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domenica 24 dicembre 2017

CACCIA A BABBO NATALE


Il fucile è sotto il cuscino. Giulio dorme, ma il suo sonno è quello, molto leggero, di tutti i bambini la notte di Natale. Infatti un lieve rumore in salone subito lo sveglia. Giulio si stropiccia gli occhi e guarda l'ora: le undici e quaranta. Possibile che sia in anticipo? Il bambino si alza e imbraccia il fuciletto ad aria compressa, quello che gli ha prestato il suo amico Filippo. Di soppiatto, a piedi scalzi, si avvicina alla porta del salone, che è di poco scostata. Giulio sbircia attraverso la fessura e vede suo padre. L'uomo indossa una buffa vestaglia e in mano ha un piccolo pacco. Si guarda attorno, un po' disorientato per la poca luce, quindi si china e lo appoggia ai piedi dell'albero di Natale. Delle due l'una, riflette il bambino: o il genitore sta posando un dono per la mamma oppure, proprio come il suo amico Filippo, non crede all'esistenza di Babbo Natale e quel regalo è per il suo figliolo. Dopo avere eseguito il suo compito il padre, sempre muovendosi al buio, si dirige in cucina e beve un bicchiere d'acqua. Quindi esce dal salone. Giulio, quasi di corsa, ritorna nella sua cameretta prima di essere sorpreso. Si rimette a letto, ma il sonno non arriva più. Ormai è quasi mezzanotte, lui potrebbe arrivare da un momento all'altro. E infatti dopo pochi minuti il bambino sente di nuovo un lieve rumore. Si alza, imbracciando l'arma che non ha più posato, e torna in salone. Questa volta, meno prudente di prima, entra. Per prima cosa nota che l'ambiente non è più in penombra. C'è luce, ma una luce particolare, che lui fino a quel momento non ha mai visto. I mobili, gli oggetti, tutto risplende come se fosse ricoperto da una polvere d'oro. Giulio sposta lo sguardo verso il camino, e i suoi occhi si spalancano per la sorpresa. Vede dapprima spuntare due gambe poi, poco alla volta, un intero corpo. Babbo Natale si guarda intorno, un po' smarrito, si spolvera la giubba, si raddrizza il berretto, posa a terra un grosso sacco, quindi ritrova la sua antica padronanza. Ed è proprio in quell'istante che scorge il bambino, e il fucile puntato contro la sua pancia.
"Mani in alto" sussurra Giulio. "Un solo gesto e sei morto".
Babbo Natale, colto alla sprovvista, ubbidisce.
"Ehi! Ma tu chi sei? E che cosa vuoi fare? Mi vuoi sparare?" domanda.
"No, non ti voglio sparare, mi servi vivo. Ma dovrai fare ciò che ti dico" dice Giulio.
"Guarda che quel fucile lo riconosco" dice Babbo Natale.
"Eh?"
"Certo. L'ho portato in dono lo scorso Natale a un bambino che abita qui vicino".
"È il mio amico Filippo".
"Oh, me lo ricordo bene quel bambino. Sai, io sono contrario a regalare armi ai bambini, perché è diseducativo, ma devo ammettere che quel tuo amico mi aveva messo davvero in difficoltà" spiega Babbo Natale, sempre tenendo d'occhio il fucile.
