I due ragazzi camminano
sulla strada deserta. Il più robusto procede con le mani in tasca e si guarda
attorno, l'altro si trascina dietro un carrettino di legno. Vuoto. Non parlano.
Adesso imboccano una discesa assai ripida. Il mingherlino fatica a frenare il
carretto, che prende velocità. L'amico si fa più attento, osserva e sorveglia
ma senza intervenire. Il nastro d'asfalto ridiventa piano. Sulla destra si
intravede appena una traccia, un sentiero sterrato. I due ragazzi lo seguono.
Il fondo del viottolo è molto sconnesso, rovinato dal ripetuto passaggio dei
trattori. Il veicolo a traino sobbalza. È tardo pomeriggio di una domenica,
siamo nel mese di luglio e fa molto caldo. I due all'improvviso si arrestano.
Beppe e Vincenzo sono giunti alla loro meta. Il carrettino è abbandonato dietro
alcuni grossi cespugli. Dalla strada è impossibile che qualcuno lo scorga.
Avanzano ancora e dopo un po' si trovano di fronte un canale. É gonfio d'acqua
ma largo poco più di un metro. Prima uno poi l'altro i due ragazzi prendono una
breve rincorsa poi saltano attraversandolo. Entrambi sono molto agili. Ora si trovano in un enorme
piazzale. Ci sono degli edifici, e ci sono delle grandi tettoie. I giovani si
trovano all'interno della cartiera. Oggi è festa e quindi non c'è nessuno.
Tutto intorno c'è una alta recinzione, tranne che in un punto, il breve tratto
di canale. Dopo numerose esplorazioni loro hanno scoperto quella via di accesso
e l'hanno già utilizzata più volte. Nessun rumore. Nulla, non ci sono
guardiani, non ci sono cani o sistemi di allarme. La cartiera è uno
stabilimento di piccole dimensioni, e si trova in una borgata sperduta del
paese. Per Beppe e Vincenzo tuttavia quella non è una fabbrica, loro la
chiamano miniera. Al riparo delle tettoie ci sono vere e proprie montagne di
carta. Centinaia e centinaia di balle quadrate, composte da carta più o meno
compressa, disposte in maniera ordinata, impilate una sull'altra a formare
delle vette di altezza differente. I ragazzi, eccitati come sempre per
l'incursione, si guardano e, senza dire nulla, si mettono al lavoro. Comincia
la scalata. I due attaccano, con rapidità, forza e decisione. Si arrampicano in
scioltezza, aiutandosi tra loro. Certo, occorre fare molta attenzione, l'ascesa
può diventare assai rischiosa. Tra una balla di carta e l'altra si aprono dei
profondi crepacci, se queste non sono ben accostate. Una caduta avrebbe serie
conseguenze. Finalmente i due arrivano in cima al mucchio selezionato in
precedenza con occhio ormai esperto. È importante scegliere bene: da ciò
dipende la riuscita di una parte dell'impresa. I due ragazzi riprendono fiato,
si rilassano un attimo. Poi Beppe estrae dalla tasca posteriore dei pantaloni
una tronchesina e, con gesti
energici e precisi, inizia a recidere lo spesso filo di metallo che tiene unito
il blocco. Il risultato è sorprendente. La carta, a lungo pressata, si rianima
e riprende vita. Beppe ripone l'attrezzo e, aiutato dall'amico, comincia a scavare
con le mani. I due cercano libri e riviste sfuggiti alla compressione. Ben
presto Vincenzo esulta. Tiene in mano una vecchia copia, in discrete condizioni
e di sicuro leggibile, di Il lupo dei
mari di Jack London. Una grande soddisfazione si scorge sui volti dei due
amici, che proseguono subito a lavorare, entusiasti. Estraggono delle riviste
di sport, alcuni albi a fumetti. Ritrovamenti minori. Ma i due non si arrendono
e continuano ora con metodo, mettendo a frutto le passate esperienze. Vincenzo
sofferma lo sguardo su un romanzo erotico di ambientazione storica. Il volume è
un po' spiegazzato, ma lui riesce ad aprirlo e a sfogliarlo. Legge, a caso,
alcuni passaggi nella parte centrale del libro, incuriosito. Si narra di un
