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martedì 8 aprile 2025

MOVIDA (CHI HA SONNO DORME)


Di nuovo!

Tutti i fine settimana è sempre la stessa storia. Gruppi di sfaticati escono ubriachi dai locali e schiamazzano in strada tutta la notte. Non ho bisogno di scostare le lenzuola perché non le uso. Da giugno a settembre si dorme sopra, questa è la regola. In verità non ero assopito, perché i vecchi dormono poco o nulla. Chi ha sonno dorme, e non si sveglia neppure con un colpo di cannone, diceva sempre mio padre. Non stavo dormendo, non sono stato svegliato, eppure le balle mi girano lo stesso. Nessuno ha il diritto di fare baccano e di disturbare le persone per bene. Adesso basta.

Scendo dal letto e sbircio tra le fessure delle persiane. Proprio di fronte a casa, sull'altro lato della via, scorgo tre persone. Si tratta di due ragazzi e di una ragazza. Parlano a voce alta, discutono tra loro, gesticolano e ridono in maniera sguaiata. Esco dalla stanza da letto e vado nel ripostiglio. Prendo la carabina, carica e sulla quale è già montato il cannocchiale a infrarossi. Avvito sulla canna il silenziatore, quello che mi ha fabbricato il mio amico Sergio nella sua officina casalinga. Non l'ho ancora provato, speriamo bene. Torno in camera, mi abbasso e striscio sul balcone. Il pavimento è sporco di merda di piccione, mi insozzo il pigiama ma non ci bado più di tanto. La ringhiera è di cemento, tutta piena, a eccezione di alcune piccole feritoie a forma di cuore. Infilo la carabina in una di esse e prendo la mira. Faccio un bel respiro e poi premo il grilletto. Ho mirato alla figura in mezzo, la ragazza, che indossa una maglietta bianca e una gonna corta, dalla quale spuntano le lunghe gambette nude. Colpisco in pieno il ginocchio, la rotula va in frantumi. La giovinetta rimane per un attimo in piedi su una gamba sola, come il fenicottero quando dorme, poi crolla a terra urlando. I due amichetti, sbronzi persi, in un primo momento non comprendono ciò che è accaduto. Si guardano intorno smarriti. Finalmente uno dei due si avvede del sangue che fuoriesce copioso dalla ragazza. Si china su lei, inginocchiandosi e mettendosi di profilo. Proprio in quell'istante sparo di nuovo. Centro il tizio sul tallone. Lui emette un gemito simile allo squittio di un topo, poi si accascia sul selciato. Dopo questo trattamento, caro mio, per stare in piedi avrai bisogno di un bel piedistallo, come quello dei soldatini di plastica. Rientro all'interno, strisciando all'indietro. In strada, nel frattempo, si è scatenato il putiferio. Gente che accorre, gente che grida, tra un po' qualcuno chiamerà ambulanze e forze dell'ordine. Ci saranno sirene e lampeggianti. Proprio un bel caos. Il momento migliore per schiacciare un bel sonnellino, prima che a qualcuno venga in mente di suonare il mio campanello. Tanto, come diceva mio padre, chi ha sonno dorme.

martedì 1 aprile 2025

LASCIARE PARIGI


"Quindici minuti sono troppo pochi per lasciare Parigi".

Il funzionario del ministero della Difesa aveva fatto irruzione nella saletta in cui ero stato fatto accomodare pronunciando quelle parole.

"Che cosa?" domandai.

"Si sieda, dottor Giorgi. Le devo comunicare qualcosa di davvero spiacevole".

Da un paio d'anni ero il corrispondente dalla capitale francese per il mio giornale. In quegli ultimi giorni frenetici, grazie alle preziose conoscenze del mio direttore, ero riuscito a ottenere un appuntamento per una breve intervista con il ministro della Difesa. La crescente ostilità della Russia per l'intera Europa era culminata in aperta minaccia nei confronti della Francia, lo stato-guida del vecchio continente. Quel colloquio con il ministro Guillame sarebbe stato un vero scoop.

"Quindici minuti sono troppo pochi per lasciare Parigi" ripeté il funzionario.

