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martedì 7 ottobre 2025

LO SCAPESTRATO

La casa di Michele era situata proprio di fronte alla mia. Un ammasso sgangherato di mattoni e intonaco scrostato che sembrava voler crollare da un momento all'altro. Michele aveva un anno più di me, ma era stato bocciato diverse volte e si ritrovava un anno indietro. Il ragazzino era considerato, in paese, una cattiva compagnia: giocare con lui era tassativamente proibito.

Suo padre, che faceva lo stradino, era un uomo di poche parole. Aveva una gamba rigida che gli dava un'andatura zoppicante. Le sue mani, però, erano svelte, capaci di riparare qualsiasi cosa. La madre, invece, si muoveva come un'ombra, furtiva e silenziosa, ma la sua lingua era un mulino che macinava pettegolezzi senza sosta. E poi c'erano le sorelle di Michele, tutte e due più grandi di lui. Erano il ritratto dell'antipatia e della scortesia, sempre pronte a pavoneggiarsi con abiti economici ma vistosi. A me, bambino, quelle ragazze facevano pensare alle sorellastre di Cenerentola.

Nonostante il divieto, le occasioni per incontrare Michele non mancavano. Lui era un tipo strano, taciturno, con una voce ruvida e sgradevole che sembrava grattare la gola. Non gli piaceva nessun gioco, nessuna delle nostre innocenti corse o delle finte battaglie. L'unica cosa che amava fare era tirare sassi, e le sue tasche erano sempre rigonfie di proiettili. Aveva anche una fionda, fabbricata da lui, con la quale andava a caccia di uccelli. Quando aveva occasione di sgraffignare qualcosa, inoltre, non si tirava mai indietro. Sapevo che fumava: rubava cartine e tabacco al padre e con quelle fabbricava sigarette dalla forma sgraziata. A volte mi permetteva di assistere ai suoi riti segreti. Le accendeva di nascosto, ma ogni boccata si traduceva in un minuto intero di tosse convulsa. Poi buttava via la sigaretta, mugugnando che il tabacco faceva schifo e che quelle con il filtro erano un'altra cosa, ma suo padre, aggiungeva, era troppo tirchio per comprarle. Io pensavo che il genitore non fosse avaro, ma semplicemente povero, o almeno, questo era ciò che sentivo dire dai miei.

Michele non aveva amici. Girava quasi sempre da solo, un lupo solitario. Conosceva un numero impressionante di parolacce, che snocciolava in serie. Solo col tempo capii che le usava a vanvera, senza conoscerne il vero significato. A volte era manesco, sembrava quasi che la violenza gli piacesse. Quando percepivo la sua irrequietezza, mi allontanavo. Lui mi richiamava e, se non tornavo, mi tirava pietre con una mira incredibile. Se i miei genitori avessero scoperto i miei incontri con Michele, sarei stato punito con severità. A me sembrava ingiusto. Certo, aveva un brutto carattere, ma isolarlo in quel modo non era la migliore soluzione.

Una mattina, all'inizio dell'estate, scesi in strada e un senso di vuoto mi colpì. La casa di Michele era deserta. Lui e la sua famiglia se n'erano andati alla chetichella, senza un saluto, senza una parola. L'intera borgata tirò un sospiro di sollievo. Quella famiglia così scostante non era mai piaciuta a nessuno. Eppure, in fondo, io ne fui un po' dispiaciuto. Michele non era mai stato mio amico, e a volte mi faceva persino paura, ma era stato il ragazzo più particolare che avessi mai incontrato nella mia infanzia, unico, del tutto diverso da me e da tutti gli altri.

 

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