Il presidente
Bertazzoni era seduto dietro l’imponente scrivania, con l’immancabile sigaro
tra le labbra. Al suo fianco, in piedi, c’era il direttore sportivo Loschi.
“Accomodati, Furlan”
biascicò Bertazzoni, sbuffando una nuvola di fumo.
Libero Furlan sistemò
in qualche modo il lungo corpaccione sulla scomoda poltroncina.
“Sai perché ti abbiamo
convocato, vero?” sibilò Loschi con la sua voce sottile.
Il calciatore annuì.
“Il contratto, dobbiamo
parlare del contratto” disse il presidente.
Libero Furlan, all’inizio
Anni Novanta, era rimasto uno dei pochi calciatori a non fare ricorso a un procuratore
per essere rappresentato nei propri interessi. Li odiava, i procuratori, li
considerava null’altro che squallide sanguisughe. Lui si riteneva perfettamente
in grado di occuparsi delle proprie questioni economiche. Tutti i suoi compagni
di squadra confermati avevano già provveduto a rinnovare il contratto per la
futura stagione. Rimaneva soltanto da discutere la sua posizione, quella del
capitano, della bandiera della squadra, del trascinatore che, nella stagione
passata, aveva contribuito al grande risultato ottenuto, il secondo posto nel
massimo campionato. Un successo incredibile, considerando che la società, fino
a quel momento, aveva militato soprattutto nella serie cadetta e, le poche
volte che aveva conquistato la promozione nella serie superiore, era subito
retrocessa.
“Non siamo riusciti a
cederti” disse Loschi, mentre il presidente distoglieva lo sguardo.
Furlan, per un attimo,
rimase senza parole. Poi si riprese.
“Che cosa? Intendevate
cedermi? Non mi avete detto nulla.”
“Se fossimo riusciti a
trovare una buona sistemazione per te l’avremmo comunicato soltanto a cose
fatte. Abbiamo pensato a qualcosa di prestigioso, di adatto a un atleta della
tua levatura, della tua grande esperienza. Il fatto è che nessuno ti ha richiesto.”
“Per quale motivo non
mi volevate più?” chiese Furlan, frastornato.
Bertazzoni sospirò a
lungo prima di parlare.
“Rodrigo Macchi” disse.
“Dice che non rientri nel suo progetto. In ogni caso, adesso che abbiamo deciso
di tenerti, dovrà farsene una ragione e cercare di utilizzarti nel migliore dei
modi. Cribbio! Comando ancora io, qua!” E sbatté un pugno sul tavolo. Loschi
sobbalzò.
Rodrigo Macchi era il
nuovo allenatore, appena ingaggiato. Quello vecchio, Salvatorelli, aveva deciso
di ritirarsi, chiudendo in bellezza una lunghissima carriera. Aveva appena
compiuto settantacinque anni, dei quali gli ultimi venti trascorsi alla guida
della stessa squadra. Salvatorelli, persona serena e bonaria, per Furlan era stato
come un secondo padre. La sua decisione di abbandonare lo aveva molto
rattristato.
“Torniamo al contratto”
disse infine il presidente. Prese la parola Loschi.
“In considerazione
della tua età avremmo deciso di rinnovare il contratto per un solo anno, con un
piccolo ritocco dell’ingaggio verso il basso. Cerca di essere ragionevole,
Furlan, hai appena compiuto trentaquattro anni e la nostra intenzione è quella
di investire sui giovani, così come vuole il nuovo allenatore. Allo stesso
tempo non vogliamo rinunciare a te, convinti che hai ancora molto da dare alla
squadra, al servizio della quale potrai mettere, come sempre, capacità ed
esperienza.”
Loschi si asciugò la
bocca con un fazzoletto.
Furlan scosse il capo
spelacchiato. Aveva perso i capelli a causa dei troppi colpi di testa, amava dire
scherzando. Un po’ però ci credeva davvero.
“Almeno due anni di
contratto con un piccolo adeguamento verso l’alto” disse, risoluto.
Loschi allargò le
braccia. A suo avviso si trattava di una richiesta del tutto irragionevole.
Il presidente
Bertazzoni si riaccese il sigaro, che nel frattempo, come spesso gli succedeva,
aveva lasciato spegnere.
“Forse possiamo trovare
un accomodamento” disse. “Tenendo conto della tua grande ultima stagione to ti offro
un anno di rinnovo con l’opzione per un secondo anno, a stipendio invariato.”
