Il cortile del vecchio cascinale è
impregnato di un calore denso, appiccicoso, tipico delle lunghe serate di
luglio. L'aria odora di terra riarsa e letame secco. Un residuo chiarore
accompagna i passi delle figure sul selciato dissestato. Alcune lampadine
accese penzolano e attirano nugoli di insetti ronzanti.
Una
cinquantina di persone sono riunite, sedute su alcune sedie di plastica oppure
in piedi appoggiate ai muri scrostati della casa colonica. I loro volti,
segnati dalla fatica e dal sole, osservano una bara di legno chiaro, poggiata
su due cavalletti di legno e sistemata sotto un vecchio glicine. Il silenzio è
spezzato solo dal frinire dei grilli e da qualche sussurro sommesso.
"Beveva
tanto" dice una donna anziana, il volto rugoso incorniciato da un
fazzoletto nero. La sua voce è roca, carica di tristezza antica.
"Lui
beveva soltanto il suo vino. Era genuino" dice un uomo corpulento, seduto
poco distante. "Genuino quanto vuoi" interviene un uomo con la
camicia a quadri stropicciata. "Però ogni giorno ne beveva litri".
Una
giovane donna, forse una parente del defunto, con gli occhi rossi e gonfi, si
stringe nelle spalle. "Non è stata colpa del vino. È stata quella fabbrica
maledetta. Lì dentro c'era veleno, lo dicevano tutti. L'ha avvelenato poco alla
volta". Poi torna a guardare nel vuoto.
"Ma
quale veleno e veleno! Osvaldo non aveva mica tanta voglia di lavorare. In fabbrica
ci andava col contagocce. Era sempre in malattia" bisbiglia un uomo, un
altro contadino, al vicino
"Se
stava male era per l'aria tossica della fabbrica" risponde l'altro, un
uomo con la barba incolta e lo sguardo torvo. "Quei fumi ti entrano dentro
e ti rovinano".
"Era
il fegato che non gli funzionava più, poveretto. A furia di bere, anche se era il
suo vino, se l'era bruciato" dice invece una donna di mezza età.
Il
dibattito si anima, sempre meno rispettoso. Le voci si sovrappongono, ognuno
con la propria versione, la propria convinzione sulla causa della morte di
Osvaldo.
Finalmente,
una figura vestita di nero si avvicina al gruppo di persone, riportando la calma.
È il prete del paese, don Luigi, il volto serio segnato da anni di ascolto e di
consolazione. Si sistema di fronte alla bara, poi apre un piccolo libro dalla
copertina consumata.
"Fratelli
e sorelle" inizia con voce pacata. "In questo momento di dolore,
raccogliamoci nella preghiera. Recitiamo insieme il Santo Rosario".
Gli
intervenuti si ricompongono, alcuni si fanno il segno della croce, altri
abbassano il capo. Le litanie iniziano a diffondersi nell'aria calda e umida,
un susseguirsi lento di invocazioni e risposte.
Accanto
al gruppo raccolto in preghiera, un pollaio recintato da una rete arrugginita ospita
una decina di galline e un gallo imponente dalle piume colorate. L'ultima luce
del crepuscolo continua a indugiare, e il gallo sembra non avere ancora
compreso che è ora di ritirarsi per la notte. Con passi baldanzosi insegue le
galline indifferenti, il suo becco aguzzo cerca con insistenza un contatto.
Tra
le persone in preghiera, un giovane con baffi folti e scuri osserva la scena
con un sorriso appena accennato. All'inizio cerca di mantenere un certo
contegno e, sebbene distratto, cerca di seguire parole del rosario. Ma
l'insistenza del gallo, la sua frenetica attività amorosa sotto gli occhi di
tutti, diventa sempre più difficile da ignorare. Il giovane, in piedi, non
riesce a stare fermo. Una scossa di ilarità gli percorre il corpo.
Il
gallo, imperterrito, monta una gallina grigia, le piume del collo che si
arruffano nella passione del momento. Il giovane non ce la fa più.
Un'esclamazione gli sfugge dalle labbra, forte e inaspettata.
"Accidenti
quanto si sta dando da fare quel gallo!"
La
recita del rosario si arresta di colpo. Le Ave Maria si interrompono
nell'aria. Un silenzio imbarazzato cala sul cortile. Tutti i volti si girano
nello stesso tempo verso il giovane con i baffi, gli sguardi sono carichi di sorpresa e di
disapprovazione. Ma anche di un vago accenno di divertimento represso.
Il
ragazzo, colto sul fatto, abbozza un sorriso complice, alza le spalle in un
gesto di scusa non troppo convinto. Don Luigi, con un sospiro rassegnato,
scuote il capo, gli occhi che esprimono una stanchezza infinita. Dopo l'attimo
di sospensione, il prete riprende le litanie, con voce più alta del solito. Si
sforza di riportare la sacra veglia sui binari della preghiera e del rispetto.
Tuttavia l'immagine del gallo indaffarato rimane sospesa nell'aria, un'irriverente
nota di vitalità in mezzo al lutto e alla mestizia.


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