"Cioè?"
"Nella sua lettera esprimeva un solo desiderio".
"O il fucile o niente?" dice Giulio.
Babbo Natale ridacchia.
"Esatto. Vedo che lo conosci bene il tuo amico".
"Filippo è un gran testone".
"Alla fine, seppure a malincuore, ho deciso di accontentarlo. Sai, non è possibile che un bambino non riceva doni a Natale. Tuttavia quest'anno ci sono rimasto male quando da Filippo non ho ricevuto alcuna lettera. Che cosa è accaduto?"
"Semplice. È successo che Filippo non crede più a Babbo Natale" dice Giulio.
Sul volto del vecchio si disegna un'espressione triste.
"Oh, mi dispiace" dice.
Giulio scruta con maggiore attenzione l'imponente figura che gli sta di fronte, sotto il tiro del suo fucile. Nota che la giubba e pantaloni del vecchio sono spiegazzati e consumati, il loro colore è rosso smorto. Poi osserva il suo viso. Un volto completamente diverso da quello dei tanti Babbi Natale finti che ha visto per strada o al centro commerciale nei giorni precedenti. Il bambino non sa spiegarsi in cosa consista esattamente tale differenza, semplicemente percepisce in lui una sembianza... vera.
"Scusami" dice Babbo Natale, cercando di approfittare dell'attimo di smarrimento del bambino. "Adesso devo proprio andare".
Giulio scuote il capo.
"Non se ne parla" risponde il bambino. "Devo portare a termine la mia missione".
Babbo Natale sospira, rassegnato.
"E in cosa consiste la tua missione?" domanda.
"Devo dimostrare a Filippo che si sbaglia".
"E cosa vorresti fare?"
"Ti devo trattenere in ostaggio. Dovrò legarti a una sedia e domattina ti mostrerò a Giulio. A quel punto sarà costretto a credere".
Babbo Natale sospira di nuovo, poi abbassa le mani e inizia a frugare nel sacco.
"Fermo o sparo!"
"Non ti preoccupare, voglio soltanto consegnarti il tuo regalo. Nonostante tutto te lo meriti".
Il vecchio posa un grande pacco proprio ai piedi del bambino.
"Grazie" dice Giulio, emozionato.
"Su, adesso abbassa il fucile e lasciami andare" dice Babbo Natale.
"Non posso" dice Giulio, con voce incerta.
"Il mio giro è ancora molto lungo. Vuoi forse che molti bambini rimangano senza il loro dono? I bambini poveri, quelli più sfortunati, quelli che durante tutto l'anno non ricevono mai alcun regalo?"
Giulio scuote il capo poi, lentamente, abbassa il fucile.
"Sei veramente un bravo figliolo" dice Babbo Natale, che poi si issa in spalla il sacco.
Ed è in quel momento che a Giulio viene il lampo di genio. All'improvviso, come sovente capita ai bambini. Posa a terra il fucile, rovista nella tasca del pigiama ed estrae il cellulare, regalo di Babbo Natale dell'anno precedente. Con un balzo si affianca al vecchio, si mette in posa e scatta un selfie. Babbo Natale, sbigottito da quella fulminea iniziativa, è immortalato in una comica espressione. La stessa che il giorno di Natale Giulio mostrerà al suo amico Filippo, quel testone.