Subito dopo seguì una rapida e concitata spiegazione. Precipitai nello sconforto. Non ci sarebbe stata nessuna intervista, ma quella era la buona notizia. Il resto era che la Russia aveva lanciato un attacco nucleare contro la Francia. All'improvviso. Un missile con testata atomica stava per abbattersi sulla capitale transalpina.

"Il missile può essere intercettato?" domandai in preda all'ansia.

"Quasi impossibile" rispose il funzionario.

"Davvero non posso andarmene?" chiesi. Lui scosse il capo.

"Nessuno può lasciare il palazzo. È già stato sigillato. Per andare dove, poi?"

"Devo assolutamente avvisare i miei familiari" dissi, afferrando il cellulare.

"Loro non corrono alcun pericolo, sono in un altro stato" rispose il funzionario, che continuava a essere impassibile, anche se era molto pallido.

Anch'io, d'altra parte, faticavo sempre di più a mantenere il controllo. Non è facile farlo, quando la probabilità di essere liquefatti nei prossimi dieci minuti è molto alta, se non sicura.

"Voglio comunque parlare con loro" dissi, proprio mentre mi accorgevo che il telefono non aveva campo.

L'uomo di fronte a me scosse il capo.

"Il palazzo è stato schermato" disse. "Nessuna comunicazione civile è possibile. Mi spiace, dottor Giorgi".

Scagliai a terra il cellulare. Mi resi conto che stavo per mettermi a piangere. Mi vergognai per la mia debolezza, chinai il capo.

"A questo punto glielo posso dire, dottor Giorgi" riprese il funzionario, fingendo di non notare il mio estremo smarrimento. "Credo che la cosa non la rincuorerà più di tanto, tuttavia sappia che abbiamo risposto".

"Che cosa?" domandai. Non avevo capito, la mia mente era ormai in completa confusione.

"Un missile con cinque testate nucleari si sta dirigendo verso la Russia. Arriverà tra... (consultò l'orologio) undici minuti".

"Colpirà Mosca?" chiesi.

"Mosca e dintorni non esisteranno più. Per sempre".

"Mi scusi, dottor Giorgi, ma adesso la devo proprio lasciare" aggiunse. "Lei può rimanere qui ad attendere gli eventi. Non si muova, mi raccomando, e attenda eventuali istruzioni" disse il funzionario.

"Dopo... dopo che succederà?" chiesi, mentre lui era già voltato.

"Dopo? Non lo so, in ogni caso si tratta di una questione che ormai non riguarda più nessuno di noi due..." E uscì.

Mi avvicinai alla grande finestra. Il sole splendeva nel centro di Parigi. Un sole che tra pochi minuti sarebbe stato oscurato da una nube nera e maligna. In lontananza si intravedeva la sagoma della Torre Eiffel. La osservai mentre ormai le lacrime mi scorrevano copiose. Non l'avrei più vista, nessuno l'avrebbe più vista.

martedì 25 marzo 2025

TINA

"Giornalista! E chi l'avrebbe mai detto!" esclama Tina. Colgo un po' di ironia.

"Ricordi che ti aiutavo a scrivere i volantini? Anzi, i comunicati, come li chiamavi. Tu non avevi mai voglia di farlo, ti spazientivi subito".

"Già. A scrivere, in effetti, te la cavavi, ma su tutto il resto eri parecchio imbranato".

"Continuo a esserlo. Ho detto che lavoro in un piccolo giornale locale, non devo intervistare i capi di stato ma scrivere articoli di sport e impaginare necrologi. La tua vecchia amica Giovanna, piuttosto, ha fatto una bella carriera".

Tina volta il capo di scatto. Mi fissa per un attimo, poi i lineamenti del suo volto si sgretolano.