gigante che è stato rinchiuso in una prigione sotterranea. L'essere ha i
lineamenti del volto deformi, ed è completamente nudo. In piedi, si afferra
alle robuste sbarre della cella e le scuote con rabbia. Il suo membro, turgido
e dalle dimensioni smisurate, sporge dalle sbarre e sembra animato di vita
propria. Il gigante emette dei suoni gutturali, non è in grado di parlare,
forse gli è stata recisa la lingua. All'improvviso entrano nella prigione due
ragazze molto belle, una bionda e l'altra bruna. Non si riesce a comprendere
chi possano essere e quale sia il loro ruolo nell'intreccio. Ma ciò non ha
importanza. Vincenzo, ora piuttosto eccitato, prosegue la lettura. Le due
giovani lanciano esclamazioni di stupore alla vista del sesso del gigante. Vi
si avventano, se lo contendono, lo manipolano violentemente, lo strattonano.
L'essere imprigionato mugola di piacere, finché non accade l'inevitabile. Basta
così. Quelle misere pagine hanno già preso fin troppa aria. Il ragazzo chiude
di scatto il libro e lo butta. Beppe ha notato tutta la scena e richiama
l'amico all'attenzione. E così si ricomincia. Sotto la tettoia fa molto caldo e
sui volti dei ragazzi si accumulano sudore e polvere. In più, si sta facendo
tardi. I due amici si scambiano un cenno d'intesa, ripongono ciò che sono
riusciti a recuperare in una borsa di plastica, e si dedicano alla seconda
parte dell'operazione. Si tratta del lavoro più sporco, quello di quantità.
Afferrano manciate di carta, quella più pesante, e la gettano a terra. I tonfi
si susseguono per parecchi minuti. A un certo punto i due decidono che è
arrivato il momento di smettere. Adesso sono alquanto affaticati, ma bisogna
ancora affrontare la discesa dalla montagna di carta. Ciò deve essere fatto con
estrema prudenza, il pericolo è sempre in agguato, in misura ancora maggiore rispetto
all'ascesa. La stanchezza, la falsa sicurezza, potrebbero avere gravi
conseguenze. Ma alla fine ce la fanno. Si ritrovano a terra, nell'ampio
piazzale asfaltato. Intorno a loro c'è soltanto il silenzio della campagna. I
due ragazzi sono circondati da disordinati mucchi di carta. Si tratta di
prenderla e, poco per volta, di buttarla oltre il canale, nel prato che lo
costeggia. Allora si danno da fare, e paiono infaticabili. Quando tutto il
materiale è ormai sull'altra sponda, l'ultimo salto sull'acqua. La scioltezza
di un paio d'ore prima non c'è più, e comunque rimane ancora da affrontare
un'ultima fatica. Vincenzo, camminando lentamente, i muscoli dolenti, va a
recuperare il carretto. Beppe ammucchia la carta. Tutto ciò che è stato
raccolto è riposto in maniera ordinata sul trabiccolo a ruote. Si riparte, di
nuovo Vincenzo traina il veicolo, ma adesso Beppe lo aiuta spingendo. Un paio
di chilometri, con la difficoltà non da poco della ripida salita finale, e
avranno finito. Per quel giorno, almeno. Domani i due ragazzi riprenderanno il
carretto colmo e si recheranno di nuovo in cartiera. Stavolta però faranno il
loro ingresso attraverso l'entrata principale. Lo stabilimento sarà aperto,
animato dalle grida degli operai. E tra loro ci sarà pure il signor Luigi, il
padre di un loro amico. Luigi è l'addetto alla pesatura della carta. Uno dei
due ragazzi andrà con lui nell'angusto gabbiotto e assisterà all'operazione,
l'altro sistemerà il carretto sull'ampia piattaforma di metallo. Poi fingerà di
allontanarsi mentre invece rimarrà con i piedi sulla pedana, fermo sul vertice
di uno degli angoli, per aggiungere un po' di peso in più. Il signor Luigi,
come sempre, non se ne accorgerà. O lascerà intendere di non essersi accorto
della furba manovra. Infine i due ragazzi passeranno in ufficio, dal contabile,
a ritirare i soldi per la carta venduta, qualche centinaio di lire il chilo.
