Pietro, ancora un po'
stordito, esce in strada e si avvia - con passetti brevi perché guai cadere
sarebbe una vera tragedia - verso il più vicino bidone della spazzatura. Cerca
di sollevare il coperchio con una mano ma non vi riesce. Quei maledetti
coperchi ogni giorno diventano più pesanti, pensa, oppure è lui che sta
perdendo sempre più le forze. Allora il vecchio posa a terra il sacchetto
fetido e agisce con le due mani riuscendo alla fine nel suo intento. Quando
però si china per raccogliere il sacco la copertura del bidone scatta come una
tagliola e ne richiude l'apertura. Tutto da rifare. Pietro si guarda attorno,
stanco e scoraggiato.
"Aspetti, la aiuto
io" dice un uomo, che poi si avvicina. Pietro lo riconosce, si tratta di
Rozzi, quello del sesto piano. Pietro ha sempre avuto un po' paura di
quell'individuo con il volto dai tratti di fiera, in ogni caso ne accetta
volentieri l'assistenza. In un attimo è tutto fatto.
"Che giornata di
merda!" sbotta Rozzi all'improvviso. L'anziano si fa piccolo di fronte a
quella sfuriata. L'uomo tuttavia sorride, pure se il suo sorriso è simile a un
ghigno.
"Non si spaventi,
non ce l'ho con lei. Sa che cosa mi tocca fare adesso? Devo andare a prendere
il bus".
"Anch'io lo
facevo, quando andavo al lavoro" dice Pietro, timidamente.
"Io invece non lo
faccio mai, non sopporto tutta quella calca. Il fatto è che la mia macchina è
guasta, e sa perché è guasta?"
L'anziano, sbigottito,
scuote il capo.
"Perché ieri l'ha
usata mia moglie!" sbraita Rozzi, all'improvviso rabbioso.
Pietro, un po'
intimorito, adesso annuisce.
"Con quelle cazzo
di scarpe con il tacco mi ha bruciato la frizione!" prosegue l'uomo.
L'anziano solleva le
spalle. Cose che succedono, vorrebbe dire, ma rimane ben zitto.
"Ha capito? Tutta
colpa di quelle dannate scarpe!"
Pietro decide che è meglio
dire qualcosa, potrebbe servire a placare, benché in parte, l'ira di
quell'uomo.
"La sua signora
sta bene con le scarpe dal tacco alto. Anche mia moglie, quando era giovane, le
portava".
L'altro lo guarda, i
suoi lineamenti bradi sono tirati, quasi deformi.
"Già, sta proprio
bene, sembra un'autentica troia" sibila prima di andarsene senza salutare.
Pietro pensa alla
graziosa ma sventurata signora Rozzi, che ha incontrato appena qualche giorno
prima. La donna, gentile come sempre, si era fermata a parlare con lui. Pietro
aveva subito notato il grosso livido giallastro sul suo zigomo destro. Lei,
notando lo sguardo, aveva sorriso imbarazzata.
"Ha visto quanto
sono sbadata?" aveva detto. "Ho sbattuto contro lo sportello dello
scolapiatti". Poi si era scusata farfugliando qualcosa e si era
allontanata a capo chino.
Pietro, ancora
sconcertato e anche un po' allarmato, sosta per un attimo sul marciapiede, in
attesa di rimettersi in movimento per raggiungere la sicurezza delle quattro
mura di casa sua. Proprio quando tenta di riattivare il suo logoro telaio una
bimbetta, sopraggiungendo di corsa, va a sbattere contro le sue gambe. Il
vecchio barcolla vacilla ondeggia ma riesce a rimanere in piedi, a evitare la
caduta, il suo ricorrente incubo.
Sopraggiunge un uomo
alto, magro, con i capelli ricci e la pelle scura. È l'arabo che vive al primo
piano del suo palazzo, un marocchino o un egiziano, Pietro non lo ricorda più.
"Mi scusi, mi
scusi" dice l'africano con un accento particolare, esotico e strascicato.
"Le ha fatto
male?" aggiunge. La bimba, nel frattempo, si sistema accanto al padre, con
gli occhi bassi. È carina, la bamboccetta, con le sue treccine del color della
pece, il grembiulino immacolato, il pesante zainetto sulle esili spalle. Sembra
davvero dispiaciuta per quel piccolo incidente.
"Non è successo
nulla" dice Pietro.
L'uomo si tranquillizza
poi, in tono severo, si rivolge alla figlioletta: "Chiedi scusa al
nonno".