BABBO NATALE CLOCHARD


Mi trovo in coda in mezzo al traffico. In questi giorni che precedono le feste la circolazione è impossibile. Le automobili sono pigiate come sardine in scatola, come acciughe in un barile. Mi distraggo e penso a qualcosa che ho letto qualche tempo fa. Una ricerca di un istituto di fisica di una prestigiosa università. Erano analizzate, appunto, le dinamiche del traffico. Si diceva è del tutto controproducente stare incolonnati con il muso dell'auto che bacia il posteriore del veicolo che ci precede. Per snellire la circolazione, per favorire la ripartenza delle automobili dopo una sosta al semaforo, sarebbe invece opportuno, e più intelligente, mantenere una distanza di almeno dieci metri tra un veicolo e l'altro. Sospiro. Nessuno sarebbe mai disposto a fare una cosa del genere, soprattutto perché si tratta di un'azione perspicace. Il semaforo è di nuovo rosso. Mi guardo attorno e scorgo un uomo che si aggira tra le auto. Non si tratta di uno dei soliti lavavetri, e neppure di qualcuno che cerca di piazzare fazzoletti di carta. E non si tratta neppure di qualcuno che semplicemente chiede l'elemosina. L'uomo appare un po' smarrito. Avrà circa sessant'anni e il viso solcato da profonde rughe. Porta capelli lunghi e barba incolta, somiglia un po' a Babbo Natale, ma i suoi vestiti non sono di brillante panno rosso, bensì sporchi e laceri. Un Babbo Natale clochard, insomma. Un Babbo Natale alla rovescia, che invece di portare doni si augura di riceverli. L'uomo si avvicina al mio finestrino e mi sorride. Ricambio, perché la sua espressione è mite e buona. Subito i miei occhi si posano sul vano portaoggetti, dove giacciono da tempo alcune monetine. Ma distolgo subito lo sguardo. D'istinto mi slaccio la cintura di sicurezza, frugo in tasca e tiro fuori il portafoglio. Estraggo una banconota, abbasso il finestrino e la consegno all'uomo. Noto che le sue mani sono molto sporche, le sue unghie orlate di nero. Lui prende la banconota, si inchina e poi la bacia. Poi, con un gesto leggiadro, indirizza quel bacio nella mia direzione. Lo saluto e richiudo il finestrino. A questo punto dovrei essere contento, dovrei provare la consueta gioia che si prova quando si compie un bel gesto (si sa che una buona azione appaga soprattutto chi la compie, più che il destinatario della stessa). Invece il mio corpo è percorso da un brivido gelato. Un'automobile, dietro di me, suona il clacson. Nello specchietto retrovisore scorgo il ghigno del conducente, lo vedo che gesticola nei miei confronti. Il semaforo è diventato verde e io non sono ripartito.