Quel denaro sarà impiegato per comprare libri. Nuovi, finalmente.
sabato 28 ottobre 2017
domenica 22 ottobre 2017
LA CINA E' VICINA
Negli ultimi tempi il
tema dell'immigrazione è stato di grande attualità, e lo sarà per molto tempo
ancora. Si parla del problema degli sbarchi nel sud del nostro paese, e delle
altre rotte via terra attraverso le quali i migranti cercano di entrare in
Italia e in Europa, mentre si accenna ben poco, se non per nulla, a un genere
di migrazione che tuttavia ha assunto un carattere sistematico: quella dei
cinesi.
La comunità cinese è la
quarta, per consistenza numerica, in Italia. Si tratta di quasi 350.000
persone, metà delle quali sono donne.
Per quale motivo si
accenna così poco a questa pur importante migrazione, tra l'altro da un paese
così lontano dai nostri confini?
Le ragioni, a mio
avviso, sono più di una. Passiamo a esaminarle in maniera sintetica.
Innanzitutto i cinesi
non arrivano mai in massa, ma con un flusso costante e continuo, attraverso
canali quasi misteriosi. Ciò fa sì che il fenomeno non sia avvertito con
evidenza, che passi quasi inosservato, che non sia percepito come una specie di
invasione, a differenza di quanto avvenga nei confronti di chi giunge nel
nostro paese, ad esempio, dall'Africa.
La comunità cinese è
una comunità estremamente chiusa, autonoma e quasi del tutto autosufficiente. I
cinesi che si trovano nel nostro paese non accampano richieste di diritti,
sembrano essere poco interessati all'integrazione, per nulla attirati
dall'ottenimento della cittadinanza del paese che li ospita.
I cinesi arrivati in
Italia assumono un basso profilo. Raramente sono coinvolti in episodi di
criminalità, anche se di sicuro non mancano i regolamenti di conti all'interno
della comunità, ma ciò avviene senza clamore, senza creare e alimentare allarme
sociale.
L'autosufficienza, economica
e sociale della comunità cinese, è dovuta soprattutto al fatto che insieme alle
persone arrivano anche capitali. Esistono, in Cina, società che investono e
ricavano profitto dai migranti. Gli immigrati si ritrovano a gestire, per conto
di tali società, numerose e varie attività commerciali: ristoranti, bar,
sartorie, lavanderie. Il loro lavoro serve per ripagare la possibilità di
migrare che hanno avuto. Diversamente da ciò che si crede, soltanto una metà
degli immigrati cinesi è impegnato in una qualche attività commerciale. Gli
altri risultano occupati, e spesso sfruttati, come operai nelle numerose
piccole fabbriche di confezionamento di abiti. Insomma, come si può dedurre, si
tratta di un fenomeno migratorio guidato dall'alto, rivolto a un preciso
tornaconto, allo stesso modo in cui avviene, sempre da parte della Cina, in
Africa, sebbene con modalità alquanto differenti (acquisto di grandi estensioni
terriere da destinare a coltivazioni intensive).
I cinesi, una volta
conclusa la loro attività lavorativa, immancabilmente fanno ritorno al loro
paese di origine. É assai raro scorgere anziani cinesi nelle nostre città.
Un altro aspetto
importante, che fa sì che l'immigrazione dalla Cina non sia colta nella sua reale
dimensione, è quello religioso. La religione dei cinesi (qual è?) non disturba,
non provoca la minima apprensione, è ridotta a forma del tutto irrilevante.