Giovanna era avanti di un paio d'anni rispetto a noi, ed era la migliore amica di Tina. Era una ragazza dall'intelligenza mostruosa, che preferiva il pensare all'agire. Era graziosa di aspetto, ma il suo viso era sempre troppo pallido, le sue trecce (sì, si ostinava a portare le trecce) erano sempre fatte male, i suoi pantaloni erano sempre troppo larghi e sul punto di scivolare giù. Allora non si badava più di tanto a queste cose, era più importante la sostanza dell'apparenza. E Giovanna era pura sostanza. Pochi anni dopo avere lasciato la scuola lavorava già nella redazione - cronaca cittadina - di un importante quotidiano nazionale. Quando notai e lessi un suo articolo, rimasi meravigliato. E ammirato, anche se non potei fare a meno di domandarmi, divertito, se il suo abbigliamento nel frattempo fosse cambiato oppure no. Dopo qualche anno non avevo più visto suoi pezzi. Diedi per scontato che avesse cambiato giornale.

"Giovanna è morta" dice Tina, con un sussurro.

"Che cosa?"

"È morta da quasi trent'anni".

"Per quale...".

"È morta di overdose".

Sono sbalordito.

"Tu non..." tento di chiedere.

"Certo che lo sapevo. L'ho sempre saputo. Aveva iniziato già ai tempi della scuola. Se ricordi, in quel periodo Giovanna ed io frequentavamo un sacco di gente di tutti i generi: studenti universitari, operai, attivisti di tutte le forze politiche estreme. Non tutti erano brave persone. Alcuni di loro approfittarono della fragilità di Giovanna, lei sottovalutò il problema. È sempre stata convinta di essere in grado di gestirlo, anche quando iniziò la sua attività di giornalista. Tuttavia sappiamo bene che non è così, è la merda che comanda, tutto il resto è al suo servizio. Con Alfio, in qualche maniera, sono riuscita a evitare il peggio. Con lei non c'è stato niente da fare. Non preoccuparti, mi diceva, so badare a me stessa. Stai tranquilla, insisteva, è tutto sotto controllo, mentre sotto controllo non c'era un cazzo di nulla. Alla fine se ne resero conto anche i colleghi, al giornale, e per lei iniziò la deriva finale. Preferisco non aggiungere altro, anche se ormai è trascorso molto tempo. Ricordare Giovanna è per me molto doloroso, anche perché nutro un grande senso di colpa. Soltanto io potevo salvarla, ma non ce l'ho fatta".

"Mi dispiace" riesco soltanto a dire. "Non ne sapevo nulla".

"Tranquillo" dice Tina, posandomi una mano sull'avambraccio.


Tratto dal romanzo: Un tempo ormai lontano di E. Sopegno (2024)

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martedì 18 marzo 2025

MAI FIDARSI

Mai fidarsi. Era successo proprio quello che non avrebbe mai dovuto accadere. Se la situazione non fosse stata così tragica, ci sarebbe stato quasi da ridere. Aveva sbagliato, non c'erano dubbi, e adesso non c'era più rimedio. Suo padre glielo diceva sempre: non fidarti mai degli altri. Aveva ragione, eccome se aveva ragione. Se gli avesse dato ascolto, non si sarebbe ritrovato in una circostanza così senza speranza. Tuttavia, e questo era stato il drammatico errore, aveva sempre pensato che l'ammonimento del genitore si riferisse agli altri, a quelli che non facevano parte della famiglia. Mai avrebbe potuto immaginare che a tradirlo sarebbero state proprio le persone che gli erano più vicine.

Con sua moglie, suo figlio e con i suoi fratelli era stato chiaro. Quella breve e semplice indicazione era stata ripetuta più volte nel corso degli anni. Non aveva ritenuto opportuno coinvolgere persone terze, procedere con dichiarazioni scritte da affidare a un notaio, nei suoi famigliari aveva fiducia assoluta. Che cosa era dunque capitato? Non lo sapeva, e ormai non era più interessato a saperlo. Almeno, lo credeva. Infatti continuava a rimuginare. Lo avevano fatto apposta? Lo escludeva, tutti i suoi cari gli volevano bene e lo rispettavano. Si trattava forse di una stupida dimenticanza? Certamente no. Se proprio qualcuno dei suoi era di memoria così carente, ci avrebbero comunque pensato gli altri a fare rispettare la sua volontà. Si trattava forse, e questo era il pensiero più doloroso, di semplice noncuranza, di colpevole sciatteria? No, non poteva essere. Loro erano persone per bene e responsabili che mai si sarebbero macchiate di una tale colpa. La verità, probabilmente, era un'altra. I suoi cari avevano considerato il suo un desiderio un po' eccentrico (non lo era per nulla!), lontano dalle tradizioni della famiglia, avevano acconsentito ma poi, tutti d'accordo, avevano cambiato idea. In tal modo avevano compiuto, sebbene in maniera inconsapevole, qualcosa di tremendo.

