Il
treno ad alta velocità tagliava l'aria come fosse una lama. A 300 chilometri orari,
il paesaggio sfilava in un lampo indistinto di verde e cemento. In cabina,
Marco, il capomacchinista, teneva gli occhi fissi sui binari, mentre Luca, il
suo assistente, controllava i parametri del convoglio. La solita routine, un
rito rassicurante che scandiva le loro giornate.
All'improvviso,
in lontananza, una sagoma scura balzò sui binari, emergendo dal nulla. Marco
strinse le mani sulla cloche, il cuore che gli martellava nel petto.
"Luca,
hai visto?" La sua voce era strozzata. L'altro annuì, il viso sbiancato.
"Sì...
un uomo".
Entrambi
sapevano che a quella velocità non c'era nulla da fare. La distanza si riduceva
a ogni frazione di secondo, inesorabile. Un brivido gelido percorse la schiena
di Marco. L'impatto era inevitabile.
Poi accadde
qualcosa, e il mondo attorno a loro si distorse. Il sibilo del treno divenne un
lamento prolungato e acuto, le gocce di pioggia sul finestrino sembravano
sospese a mezz'aria. L'uomo sui binari, prima una macchia sfocata, ora era
nitido, quasi fermo, le braccia aperte in un gesto di disperazione. Il tempo
aveva rallentato, fin quasi a fermarsi.
Marco
e Luca si guardarono, increduli. La persona era ancora lì, a pochi metri da
loro, mentre il convoglio avanzava lentamente. Avevano tutto il tempo per
prendere una decisione. Investire l'uomo o tentare l'impossibile?
"Dobbiamo
frenare, Marco!" esclamò Luca, la voce un sussurro amplificato dal
silenzio irreale.
Marco
scosse la testa, la fronte imperlata di sudore freddo.
"Se
tiriamo il freno d'emergenza, il rischio di deragliamento è molto alto. Pensa
al disastro! Ci sono centinaia di persone a bordo. L'inchiesta, le accuse nei
nostri confronti... Addio carriera, addio vita normale".
La sua
mente, a differenza del treno, correva veloce. Calcolava ogni rischio, ogni
possibile conseguenza legale e personale. Lui non voleva grane, non voleva
rovinarsi per un errore, per una sfortunata coincidenza.
Luca
si avvicinò, gli occhi accesi da una fiamma idealista.
"Ma
c'è una persona lì, Marco! Un essere umano! Non possiamo tirare dritto e
ignorarlo. Se c'è anche una minima possibilità di salvarlo, ci dobbiamo provare.
Non potrei vivere con me stesso sapendo di non aver fatto nulla".
La
sua voce era un misto di supplica e indignazione. Per lui, la vita di
quell'uomo valeva più di qualsiasi carriera o inchiesta.
"E
se il treno deraglia? E se moriamo noi? O tutti i passeggeri? Ti sei chiesto
quante altre vite potremmo mettere a rischio per salvarne una sola?"
Marco
era pragmatico, ancorato alla realtà più cruda, a un'etica della responsabilità
che metteva al primo posto la sicurezza della maggioranza.
"Siamo
qui per portare queste persone a destinazione, sani e salvi. Non siamo eroi,
siamo semplici macchinisti".
"Ma
non siamo neanche carnefici!" ribatté Luca, la sua voce ora un grido
disperato.
"Non
possiamo guardare un uomo morire sapendo di poter fare qualcosa! Non è giusto,
non è umano!"
La
discussione si accese, le parole rimbalzavano nel silenzio della cabina, ogni
frase un macigno. Uno, egoista e prudente, pensava alla propria pelle, alla
propria reputazione. L'altro, altruista e coraggioso, era pronto a sacrificare
tutto per un ideale superiore. I secondi si allungavano in un'eternità, ogni respiro
un'agonia.
Marco
stava per ribadire la sua posizione, quando un'improvvisa scossa lo fece
sobbalzare. Il tempo, con la stessa inspiegabile rapidità con cui si era
fermato, riprese a scorrere veloce. Il sibilo del treno tornò prepotente, il
paesaggio riprese a sfrecciare per un istante.
Poi
si resero conto che il treno era fermo. Completamente fermo. Marco e Luca si
guardarono, il respiro bloccato in gola. Il silenzio era rotto solo dal fruscio
del vento e da un suono metallico proveniente dal retro. Lo videro nello stesso
momento. Steso sui binari, a pochi metri dal muso dell'elettromotrice, giaceva
il corpo maciullato dell'uomo. Era stato investito.
Un
gemito soffocato uscì dalla gola di Luca. Non erano riusciti a frenare in
tempo. Si voltarono e videro l'orrore. La terza carrozza era uscita dai binari,
rovesciata su un fianco, un groviglio di lamiere contorte e finestrini
infranti. Dal vagone si levavano urla e lamenti. Il treno si era fermato, sì,
ma solo dopo aver investito l'uomo e provocato un disastro spaventoso.
I
macchinisti erano stati vittime di un paradosso crudele. Avevano avuto il tempo
per decidere, per discutere, per confrontarsi su un dilemma etico che li aveva
dilaniati. Ma quando il tempo aveva ripreso il suo corso, la decisione era già
stata presa, non da loro, ma da qualcun altro o da qualcos'altro. Forse da un
destino che li aveva beffati e che aveva scelto la via più tragica.