Da tutto quanto esposto
si può dedurre che l'immigrazione cinese rappresenta un qualcosa di
particolare, di unico, all'interno di un fenomeno che invece riproduce
caratteristiche più comuni e condivise.
L'ALBERO DELLA CUCCAGNA
Un lungo palo era stato
issato proprio nel mezzo della piazzetta. Sergio e Giors, con l'aiuto di una
scala a pioli, avevano provveduto a ingrassare per bene l'asta e a sistemare
sulla sua sommità i premi. I due compari avevano fatto un ottimo lavoro: il palo
era più scivoloso di un'anguilla appena pescata.
Come di consueto, i
primi a cimentarsi nell'ardua impresa furono i giovani. Ci provarono a lungo,
prima uno poi l'altro poi un altro ancora. Non ci fu nulla da fare. Quei
giovanotti ben vestiti riuscivano a salire sull'albero viscido per non più di
un paio di metri, per poi ricadere a terra come sacchi tra le risate generali.
Magnìn gettò a terra il
mozzicone tutto insalivato, poi lo schiacciò bene facendo ruotare su di esso lo
scarpone.
"Non hanno energia"
commentò.
"Per forza, non
bevono" rispose Luigino. L'altro approvò convinto.
L'albero della cuccagna
era ancora inviolato. Lo sguardo dei presenti, a quel punto, si spostò verso un
angolino appartato della piazza.
"Ci deve provare
Gelu! Lui ci può riuscire!" urlò Costantino, il calzolaio.
Gelu era una persona
mite e schiva, che preferiva sempre stare in disparte. In quel momento era
seduto su una panchetta, in grembo aveva un bottiglione di vino quasi vuoto e
stava ascoltando la musica. Gli piacevano molto i valzer e le mazurke, e non si
stancava mai di starle a sentire, tuttavia non aveva mai avuto il coraggio di
cimentarsi nel ballo. Era troppo timido, e poi le donne gli facevano paura.
Gelu portava, ben calcato, il solito cappellino di paglia. Del suo viso si
intravedevano soltanto le guance non rasate, dalla pelle dura come il cuoio non
conciato, e il grosso naso. Sentendo pronunciare il suo nome, Gelu si alzò in
piedi. L'uomo era alto e smilzo, tuttavia aveva delle braccia molto muscolose e
smisuratamente lunghe, che gli arrivavano fin sotto le ginocchia.
"Gelu, provaci
tu!"
"Se non ci riesci
tu non ci riesce nessuno!"
"Dai che ce la
fai!"
La folla ormai lo
acclamava. Gelu, che non era abituato a essere al centro dell'attenzione, si
emozionò. Iniziò a correre verso l'albero della cuccagna, pronto a scalarlo ma,
anche a causa del troppo vino bevuto, calcolò male la distanza e cozzò con
violenza, di testa, contro il palo. Stramazzò al suolo, intontito. Alcuni
volenterosi lo portarono via.
Dolfo, il camionista,
diede una robusta spinta a Luigino e lo scaraventò al centro della piazza.
"Ci prova
lui!" disse.
Luigino, sebbene un po'
disorientato, annuì. Da quando sua madre e la scopa erano finalmente andate a
dormire aveva potuto rilassarsi e bere in pace. In più, con un'abile e furtiva
mossa, era riuscito a sottrarre la fiaschetta di liquore di prugna dal seno di
Michelina. L'aveva scolata tutta, l'equivalente di cinque sei cicchetti. Provò
per quasi mezz'ora ad avvicinarsi al palo, tra l'incitamento del pubblico, ma
non ci riuscì. Il fatto è che di alberi della cuccagna ne vedeva almeno una
decina, invece di uno, e non riusciva mai ad azzeccare quello vero. Ogni volta
abbracciava il vuoto e piombava rovinosamente a terra. Alla fine dovette
rinunciare.