Sapeva che sarebbe finita in quel modo. Lo aveva sempre saputo e lo aveva sempre sentito. Proprio per questo aveva deciso di prendere le sue precauzioni. Invece era stato tradito, ingannato dalle persone che lo avrebbero dovuto salvaguardare. Ormai non c'era più niente da fare, non aveva più alcuna via d'uscita.

Desidero essere cremato, aveva detto e ripetuto durante l'intera sua vita. E adesso che era morto (o almeno ritenuto tale) e che il suo proposito non era stato rispettato si ritrovava ancora vivo (fino a quando?) sotto due metri di terra. Mai fidarsi.     

 

martedì 11 marzo 2025

ANNI SESSANTA

"Per prima cosa dovete dare il benvenuto ai vostri due nuovi compagni" dice la maestra, indicando Salvatore e un altro ragazzo, un tipo alto e grosso, con i capelli rasati e la pelle bianco latte.

"Giuseppe viene dalla montagna, e purtroppo deve ripetere la terza perché l'anno scorso è stato respinto. Speriamo che quest'anno si impegni di più".

Il ragazzone abbassa gli occhi e arrossisce violentemente.

"Salvatore invece arriva da più lontano" riprende l'insegnante. "Dalla Calabria, vero? Forza, prendi la bacchetta e fai vedere ai tuoi compagni, sulla cartina, dove si trova la sua regione".

Salvatore è assalito dal panico. Giù al paese, nella sua vecchia e povera scuola, cartine non ce n'erano. Lui sa di essere calabrese, ma non ha la minima idea di dove si trovi quella regione. Cerca comunque di dominarsi, esce dal banco, si dirige verso la cattedra e impugna la lunga bacchetta di legno. Si avvicina alla carta geografica dell'Italia che è appesa al muro. Sente tutti gli occhi dei compagni fissi sulla sua nuca. E poi ha un'illuminazione. Il mare, pensa. Vicino al suo paese c'è il mare. Allora guarda con attenzione la carta, ma subito lo sconforto lo paralizza. Il mare è dappertutto. La sua Calabria può essere ovunque! Non riesce neppure a distinguere i nomi che pure sono presenti in abbondanza su quella stampa colorata. L'ansia aumenta sempre di più, la vista si offusca.

"Forza, sbrigati!" lo incita la maestra.

Salvatore accosta, quasi con violenza, il bastoncino in un punto qualsiasi della cartina, quasi rischia di strapparla. Lo appoggia tra la terra e il mare, e subito sente le risate, che diventano sempre più intense.

"Quella è la Campania!" lo rimprovera l'insegnante. "Possibile che tu non sappia neppure dove sei nato? Vattene a posto!"

Un ragazzino, seduto all'ultimo banco, non riesce a smettere di ridere. Il suo volto è congestionato, gli occhi lacrimano. La maestra lo scruta accigliata. Poi si alza e si dirige a passo veloce verso il fondo dell'aula. Si accosta all'alunno e lo afferra con rabbia per un orecchio. Lo costringe ad alzarsi. Lui urla per il dolore, i suoi occhi continuano a versare lacrime che adesso non sono più di divertimento ma di sofferenza e umiliazione.