Loschi si esibì in una
smorfia di contrarietà, mentre Furlan si alzò in piedi e strinse la mano al
presidente, a suggello dell’accordo.
Libero Furlan, fresco
di rinnovo, due giorni dopo conobbe il nuovo allenatore.
Rodrigo Macchi era un tipo
bassotto, dalla pelata talmente lucida che pareva incerata. Indossava sempre
occhiali a specchio e aveva la parlantina sciolta, contraddistinta da uno
spiccato e quasi fastidioso accento romagnolo.
Furlan gli strinse la
mano molliccia poi, da buon veneto, non gliela mandò a dire.
“Mister, ho saputo che
non mi voleva”.
L’altro non si scompose
per nulla. Anzi, sogghignò.
“È vero. Avrei
preferito averti come avversario.”
“Perché?”
“Vedi, un calciatore
con le tue caratteristiche non può rientrare nella mia concezione di calcio. Tu
sei Libero di nome e anche di ruolo, e a me i liberi non piacciono, non li
voglio, per me il ruolo che tu hai sempre ricoperto non esiste.” Sorrise
soddisfatto.
“Non giocherò?” domandò
Furlan, che già si stava irritando ma che si sforzava di rimanere calmo. Quel
tappetto era proprio antipatico e pieno di boria come gli era stato descritto
da molti.
“Come ho promesso al
cavalier Bertazzoni cercherò, in qualche maniera, di utilizzarti. Tuttavia tu
dovrai snaturarti, cambiare completamente modo di giocare, altrimenti con me non
avrai spazio.”
“Non farò più il libero?”
chiese ingenuamente Bertazzoni. Una squadra senza libero, per lui, era come una
messa senza il prete.
Rodrigo Macchi si
lanciò in uno degli sproloqui per i quali era ben conosciuto e che
rappresentavano la gioia dei giornalisti sportivi.
“I ruoli, nelle mia
squadre, sono indefiniti e ininfluenti. Tutti attaccano e tutti difendono…” Si
bloccò.
“A proposito, nei
quindici campionati che hai disputato, quanti gol hai segnato?”
“Due, entrambi di testa”
rispose prontamente Furlan. Era molto orgoglioso di quelle due reti. Segnate da
un libero!
“Visto? Questo rafforza
ancora di più le mie certezze. Sei antico, preistorico.”
“La devono buttare
dentro quelli che stanno davanti, mica quelli dietro!” disse Furlan.
“Lasciami continuare,
per favore. I difensori, vale a dire quelli che, indipendentemente dal ruolo
inizialmente occupato, si trovano in posizione più arretrata nel momento in cui
la compagine avversaria contrattacca, devono rimanere perfettamente allineati,
pronti a far scattare la trappola del fuorigioco.”
Macchi prese fiato e
Furlan ne approfittò per inserirsi.
“Trappola? Si gioca a
pallone, mica alle imboscate!”
Il mister non gli badò.
“Un calciatore, come fa
il libero, che ciondola dinnanzi al portiere, impedisce di attuare tale
strategia. Insomma, giocare con il libero è come giocare in dieci. Inoltre,
anche da un punto di vista etico, il ruolo di libero è un ruolo scorretto,
negativo. Il libero è anarchico, perché non segue i movimenti della squadra, è
individualista, perché opera da solo, ed è una specie di parassita, anzi un
avvoltoio che vive sulle disgrazie dei compagni, che si nutre dei loro errori,
che si mette in luce a scapito di altri. Per me, invece, esiste soltanto il
collettivo. Tutti sono uguali, tutti sono intercambiabili, tutti sono
sostituibili e facilmente rimpiazzabili.”
Furlan notò con
disgusto che agli angoli delle labbra di Macchi si era accumulata un po’ di
bavetta bianca. Collettivo? Tutti uguali? Questo sarà comunista, pensò, lui che
aveva sempre votato per la Democrazia Cristiana.
Rodrigo Macchi lo
scrutava, le mani sui fianchi, proprio come il duce. Accidenti, ma questo era
rosso o era nero? Libero Furlan prese la sua decisione. Estrasse dal borsone le
scarpette e andò a gettarle in un cestino di rifiuti. Poi si avvicinò al
mister, che ora sembrava stupito.
“Come dice lei, continuerò
a essere Libero di nome, non più libero di ruolo, ma sempre libero di
condizione!” gli urlò in faccia. Qualche goccia di saliva finì sui lucidi
occhiali a specchio del mister.
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