"Eh! Per salire lì
sopra ci vogliono delle braccia d'acciaio" sentenziò Giovannino, un
anziano contadino con una pancia enorme.
"Braccia? Bastano
le gambe" disse Magnìn.
"Che cosa?
Vorresti farmi credere che tu riesci a salire senza usare le braccia?"
ribattè l'altro.
Magnìn lo guardò torvo.
"Ho detto che
salgo senza usare le braccia e lo faccio!"
L'intera piazza
ammutolì.
Magnìn, a grandi passi,
si avvicinò all'albero della cuccagna. In una mano aveva una sigaretta,
nell'altra una bottiglia di vino da un litro. Rifletté un attimo, poi
attorcigliò le gambe attorno al palo e, senza apparente sforzo, iniziò a sollevarsi.
Dopo pochi istanti era in cima. Tirò un paio di boccate dalla cicca e bevve un
sorso di vino, poi iniziò a staccare i premi e a buttarli di sotto. Centrò in
pieno il suo amico Romualdo con un grosso salame e lo mise fuori combattimento.
Almeno la moglie non potrà dire che è svenuto perché ha alzato troppo il
gomito, considerò tra sé il figlio dello stagnino.
sabato 14 ottobre 2017
IL MAESTRO
Quando lo vedemmo la
prima volta, ne fummo tutti intimoriti. Non che fossimo dei novellini, quello
era già il nostro quinto anno di scuola e, negli anni trascorsi, avevamo avuto
quattro diversi insegnanti. Cambiare maestro era divenuta di conseguenza per
noi faccenda assai consueta. Al di fuori di qualche piccolo contrattempo nel
corso del primo anno (la maestra assegnata per il nostro esordio scolastico era
persona con evidenti e manifesti problemi di equilibrio psichico), gli anni
successivi erano filati lisci, allietati da maestre serene e pacifiche e con
spiccate doti materne. Adesso, invece, ci trovavamo di fronte quell'uomo
dall'aria severa e provvisto di minacciosa barba nera. In realtà il Maestro era
un ragazzo di poco più di venticinque anni, impegnato in una delle sue prime
esperienze di insegnamento; ma noi lo percepimmo, da subito, come persona molto
adulta. In fondo noi non eravamo che bambini.
La nostra era una
piccola scuola di campagna, frequentata per lo più da figli di contadini e
operai. Cinque classi e cinque aule in un grazioso edificio di inizio secolo. Non
c'era la palestra, naturalmente, ma soltanto un minuscolo cortile ricoperto di
ghiaia, utilizzato per la ricreazione.
Il Maestro vestiva
maglie dolcevita, pantaloni dal taglio antico, grosse scarpe, e sfoggiava una
inusitata risolutezza, rara in una persona così giovane. La sua voce, dal
timbro grave e sicuro, riusciva nello stesso tempo a mettere soggezione e a
calamitare all'estremo la nostra attenzione. Era ipnotica. Il suo metodo di
insegnamento era moderno e innovativo. Rispettava i programmi scolastici
desueti del tempo, insistendo molto sull'apprendimento dell'aritmetica e della buona
e corretta scrittura, tuttavia dedicava quantità rilevanti di tempo anche ad
altri aspetti della nostra educazione didattica. Il suo scopo principale era
quello di allargare la nostra conoscenza del mondo. A tale proposito ogni giorno si
presentava in classe con almeno due quotidiani, uno dei quali era sempre la sua
prediletta Unità. Intendiamoci,
all'epoca il giornale fondato da Antonio Gramsci era un quotidiano con i
fiocchi, che dedicava ampio spazio, oltre che alla politica interna, agli
avvenimenti internazionali. D'accordo, era pure un foglio di partito, ma a noi
quell'aspetto interessava poco. Non così fu per alcuni dei nostri genitori.
