace farlo. Da quando i miei poveri genitori se ne sono andati sono rimasto da solo, perché mio fratello ha una cascinotta tutta sua. Riesco a governare quaranta mucche. La mattina mi alzo alle quattro, quando è ancora buio, e le mungo. Poi tutto il giorno nei campi. La sera vado a dormine..."
"...con le galline!" lo interrompo. Lui ride, ride alla sua maniera, spaventosa.
"Prima! Ci vado molto prima delle galline!"
Angelo beve un sorso del vino che l'oste gli ha appena portato. Poi guarda il mio bicchiere.
"Non ti farà mica male bere quella roba lì? Ti gonfia lo stomaco" dice, sinceramente preoccupato. Penso al suo ventre smisurato.
"No, stai tranquillo, non mi fa male".
"Ah!"
"Angelo" dico. "Non pensi mai a divertirti?"
Scuote il capo, il cappellino gli casca, se lo rimette calcandolo meglio.
"Non ho tempo, e poi non saprei che cosa fare. Il mio divertimento è il lavoro".
"Non frequenti neppure più gli amici. Un tempo ti vedevo sempre qui, con loro".
La sua espressione diventa dura. Beve ancora, poi si pulisce la bocca con la manica della camicia.
"Quelli non erano amici. Quelli si divertivano soltanto alle mie spalle. Mi facevano bere e poi mi portavano in giro e ridevano di me. L'ho capito quella volta che mi hanno convinto a prendere a calci la mia macchina nuova. Io l'ho fatto e l'ho ammaccata tutta. Ero troppo ciucco, non capivo più niente. Ma poi ho detto basta, non ho più voluto sapere niente di loro. Meglio stare da solo".
Annuisco. Sono d'accordo con lui.
"Angelo, hai mai pensato di sposarti?"
"Bah! A me le campagnole non piacciono, sono sempre messe male in arnese" dice. Poi, prima di proseguire, abbassa la voce e mi guarda in maniera furba. "A me piacciono le donne moderne, quelle tutte truccate e che vanno sempre dalla parrucchiera. Ma quelle sono difficili da accontentare, vogliono andare al ristorante, al cinema, e a fare le vacanze. Come faccio io ad andare in vacanza? Come faccio con le mucche? Mica posso portarmele dietro!"
Dal vicino campanile rintocca il mezzogiorno. Angelo scola gli ultimi resti del quartino, poi si alza di colpo.
"Devo andare a mangiare" dice. Si volta e si dirige verso l'uscita, senza salutare.




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