mercoledì 20 dicembre 2017

LE STORIE DI MAGNÌN



Le storie di Magnìn, il figlio dello stagnino, e della sua stravagante banda di amici. Storie ad alto contenuto alcolico, irriverenti e un po' scorrette. Le storie di un tempo che non c'è più



 Magnìn, il figlio dello stagnino, osservava divertito la disputa. Lui non era particolarmente interessato all'allevamento dei conigli. Si accese una sigaretta senza filtro e pensò che aveva quasi finito i soldi. Tra qualche giorno avrebbe dovuto cercare un lavoro. E l'avrebbe subito trovato, sicuro, perché lui era in grado di svolgere qualsiasi mansione, tuttavia non amava essere intrappolato in una attività fissa, con obblighi e orari. Lui era un uomo libero e non gli piaceva stare in gabbia.




Titolo: Le storie di Magnìn
Autore: Enzo Sopegno
Data di uscita: 2017
Pagine: 212
Copertina: morbida
Editore. Youcanprint
ISBN: 9788892658431



Reperibile presso Youcanprint.it (in versione cartacea o e-book) e nelle principali librerie virtuali ((Mondadori, Feltrinelli, Libreria universitaria).










mercoledì 13 dicembre 2017

PAURA - 2° E ULTIMA PARTE


Pietro, ancora un po' stordito, esce in strada e si avvia - con passetti brevi perché guai cadere sarebbe una vera tragedia - verso il più vicino bidone della spazzatura. Cerca di sollevare il coperchio con una mano ma non vi riesce. Quei maledetti coperchi ogni giorno diventano più pesanti, pensa, oppure è lui che sta perdendo sempre più le forze. Allora il vecchio posa a terra il sacchetto fetido e agisce con le due mani riuscendo alla fine nel suo intento. Quando però si china per raccogliere il sacco la copertura del bidone scatta come una tagliola e ne richiude l'apertura. Tutto da rifare. Pietro si guarda attorno, stanco e scoraggiato.
"Aspetti, la aiuto io" dice un uomo, che poi si avvicina. Pietro lo riconosce, si tratta di Rozzi, quello del sesto piano. Pietro ha sempre avuto un po' paura di quell'individuo con il volto dai tratti di fiera, in ogni caso ne accetta volentieri l'assistenza. In un attimo è tutto fatto.
"Che giornata di merda!" sbotta Rozzi all'improvviso. L'anziano si fa piccolo di fronte a quella sfuriata. L'uomo tuttavia sorride, pure se il suo sorriso è simile a un ghigno.
"Non si spaventi, non ce l'ho con lei. Sa che cosa mi tocca fare adesso? Devo andare a prendere il bus".
"Anch'io lo facevo, quando andavo al lavoro" dice Pietro, timidamente.
"Io invece non lo faccio mai, non sopporto tutta quella calca. Il fatto è che la mia macchina è guasta, e sa perché è guasta?"
L'anziano, sbigottito, scuote il capo.
"Perché ieri l'ha usata mia moglie!" sbraita Rozzi, all'improvviso rabbioso.
Pietro, un po' intimorito, adesso annuisce.
"Con quelle cazzo di scarpe con il tacco mi ha bruciato la frizione!" prosegue l'uomo.
L'anziano solleva le spalle. Cose che succedono, vorrebbe dire, ma rimane ben zitto.
"Ha capito? Tutta colpa di quelle dannate scarpe!"
Pietro decide che è meglio dire qualcosa, potrebbe servire a placare, benché in parte, l'ira di quell'uomo.
"La sua signora sta bene con le scarpe dal tacco alto. Anche mia moglie, quando era giovane, le portava".
L'altro lo guarda, i suoi lineamenti bradi sono tirati, quasi deformi.
"Già, sta proprio bene, sembra un'autentica troia" sibila prima di andarsene senza salutare.
Pietro pensa alla graziosa ma sventurata signora Rozzi, che ha incontrato appena qualche giorno prima. La donna, gentile come sempre, si era fermata a parlare con lui. Pietro aveva subito notato il grosso livido giallastro sul suo zigomo destro. Lei, notando lo sguardo, aveva sorriso imbarazzata.
"Ha visto quanto sono sbadata?" aveva detto. "Ho sbattuto contro lo sportello dello scolapiatti". Poi si era scusata farfugliando qualcosa e si era allontanata a capo chino.
Pietro, ancora sconcertato e anche un po' allarmato, sosta per un attimo sul marciapiede, in attesa di rimettersi in movimento per raggiungere la sicurezza delle quattro mura di casa sua. Proprio quando tenta di riattivare il suo logoro telaio una bimbetta, sopraggiungendo di corsa, va a sbattere contro le sue gambe. Il vecchio barcolla vacilla ondeggia ma riesce a rimanere in piedi, a evitare la caduta, il suo ricorrente incubo.
Sopraggiunge un uomo alto, magro, con i capelli ricci e la pelle scura. È l'arabo che vive al primo piano del suo palazzo, un marocchino o un egiziano, Pietro non lo ricorda più.
"Mi scusi, mi scusi" dice l'africano con un accento particolare, esotico e strascicato.