Alcuni di loro protestarono. Non ritenevano giusto che tali letture venissero
sottoposte a ragazzini. Il Maestro, di fronte a tali rimostranze, non batté
ciglio. Non si scompose neppure quando qualcuno minacciò di rivolgersi alle
autorità scolastiche. Non se ne fece nulla e fu una fortuna. Continuammo a
sfogliare e leggere i giornali che ci proponeva il Maestro, compresa la
discussa Unità, e tale attività
rivestì un ruolo di rilievo nella nostra preparazione, e ci consentì di
frequentare le scuole medie senza il minimo affanno. Era pure interessante e
sorprendente, ai nostri occhi di bamboccetti, l'atteggiamento del Maestro nei
confronti dell'insegnamento della religione. Quando, una volta la settimana,
veniva in classe il vecchio don Felice per la sua lezione di religione, il Maestro
lo salutava con gentilezza e rispetto e poi usciva dall'aula, per tornare
soltanto quando il prevosto aveva terminato.
Quelli erano gli anni
della guerra del Vietnam, e in quel bellissimo e appagante anno scolastico noi,
attraverso le notizie dei giornali, ne avevamo seguito il tragico svolgimento
in maniera scrupolosa. Un giorno di primavera il Maestro richiamò la nostra
attenzione. Disse che aveva per noi una sorpresa: l'indomani avrebbe portato in
classe una sua amica, una famosa giornalista che era stata inviata di guerra
per un giornale milanese che ben conoscevamo. Poi, serissimo come sapeva essere
lui, aggiunse che avremmo dovuto preparare delle domande da rivolgere alla
giornalista, e il tema era proprio il Vietnam, perché quella donna la guerra
l'aveva seguita proprio sul campo, e sarebbe stata in grado di soddisfare tutte
le nostre curiosità. Ma che le domande fossero precise, interessanti e ben
pertinenti, disse ancora, altrimenti gli avremmo fatto fare brutta figura.
Concluse dicendo che aveva parlato molto bene di noi alla sua amica. Il giorno
successivo tutti noi eravamo molto emozionati. Il Maestro arrivò in classe
accompagnato da una donna molto bella, che dimostrava meno dei suoi quarant'anni,
vestita in maniera sportiva, con la fronte spaziosa e capelli lunghi e lisci. La
giornalista ci donò, per la biblioteca di classe, alcune copie di due suoi libri.
Uno parlava del periodo di tempo che lei aveva trascorso alla base americana di
Cape Canaveral, insieme agli astronauti che in quel periodo si preparavano a
dare l'assalto alla Luna. L'altro era il resoconto della sua esperienza in
Vietnam. E fu di questo che ci parlò, sollecitata dalle nostre domande e dai
puntuali interventi del Maestro. In conclusione ci raccontò anche di quando era
stata ferita, un paio di anni prima, in una sparatoria avvenuta a Città del
Messico, (e non in Vietnam!) quando la polizia aveva aperto il fuoco contro gli
studenti che manifestavano. Insomma, quella fu per noi una giornata memorabile.
Quella giornalista, a noi allora sconosciuta, era Oriana Fallaci.
Il Maestro, nel seguito
della sua vita, ha fatto una meritata carriera. Già l'anno successivo
all'esperienza con la nostra classe, ottenne una cattedra alla scuola media.
Nel corso degli anni è diventato docente universitario, importante filologo e
critico letterario, nonché apprezzabile storico della lingua italiana, collaboratore di diverse riviste e quotidiani, curatore di progetti
editoriali.
Qualche anno fa gli ho
scritto una mail, alla quale lui ha prontamente risposto. Si ricordava
perfettamente l'esperienza giovanile nella piccola scuola di campagna.
Rammentava ancora i nomi di alcuni miei compagni di classe, in particolare
quelli dei ragazzi più problematici, dei quali mi ha chiesto notizie.