martedì 4 marzo 2025

DON GIOVANNI

Don Giovanni è scomparso. Da ieri nessuno lo ha più visto. Questa mattina, quando io e le mie amiche siamo entrate in chiesa per la messa delle sette, era tutto buio. Perché non ha avvisato? Abbiamo suonato il campanello della canonica ma non c'è stata risposta. Sempre più allarmate, siamo andate, quasi in processione, dal ragionier Airoldi, il responsabile parrocchiale. Siamo state ricevute dalla moglie, che era ancora in vestaglia anche se erano già le sette e mezza. Airoldi stava facendo colazione. È stato gentile, ci ha assicurato che si sarebbe occupato lui della questione. Avrebbe fatto alcune indagini e, se necessario, sentito la Curia. Ce ne siamo andate, orfane della messa, e siamo tornate alle nostre case vuote, a sbrigare le solite noiose faccende da zitelle.

Don Giovanni è con noi da qualche anno. È un bravo prete, abbastanza giovane e dinamico. Per la nostra parrocchia si è dato molto da fare, anche se non tutti apprezzano il suo operato. Innanzitutto non ha voluto la perpetua. Mi aiuterete voi, a turno, ha detto rivolto a me e alle mie amiche. E noi siamo state ben felici di farlo. Poi ha chiuso l'oratorio. È meglio se i giovani stanno a casa loro, a dare una mano ai genitori, ha detto. Molti parrocchiani non erano d'accordo. A me, invece, è sembrata un'ottima decisione. I giovani che si raccoglievano nelle sale dell'oratorio facevano soltanto chiasso, si spintonavano, qualcuno di loro addirittura bestemmiava, preso dalla foga durante i giochi più violenti. Meglio così, adesso le salette sono sempre ordinate e pulite. Don Giovanni ne ha trasformata una, quella grande, in sala cinema. Ogni settimana proietta un film, e dopo c'è un dibattito. Tutti film su drogati e donne maltrattate, che non riesco mai a capire bene. Ma non importa.

Don Giovanni, fisicamente, è un tipo ordinario. Non è molto alto, ed è di corporatura normale. Di capelli ne ha pochi, quelli rimasti sono disposti sui lati del capo. Il viso è tondo, il naso ha una piccola gobba. Porta sempre gli occhiali da sole, sia di giorno che di notte. Don Giovanni ha un debole per le donne. E, nonostante il suo aspetto comune, alle donne lui piace molto. Io e le mie amiche ci siamo subito innamorate di lui. È vero, lui è un poco più giovane di noi tutte, ma io credo che quando si tratta di sentimenti l'età non conti nulla. Lo ammetto, tra noi amiche si è sviluppata un po' di competizione per godere dei favori del parroco. Un confronto che si è svolto con estrema lealtà. Siamo tutte nella stessa condizione: sole, desiderose di un uomo, mai state sposate, mai avuta una relazione importante. Vinca la migliore, abbiamo sempre detto. Poi si è messa di mezzo la vedova Lenzi, quella maledetta. Si è intromessa e ha subito giocato sporco. Ha approfittato della sua esperienza, di qualche anno di meno, di un aspetto da tutti (non da me) ritenuto grazioso. E poi i belletti, i capelli sempre freschi di parrucchiere (il povero marito era benestante), le sottane un po' troppo corte. Don Giovanni, che in fin dei conti è un uomo, è caduto nella trappola. Ma io e le mie amiche abbiamo continuato a sperare. Tutte noi abbiamo qualcosa che la vedova Lenzi non avrà mai: siamo donne pie, non delle puttane come lei.

