La
casa di Michele era situata proprio di fronte alla mia. Un ammasso sgangherato
di mattoni e intonaco scrostato che sembrava voler crollare da un momento
all'altro. Michele aveva un anno più di me, ma era stato bocciato diverse volte
e si ritrovava un anno indietro. Il ragazzino era considerato, in paese, una
cattiva compagnia: giocare con lui era tassativamente proibito.
Suo
padre, che faceva lo stradino, era un uomo di poche parole. Aveva una gamba
rigida che gli dava un'andatura zoppicante. Le sue mani, però, erano svelte,
capaci di riparare qualsiasi cosa. La madre, invece, si muoveva come un'ombra,
furtiva e silenziosa, ma la sua lingua era un mulino che macinava pettegolezzi
senza sosta. E poi c'erano le sorelle di Michele, tutte e due più grandi di
lui. Erano il ritratto dell'antipatia e della scortesia, sempre pronte a pavoneggiarsi
con abiti economici ma vistosi. A me, bambino, quelle ragazze facevano pensare
alle sorellastre di Cenerentola.
Nonostante
il divieto, le occasioni per incontrare Michele non mancavano. Lui era un tipo
strano, taciturno, con una voce ruvida e sgradevole che sembrava grattare la
gola. Non gli piaceva nessun gioco, nessuna delle nostre innocenti corse o
delle finte battaglie. L'unica cosa che amava fare era tirare sassi, e le sue
tasche erano sempre rigonfie di proiettili. Aveva anche una fionda, fabbricata
da lui, con la quale andava a caccia di uccelli. Quando aveva occasione di
sgraffignare qualcosa, inoltre, non si tirava mai indietro. Sapevo che fumava:
rubava cartine e tabacco al padre e con quelle fabbricava sigarette dalla forma
sgraziata. A volte mi permetteva di assistere ai suoi riti segreti. Le
accendeva di nascosto, ma ogni boccata si traduceva in un minuto intero di
tosse convulsa. Poi buttava via la sigaretta, mugugnando che il tabacco faceva
schifo e che quelle con il filtro erano un'altra cosa, ma suo padre,
aggiungeva, era troppo tirchio per comprarle. Io pensavo che il genitore non
fosse avaro, ma semplicemente povero, o almeno, questo era ciò che sentivo dire
dai miei.
Michele
non aveva amici. Girava quasi sempre da solo, un lupo solitario. Conosceva un
numero impressionante di parolacce, che snocciolava in serie. Solo col tempo
capii che le usava a vanvera, senza conoscerne il vero significato. A volte era
manesco, sembrava quasi che la violenza gli piacesse. Quando percepivo la sua
irrequietezza, mi allontanavo. Lui mi richiamava e, se non tornavo, mi tirava
pietre con una mira incredibile. Se i miei genitori avessero scoperto i miei
incontri con Michele, sarei stato punito con severità. A me sembrava ingiusto.
Certo, aveva un brutto carattere, ma isolarlo in quel modo non era la migliore soluzione.
Una
mattina, all'inizio dell'estate, scesi in strada e un senso di vuoto mi colpì.
La casa di Michele era deserta. Lui e la sua famiglia se n'erano andati alla
chetichella, senza un saluto, senza una parola. L'intera borgata tirò un
sospiro di sollievo. Quella famiglia così scostante non era mai piaciuta a nessuno.
Eppure, in fondo, io ne fui un po' dispiaciuto. Michele non era mai stato mio
amico, e a volte mi faceva persino paura, ma era stato il ragazzo più
particolare che avessi mai incontrato nella mia infanzia, unico, del tutto
diverso da me e da tutti gli altri.


Nessun commento:
Posta un commento