È raro che un semplice
insegnante elementare rivesta un ruolo così fondamentale nella formazione
educativa e culturale di una persona, di un ragazzino. Per me è stato così e
ancora oggi ringrazio il mio Maestro dalla barba nera.
domenica 8 ottobre 2017
FINE PENA MAI
In quel freddo giorno
di dicembre gli consegnarono una penna, una matita e una gomma, poi lo
condussero in cella. Prima gli avevano detto che poteva tenere i suoi abiti. Con
sua sorpresa, l'ambiente in cui lo lasciarono era molto spazioso. Comprese che
avrebbe trascorso il lungo periodo di detenzione con alcuni compagni. Lo
stanzone aveva i muri, un po' scrostati, dipinti di color giallo carico, una
tinta opprimente, che sconfortava. Prima di lasciarlo gli indicarono il suo
posto, in un angolo: una scrivania e una sedia. La sua carcerazione ebbe così
inizio. Era stato condannato a una pena di trentacinque anni. Il regime, fin
dall'inizio, sarebbe stato quello di semilibertà. Avrebbe trascorso l'intera
giornata in carcere poi, ogni giorno, sarebbe tornato a casa per dormire.
Trentacinque anni! Eppure, ripensandoci, aveva fatto di tutto per essere
condannato. Nel periodo immediatamente precedente l'arresto si era sbattuto in
tutti i modi, aveva percorso tutte le strade, cercato ogni complicità,
impiegato tutte le sue energie e le sue risorse per essere preso. Quando ciò
era finalmente avvenuto era stato contento. Soltanto quando si accomodò sulla
sedia cigolante, e appoggiò le braccia sul piano della scrivania tutto
graffiata, si rese conto di avere perso la sua libertà. I giorni, in cella, si
susseguirono tutti uguali. Gli fu assegnato un lavoro. Nulla di complicato,
nulla che non fosse in grado di svolgere. Si impegnò molto, in quella mansione,
anche perché quello era l'unico modo per far sì che il tempo trascorresse più
in fretta. Nel frattempo, quasi senza accorgersene, invecchiava. Riuscì a
stringere qualche amicizia con i compagni di sventura. Alcuni erano suoi
coetanei, anche loro condannati a pene analoghe alla sua, altri di mezza età,
altri ancora erano più anziani e avevano già scontato la condanna quasi per
intero. Invece di essere i più felici, questi ultimi erano i più tristi.
Trascorsero gli anni, tanti e tutti uguali. Gli fu cambiata la cella, conobbe
nuovi compagni, ma tutto il resto non mutò. Si comportò sempre in maniera
ineccepibile: rispettava l'autorità, eseguiva i suoi semplici incarichi, non
litigava con i compagni. Mai fu coinvolto in risse, e dire che in
quell'ambiente claustrofobico, sovente malevolo, le zuffe erano all'ordine del
giorno. Quando si avvicinava la fine della carcerazione, e lui era ormai un
vecchio, gli fu comunicato che la sua condanna era stata prolungata. Altri
dieci anni. Non gli fu data alcuna spiegazione. Era così e basta. Si sentì come
un recluso, innocente, di un gulag sovietico, finito in un incomprensibile
tritacarne, dove la liberazione finale era sempre dettata dall'incertezza, dal
caso quando non dal capriccio dei persecutori. Si consolò pensando che nella
sua cella almeno non pativa il freddo, la fame né altre privazioni. Rassegnato,
vinto, ricominciò il suo movimento ritmico, apatico e noioso di tutti giorni.
Ormai era tra i detenuti più anziani. I giovani erano pochi, negli ultimi anni
evidentemente gli arresti erano diminuiti. Alla fine della giornata, come
sempre, si recò stancamente a timbrare il cartellino, operazione che gli
consentiva di uscire all'aria aperta. Si trascinò in strada, il passo lento e
strascicato, e si rese conto che non avrebbe mai riottenuto la libertà. E se
anche ciò fosse accaduto, non avrebbe saputo che farsene. No, il tempo della pensione
non sarebbe mai arrivato, e comunque non gli interessava più.
Iscriviti a:
Post (Atom)