Don Giovanni aveva affidato a me un incarico importante: mantenere l'altare sempre lucido, per valorizzare le venature del prezioso marmo. Poi, poco tempo fa, sono entrata in chiesa e l'altare non c'era più. Don Giovanni ha intuito il mio smarrimento. Mi ha presa sottobraccio e mi ha accompagnata a un banco, quelli c'erano ancora. Entra acqua in chiesa, mi ha sussurrato il prete. Ho pensato di vendere l'altare e di fare aggiustare il tetto. Non possiamo permettere che piova nella Casa del Signore, aveva aggiunto suadente. Ho approvato la sua scelta. Certo, le spese per la copertura della chiesa dovevano essere davvero notevoli se Don Giovanni aveva poi dovuto vendere anche gli antichi paramenti sacri e tutti gli ori della Madonna. Pochi giorni dopo Don Giovanni si era comprato un'auto nuova. Il paese è composto di tante borgate, tutte distanti tra loro, mi aveva detto. Un territorio enorme, aveva aggiunto. Come faccio ad andare da un parrocchiano, in caso di bisogno, se non ho una vettura affidabile? Aveva ragione. La chiesa poteva aspettare, le persone no. Se non che quella automobile fiammante era stata vista una sera tardi, nel parcheggio del cimitero, da un contadino di nome Becchi. La macchina si muoveva avanti e indietro, eppure aveva il motore spento, aveva riferito il buon uomo. Lui non ci aveva capito nulla, ma tutti gli altri sì. L'importante era che a bordo con Don Giovanni non ci fosse quella sciagurata della vedova Lenzi, avevamo subito pensato io e le mie amiche.

Assorta nei miei pensieri, quasi non sento lo squillo del telefono. Mi asciugo le mani nel grembiule e corro a rispondere. È il ragionier Airoldi, finalmente! Ha chiamato la Curia e ha avuto notizie di Don Giovanni. Dapprima non volevano parlare poi, dopo le insistenze del ragioniere, che in Arcivescovato ha molte conoscenze, si sono sbottonati. Don Giovanni non tornerà più, hanno detto. Pare che il prete sia deciso ad abbandonare l'abito talare. Tutto a causa di una donna, hanno precisato, con la quale il nostro parroco ha intenzione di andare a vivere. Sebbene triste e addolorata, auguro a Don Giovanni tutto il bene possibile, a patto che la signora in questione non sia quella dannata della vedova Lenzi. Se così fosse, per me possono andare entrambi all'Inferno.

martedì 25 febbraio 2025

ME STESSO E IL TEMPO


Avversari? No, di avversari non ne ho più. Ormai ho soltanto nemici. E i miei unici nemici sono due: me stesso e il tempo. Di me stesso mi sono infine stufato. Sempre uguale, sempre prevedibile, entità insignificante che continua a ripetere le stesse cose. Ho già fatto tutto quel che potevo fare, mi dice, che cosa pretendi ancora da me? Qualcosa in più, anche di piccolo, uno scatto, una reazione ultima. E invece niente. Che cosa vuoi da me, dice quasi disperato. Guardami, lo sai bene come sono ridotto, aggiunge sempre più afflitto. Ti giuro, ho dato tutto, a volte mi sono quasi sorpreso di me, sono addirittura andato oltre i miei limiti, quei limiti imposti dal mio corpo fragile e dalla mia mente debole. Che cosa vuoi ancora? Liquido me stesso con un cenno. Di lui mi sono ormai seccato. Che vada pure al diavolo.

La questione del tempo, invece, mi assilla. Mi tormenta fino a farmi stare male. Mi sforzo di capire ma non ci riesco. Eppure, si dice, il tempo è la cosa più semplice che esista. Ricordo quando si attendeva, con ansia, con trepidazione, che qualcosa accadesse. Che un avvenimento trovasse finalmente compimento. Ma quando arriva Natale? Ma quando arrivano le vacanze? Ma quando arriva il mio compleanno?  Adesso vorrei che non accadesse mai nulla. Vorrei che le giornate fossero ininfluenti ma che, allo stesso tempo, trascorressero lentamente. Che non ci fosse nulla da ricordare, nessuna memoria da aggiungere al peso di quelle già esistenti. Un fatuo e lento fluire.  Se la concatenazione di fatti che accompagna le giornate non esistesse il tempo sarebbe beffato. Nel vuoto, nel nulla, il tempo non ha ragione di essere, di pesare. Invece tutto accade in fretta, in maniera quasi frenetica. Si annaspa, ma non è possibile aggrapparsi a nulla. Non rimane neppure il tempo di guardarsi indietro. Si deve per forza sempre guardare avanti, ma non c'è più niente a cui guardare.

Me stesso e il tempo, i miei due nemici. Chi dei due riuscirà a prevalere? Chi scriverà per primo la parola fine?