"Le ha fatto male?" aggiunge. La bimba, nel frattempo, si sistema accanto al padre, con gli occhi bassi. È carina, la bamboccetta, con le sue treccine del color della pece, il grembiulino immacolato, il pesante zainetto sulle esili spalle. Sembra davvero dispiaciuta per quel piccolo incidente.
"Non è successo nulla" dice Pietro.
L'uomo si tranquillizza poi, in tono severo, si rivolge alla figlioletta: "Chiedi scusa al nonno".
La bambina ubbidisce e pronuncia quelle parole di giustificazione a voce talmente bassa che Pietro quasi non le sente ma le legge dalle sue labbra vermiglie. I due riprendono il loro cammino verso la scuola. La stessa cosa fa Pietro, diretto però all'ingresso dello stabile. Un brav'uomo, quello straniero, pensa l'anziano. Non ricorda più quale sia il suo nome, perché quelli sono nomi strani, e la sua memoria spesso lo tradisce. Un buon padre di famiglia, perché di figli ne deve avere tre o quattro, e un onesto lavoratore. Il fatto è che l'apparenza spesso inganna. Una vita normale, tranquilla, un comportamento al riparo di ogni sospetto, il profilo basso; tutte cose che potrebbero nascondere una realtà ben differente. Pietro sa che a pochi isolati dal suo stabile uno scantinato, che una volta era un garage, è stato trasformato in una moschea dove si recano a pregare il suo vicino e tanti altri come lui. Musulmani. Ma davvero pregano? Pietro non lo sa, perché in quel sotterraneo non c'è mai stato, neppure ci vorrebbe andare, e probabilmente gli sarebbe comunque negato l'accesso. Ha letto di luoghi simili, ufficialmente destinati al raccoglimento, che si sono trasformati in covi di terroristi, nei quali si cospira contro l'Occidente. Davvero quell'egiziano o marocchino che sia è una brava persona? Oppure è un individuo in apparenza mite ma del quale bisogna avere paura?
Sfinito, Pietro rientra nel palazzo. Dà un'occhiata alla guardiola del custode. Il signor Pasquale non c'è, al suo posto è seduto il figlio, quel ragazzo con la testa rasata, lo sguardo vacuo ma cattivo, che indossa sempre pantaloni strappati alle ginocchia e magliette di colore nero. Pietro si è sempre sentito intimorito alla presenza di quel giovane, che lo squadra beffardo. Se lo incontrasse di notte in un vicolo non esiterebbe un istante a consegnargli il portafoglio. Nella sua pur giovane esistenza il figlio del custode ne ha già combinate tante: ha abbandonato la scuola, ha passato alcuni mesi in riformatorio a causa di un piccolo furto, subito dopo ha cominciato a far uso di droghe ed è stato per un periodo ospite di una comunità di recupero. Pietro pensa con commiserazione ai poveri genitori di quel ragazzo sbandato, il signor Pasquale e la signora Lina, alle loro continue preoccupazioni e angosce.
L'ascensore finalmente arriva. Pietro sale, preme il pulsante del suo piano e mentalmente incita la macchina a correre, a fare presto, perché la sua claustrofobia crescente rischia di provocargli una crisi d'ansia. Il vecchio pensa a quando non riuscirà più, e prima o dopo sarà così, a richiudersi senza timore in quel lucido loculo verticale, a quando sarà prigioniero nel suo appartamento, poiché già ora le sue gambe deboli non gli permettono di affrontare quelle interminabili rampe di scale.
Pietro entra in casa e chiude la porta a chiave. Fa due tre passi stentati poi crolla su una sedia. Il suo viso assume un pallore mortale, la fronte solcata da rughe profonde e antiche si imperla di minuscole gocce di sudore gelido. Sua moglie ciabattando gesticolando berciando si avvicina a lui.
"Che cos'hai? Che cosa hai fatto? Perché sei stato via così tanto?" martella l'anziana donna.
"Zitta" sussurra Pietro. Il vecchio è stato assalito di colpo da una consapevolezza che lo sconvolge e lo atterrisce. Ha paura, una sensazione che parte dal profondo delle sue viscere e che si diffonde attraverso tutte le propaggini del suo corpo logoro. Ma non si tratta della solita paura, quella percezione con la quale ha imparato a convivere da quando si è reso conto che la materia che lo compone è diventata debole e friabile. Ha paura delle persone. Ma si rende conto che non ha paura dell'avvocato Brighi perché è un razzista, non teme il signor Rozzi perché è un individuo violento, non è spaventato dal musulmano che potrebbe essere un terrorista, non ha paura del giovane figlio del custode anche se è un potenziale delinquente. No, il vecchio ha paura di loro, di tutti loro allo stesso modo, semplicemente perché sono esseri umani.
Sono esseri umani proprio come te, Pietro.