La bambina ubbidisce e
pronuncia quelle parole di giustificazione a voce talmente bassa che Pietro
quasi non le sente ma le legge dalle sue labbra vermiglie. I due riprendono il
loro cammino verso la scuola. La stessa cosa fa Pietro, diretto però all'ingresso
dello stabile. Un brav'uomo, quello straniero, pensa l'anziano. Non ricorda più
quale sia il suo nome, perché quelli sono nomi strani, e la sua memoria spesso
lo tradisce. Un buon padre di famiglia, perché di figli ne deve avere tre o
quattro, e un onesto lavoratore. Il fatto è che l'apparenza spesso inganna. Una
vita normale, tranquilla, un comportamento al riparo di ogni sospetto, il
profilo basso; tutte cose che potrebbero nascondere una realtà ben differente.
Pietro sa che a pochi isolati dal suo stabile uno scantinato, che una volta era
un garage, è stato trasformato in una moschea dove si recano a pregare il suo
vicino e tanti altri come lui. Musulmani. Ma davvero pregano? Pietro non lo sa,
perché in quel sotterraneo non c'è mai stato, neppure ci vorrebbe andare, e
probabilmente gli sarebbe comunque negato l'accesso. Ha letto di luoghi simili,
ufficialmente destinati al raccoglimento, che si sono trasformati in covi di
terroristi, nei quali si cospira contro l'Occidente. Davvero quell'egiziano o marocchino
che sia è una brava persona? Oppure è un individuo in apparenza mite ma del
quale bisogna avere paura?
Sfinito, Pietro rientra
nel palazzo. Dà un'occhiata alla guardiola del custode. Il signor Pasquale non
c'è, al suo posto è seduto il figlio, quel ragazzo con la testa rasata, lo
sguardo vacuo ma cattivo, che indossa sempre pantaloni strappati alle ginocchia
e magliette di colore nero. Pietro si è sempre sentito intimorito alla presenza
di quel giovane, che lo squadra beffardo. Se lo incontrasse di notte in un
vicolo non esiterebbe un istante a consegnargli il portafoglio. Nella sua pur
giovane esistenza il figlio del custode ne ha già combinate tante: ha
abbandonato la scuola, ha passato alcuni mesi in riformatorio a causa di un
piccolo furto, subito dopo ha cominciato a far uso di droghe ed è stato per un
periodo ospite di una comunità di recupero. Pietro pensa con commiserazione ai
poveri genitori di quel ragazzo sbandato, il signor Pasquale e la signora Lina,
alle loro continue preoccupazioni e angosce.
L'ascensore finalmente
arriva. Pietro sale, preme il pulsante del suo piano e mentalmente incita la
macchina a correre, a fare presto, perché la sua claustrofobia crescente
rischia di provocargli una crisi d'ansia. Il vecchio pensa a quando non riuscirà
più, e prima o dopo sarà così, a richiudersi senza timore in quel lucido loculo
verticale, a quando sarà prigioniero nel suo appartamento, poiché già ora le
sue gambe deboli non gli permettono di affrontare quelle interminabili rampe di
scale.
Pietro entra in casa e
chiude la porta a chiave. Fa due tre passi stentati poi crolla su una sedia. Il
suo viso assume un pallore mortale, la fronte solcata da rughe profonde e
antiche si imperla di minuscole gocce di sudore gelido. Sua moglie ciabattando
gesticolando berciando si avvicina a lui.
"Che cos'hai? Che
cosa hai fatto? Perché sei stato via così tanto?" martella l'anziana
donna.
"Zitta"
sussurra Pietro. Il vecchio è stato assalito di colpo da una consapevolezza che
lo sconvolge e lo atterrisce. Ha paura, una sensazione che parte dal profondo
delle sue viscere e che si diffonde attraverso tutte le propaggini del suo
corpo logoro. Ma non si tratta della solita paura, quella percezione con la
quale ha imparato a convivere da quando si è reso conto che la materia che lo
compone è diventata debole e friabile. Ha paura delle persone. Ma si rende
conto che non ha paura dell'avvocato Brighi perché è un razzista, non teme il
signor Rozzi perché è un individuo violento, non è spaventato dal musulmano che
potrebbe essere un terrorista, non ha paura del giovane figlio del custode
anche se è un potenziale delinquente. No, il vecchio ha paura di loro, di tutti
loro allo stesso modo, semplicemente perché sono esseri umani.
Sono esseri umani
proprio come te, Pietro.
Nessun commento:
Posta un commento