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venerdì 31 dicembre 2010

HABITAT


Sembra ieri, invece sono ormai trascorsi molti anni. Fu così che lo vidi, la prima volta...
Proprio in fondo, lungo l'intera parete, c'è un armadio con alti sopralzi. Lo si può scalare per mezzo di una fragile e sbilenca scaletta. Il suo ventre è ingombro di cartacce e batuffoli di polvere. A lato, troneggia un termosifone antico, ricoperto di vernice marrone ormai scrostata. Poi, un armadio a muro, mesto ricettacolo di vetusto ciarpame: pezzi di ferro contorti, vecchie scarpe, un fornellino elettrico, salme di macchine da calcolo obsolete, stracci, tanti stracci sporchi.
Il soffitto, molto alto, nobile, è del tutto annerito. Le pareti, dipinte di giallo scuro, sono cupe e opprimenti.
Sul pavimento, le mattonelle di linoleum, sbrecciate, rilasciano con pazienza un insidioso pulviscolo.
Scaffali, scaffaletti, tavoli, tavolini, "tavolinetti": incolpevoli presenze di legno e di metallo; muti e sgomenti testimoni di noiosi eventi, testimoni del nulla.
Dall'alto, file di lampade al neon trafiggono l'ambiente con la loro luce bianca e crudele.
I vetri alle finestre sono opachi, caliginosi; le veneziane, in parte afflosciate, ricordano enormi, decrepite palpebre socchiuse e cadenti. E poi carta, carta, carta. Ovunque fogli, risme, registri, agende, tabulati, cartelle, faldoni e raccoglitori. E pure blasfemi rotoli di carta igienica. 
I telefoni sulle scrivanie sono come grossi scarafaggi grigi.

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