sabato 9 dicembre 2017

PAURA - 1° PARTE


Il vecchio si sveglia. Lentamente si mette a sedere poi appoggia a terra prima un piede quindi l'altro. Piano, con estrema calma, perché una vertigine provocata da uno sbalzo di pressione è sempre in agguato, e un giramento di testa improvviso potrebbe causare una caduta dalle rovinose conseguenze. Il vecchio finalmente si alza in piedi, infila le fruste ciabatte di cuoio marrone e inizia a muoversi. Dapprima i suoi piedi scivolano sul pavimento, poi le sue ginocchia si sollevano di quel poco da consentire dei passi brevi ma più sicuri. Ginocchia che scricchiolano e crocchiano, muscoli, o quel che ne rimane, indolenziti e pesti, schiena rigida e spalle dolenti. L'evidente disfacimento del corpo non rappresenta comunque l'unica complicazione per quest'uomo anziano, ormai ai confini dell'esistenza, quest'uomo che chiameremo per convenienza Pietro. Perché quest'uomo, Pietro abbiamo detto, ogni volta che al mattino apre gli occhi ha paura. Lui tuttavia non ne è del tutto consapevole. Non lo è poiché tale suo quotidiano sbigottimento vitale è ormai del tutto connaturato con il suo essere, circonda avvolge penetra possiede il suo fragile involucro e la sua mente stanca, ne determina i pensieri e le azioni.
Gemendo e sbuffando, poiché rimettersi in moto è sempre una scommessa, Pietro raggiunge la minuscola cucina. È presto, sono soltanto le sette, ma ciò è normale perché i vecchi dormono poco, il loro sonno è agitato tormentato interrotto, in ogni caso sua moglie è già in piedi da almeno un'ora impegnata a sfaccendare a pulire a cercare di essere utile a dimostrare di essere viva. La donna, in vestaglia pesante perché l'appartamento è ancora freddo, le ciocche bianche disordinate e bisognose di spazzola, osserva per un attimo la caffettiera sul fuoco poi scuote il capo afferra uno straccio lo passa sulla già lucida superficie del lavello afferra un barattolo lo posa su una mensola strofina le mani artritiche sui fianchi si dirige di nuovo ai fornelli annuisce al caffè che brontola e spegne il fuoco.
Pietro si blocca un istante e la osserva. Che energia, le donne. Questa, lui lo sa, lo seppellirà. È inevitabile. Lei lo scorge.
"Ehi, ti sei alzato finalmente" dice, poi inizia a brontolare qualcosa, sottovoce. Sono quasi cinquant'anni che farfuglia si lagna e mugugna di continuo, Pietro ormai non vi bada più. La saluta con un impercettibile cenno del capo, il bisogno di comunicare a parole è minimo e ridotto all'indispensabile, quindi inizia a vestirsi recuperando camicia e pantaloni dallo schienale della sedia sulla quale li aveva deposti la sera prima. Si infila le scarpe si siede e le allaccia impiegando un'eternità.
"Il caffè è pronto" dice la donna, in piedi in mezzo alla cucina a braccia conserte. Pietro scuote il capo.
"Colazione la farò dopo" dice. Sono le prime parole che pronuncia e il loro suono è basso stentato vagamente catarroso. E potrebbero essere anche le uniche dell'intera giornata, pensa il vecchio, e tale riflessione possiede un qualcosa di divertente e di irriverente allo stesso tempo.
Lei avanza di due passi lo affronta sollevando il mento aguzzo dal quale spunta un lungo pelo grigio arricciato.
"Dove vuoi andare?"
Pietro non risponde, con un gemito di dolore raccoglie le ossa dolenti si alza dalla sedia si dirige verso il sottolavello lo apre si china, una riverenza ad angolo retto che potrebbe bloccarlo per sempre, estrae il sacco della spazzatura e lo lega con cura, i suoi nodi non si sciolgono mai.
"Proprio adesso devi andare?" lo rimbrotta la moglie. "Con tutta la giornata di tempo!"
Lui schiocca le labbra solleva le spalle veste la giacca prende le chiavi di casa ed esce. Pietro ha fatto il duro, l'uomo forte, quello che non si fa sottomettere dalla moglie, quello che prende da solo le sue decisioni, quello che faccio ciò che voglio e tu brontola pure tanto non ti do retta, ma appena si ritrova sul pianerottolo perde all'improvviso tutta la sua risolutezza. Chiama l'ascensore, sente una porta aprirsi poi chiudersi sbattendo e subito si materializza accanto a lui l'avvocato Brighi. La statura imponente, insaccata in un abito gessato grigio, gli occhiali da sole, i radi capelli lisciati all'indietro, l'avvocato ha messo da tempo il suo discutibile bagaglio giuridico al servizio di un movimento politico xenofobo.
"Buongiorno" dice Pietro con un filo di voce. L'altro accenna un saluto abbassando il capo, il pur lieve movimento accentua la sua trasbordante pappagorgia. Una compagnia sgradevole, quella dell'odioso avvocato, pensa Pietro, per quel viaggio di otto piani. Tuttavia quella presenza indesiderata almeno in parte rassicura l'anziano. È difficile ammetterlo ma, negli ultimi tempi, prova sempre un certo timore nell'affrontare da solo il percorso chiuso nella stretta cabina. L'ascensore potrebbe bloccarsi, lui avere un mancamento e non essere in grado di chiamare i soccorsi. I due entrano nel cubicolo, le porte si chiudono.
"Fai attenzione" sussurra l'avvocato. Pietro si volta, guarda il bestione dal basso in alto.
"Uh?" Il vecchio è perplesso, e infastidito. Innanzitutto perché non ha ben compreso che cosa abbia detto Brighi, l'udito purtroppo non è più quello di una volta, ma di sicuro l'uomo gli ha mancato di rispetto, rivolgendosi a lui in maniera troppo confidenziale e non considerando la sua veneranda età.
L'avvocato si avvede della confusione di Pietro.
"Ho detto fai attenzione" ripete alzando il tono di voce. "A uscire da solo, intendo".
"Perché?"
"Fuori è pieno di zingari che non vedono l'ora di aggredire le persone anziane e indifese. Dovresti almeno portarti un bastone, che ti può pure essere di aiuto nel camminare tra l'altro, e nel caso in cui qualcuno ti infastidisca gli puoi sempre spaccare la testa".
Le porte si spalancano, i due escono nell'atrio del palazzo.
"Non ho mai visto zingari" balbetta Pietro.
"Tu non li vedi ma loro vedono te" ribadisce sicuro Brighi.
"E poi gli zingari non aggrediscono le persone, al più svaligiano gli appartamenti" dice Pietro, e mentre lo dice si augura che il prossimo alloggio ripulito sia proprio quello dell'avvocato.
"Ti devi guardare anche da albanesi, romeni, polacchi, ucraini e soprattutto da beduini e negri. Mi raccomando, tieni gli occhi aperti e sbrigati a buttare quel sacchetto che puzza di marcio" aggiunge Brighi prima di allontanarsi con il suo passo da pachiderma.

venerdì 1 dicembre 2017

DUE RAGAZZI IN BIBLIOTECA


I due ragazzi pedalano sulla strada deserta, in sella alle loro biciclette Il primo, quello più robusto, ne cavalca una da donna, vecchia, malconcia, di uno sbiadito color azzurro. L'altra, quella dell'amico, invece è rossa, perfettamente pulita e ben tenuta. Sono diretti al paese vicino, dove hanno intenzione di visitare una biblioteca. Hanno saputo che è appena stata aperta, e la curiosità li spinge a dare un'occhiata. I due viaggiano affiancati, conversando. Il sole picchia inesorabile. Per difendersi dai raggi infuocati Beppe indossa uno strano copricapo, un casco coloniale. Lo ha scovato in soffitta e ignora a chi sia appartenuto in passato, però gli piace indossarlo quando esce, del tutto indifferente agli sguardi stupiti della gente. Anche Vincenzo ha il capo protetto. Si tratta di un misero berrettino di tela, che reca la scritta pubblicitaria di una ditta di mangime per polli. A un certo punto la conversazione tra i due amici diventa più animata. Stanno discutendo di letteratura, la grande passione di entrambi. Beppe è un convinto sostenitore di Emilio Salgari. Vincenzo, al contrario, parteggia per Jules Verne. È così, da sempre. Un solo autore li trova di comune accordo, senza alcuna riserva: Jack London. E allora iniziano a parlare dell'autore americano e dei protagonisti dei suoi romanzi. I cani e i lupi, innanzitutto. Ricordano il coraggioso Zanna Bianca, il temerario e nostalgico Buck. E poi l'allegro e buffo Jerry e Michael, lo sfortunato cane da circo. Parlando e dibattendo il tempo trascorre veloce. I due ragazzi si accorgono di essere giunti a destinazione. La nuova biblioteca è situata presso i locali del municipio del piccolo paese. Le biciclette vengono per il momento abbandonate. A un tratto Beppe scorge una porticina. Un cartello scritto a mano reca l'indicazione che stava cercando. Vincenzo lo raggiunge. I due entrano nell'edificio, salgono una stretta scala di pietra e finalmente fanno il loro ingresso in biblioteca, che è composta da un unico locale. Oltre a loro due non c'è nessun altro, a parte la bibliotecaria. Una donna sui cinquant'anni, di corporatura robusta, quasi grassa. Non molto alta, e che esibisce una voluminosa permanente. E che porta i baffi. Almeno, tale è l'impressione dei due giovani. La bibliotecaria osserva sbalordita il copricapo stile coloniale di Beppe, quindi fornisce alcune indicazioni. Precisa quali sono i volumi che possono essere concessi in prestito e quali invece sono ancora da catalogare. A quest'ultima categoria, per la verità, appartiene la maggior parte dei libri. E, pare, proprio i più interessanti. I ragazzi sono delusi. Chiedono se possono comunque dare uno sguardo ai libri non schedati, e il permesso è loro accordato. I due amici hanno notato che, fra questi, ci sono parecchi romanzi di fantascienza, un'altra delle loro passioni. Cominciano a esaminarli e Beppe ha un tuffo al cuore. Ha trovato Un cantico per Leibowitz, di Walter Miller jr! Incredibile. Mitico. Il premio Hugo del 1961! Anche Vincenzo ha scovato qualcosa di interessante: Universo di Robert Heinlein. È da tanto che lo sta cercando. Tempo prima ha letto, su una rivista specializzata, il celebre incipit del romanzo (Attenti! C'è un mutante laggiù!) e ne è rimasto folgorato. I due ragazzi, con in mano i loro tesori, tornano dalla bibliotecaria e la implorano di fare un'eccezione, di prestare loro ugualmente i libri, anche se non sono stati ancora registrati. Ma la donna si dimostra inflessibile, e rigetta con fermezza l'accorata richiesta. La burocrazia prevale sul desiderio dei due amici. Anzi, i due sono invitati ad andare subito a riporre i libri, a rimetterli dove li hanno trovati. Beppe e Vincenzo sono scontenti, frustrati, non riescono a rassegnarsi. Alla fine eseguono e, mentre stanno per completare l'operazione, si avvedono che la bibliotecaria sta trafficando con la finestra. Non riesce ad aprirla, è abbastanza distante e soprattutto volta loro le spalle. Un rapido scambio di sguardi, ed è un attimo. I libri sono lestamente infilati sotto le magliette e ben calcati fino alle mutande. Adesso non resta che uscire. Giustizia è fatta. Quei due capolavori non rimarranno a languire in quel luogo triste, bensì ritroveranno vita. Saranno letti, apprezzati e ben custoditi. I due ragazzi passano veloci davanti alla donna bofonchiando un frettoloso saluto e si dirigono verso la porta. Ma lei ordina loro di fermarsi. Beppe e Vincenzo impallidiscono. Presi! E invece non è così. Sono semplicemente invitati a sottoscrivere la tessera, anche se non hanno preso libri in prestito. Un'incombenza in meno per la prossima volta. La bibliotecaria, infatti, è sicura che i ragazzi torneranno, appena tutti i libri saranno disponibili. Ha notato il loro grande interesse. Ai due amici non resta che accettare. Compilano il modulo con estrema sofferenza. Faticano a chinarsi per poter scrivere. Gli spigoli dei volumi sottratti toccano punti sensibili dei loro corpi e non si può forzare il movimento in avanti più di tanto. Alla fine comunque riescono a concludere quella che è una vera e propria impresa. Adesso Beppe e Vincenzo sono paonazzi in volto e, appena possono, scappano in tutta fretta da quel posto. Scendono di corsa le scale e si precipitano a recuperare le biciclette. Ancora non osano sfilare i libri dai pantaloni e dunque i loro gesti risultano essere un po' impacciati. Beppe, in particolare, è euforico. Passando, già in sella alla bicicletta, accanto all'Albo Pretorio, strappa dei fogli e li sventola in aria, come fossero un trofeo. Per buona sorte nessuno, nei paraggi, assiste alla scena. Vincenzo rimprovera l'amico con asprezza e pesta sui pedali. Via! Dopo alcuni minuti di corsa forsennata i due ragazzi sono fuori dal paese e si fermano. La deliberazione rubata è gettata in un fosso. I libri sono finalmente estratti dai loro nascondigli e portati alla luce. Soltanto adesso sono davvero liberi.