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martedì 29 aprile 2025

IL GALLO

Il cortile del vecchio cascinale è impregnato di un calore denso, appiccicoso, tipico delle lunghe serate di luglio. L'aria odora di terra riarsa e letame secco. Un residuo chiarore accompagna i passi delle figure sul selciato dissestato. Alcune lampadine accese penzolano e attirano nugoli di insetti ronzanti.

Una cinquantina di persone sono riunite, sedute su alcune sedie di plastica oppure in piedi appoggiate ai muri scrostati della casa colonica. I loro volti, segnati dalla fatica e dal sole, osservano una bara di legno chiaro, poggiata su due cavalletti di legno e sistemata sotto un vecchio glicine. Il silenzio è spezzato solo dal frinire dei grilli e da qualche sussurro sommesso.

"Beveva tanto" dice una donna anziana, il volto rugoso incorniciato da un fazzoletto nero. La sua voce è roca, carica di tristezza antica.

"Lui beveva soltanto il suo vino. Era genuino" dice un uomo corpulento, seduto poco distante. "Genuino quanto vuoi" interviene un uomo con la camicia a quadri stropicciata. "Però ogni giorno ne beveva litri".

Una giovane donna, forse una parente del defunto, con gli occhi rossi e gonfi, si stringe nelle spalle. "Non è stata colpa del vino. È stata quella fabbrica maledetta. Lì dentro c'era veleno, lo dicevano tutti. L'ha avvelenato poco alla volta". Poi torna a guardare nel vuoto.

"Ma quale veleno e veleno! Osvaldo non aveva mica tanta voglia di lavorare. In fabbrica ci andava col contagocce. Era sempre in malattia" bisbiglia un uomo, un altro contadino, al vicino

"Se stava male era per l'aria tossica della fabbrica" risponde l'altro, un uomo con la barba incolta e lo sguardo torvo. "Quei fumi ti entrano dentro e ti rovinano".

"Era il fegato che non gli funzionava più, poveretto. A furia di bere, anche se era il suo vino, se l'era bruciato" dice invece una donna di mezza età.

Il dibattito si anima, sempre meno rispettoso. Le voci si sovrappongono, ognuno con la propria versione, la propria convinzione sulla causa della morte di Osvaldo.

Finalmente, una figura vestita di nero si avvicina al gruppo di persone, riportando la calma. È il prete del paese, don Luigi, il volto serio segnato da anni di ascolto e di consolazione. Si sistema di fronte alla bara, poi apre un piccolo libro dalla copertina consumata.

"Fratelli e sorelle" inizia con voce pacata. "In questo momento di dolore, raccogliamoci nella preghiera. Recitiamo insieme il Santo Rosario".

Gli intervenuti si ricompongono, alcuni si fanno il segno della croce, altri abbassano il capo. Le litanie iniziano a diffondersi nell'aria calda e umida, un susseguirsi lento di invocazioni e risposte.

Accanto al gruppo raccolto in preghiera, un pollaio recintato da una rete arrugginita ospita una decina di galline e un gallo imponente dalle piume colorate. L'ultima luce del crepuscolo continua a indugiare, e il gallo sembra non avere ancora compreso che è ora di ritirarsi per la notte. Con passi baldanzosi insegue le galline indifferenti, il suo becco aguzzo cerca con insistenza un contatto.

Tra le persone in preghiera, un giovane con baffi folti e scuri osserva la scena con un sorriso appena accennato. All'inizio cerca di mantenere un certo contegno e, sebbene distratto, cerca di seguire parole del rosario. Ma l'insistenza del gallo, la sua frenetica attività amorosa sotto gli occhi di tutti, diventa sempre più difficile da ignorare. Il giovane, in piedi, non riesce a stare fermo. Una scossa di ilarità gli percorre il corpo.

Il gallo, imperterrito, monta una gallina grigia, le piume del collo che si arruffano nella passione del momento. Il giovane non ce la fa più. Un'esclamazione gli sfugge dalle labbra, forte e inaspettata.

"Accidenti quanto si sta dando da fare quel gallo!"

La recita del rosario si arresta di colpo. Le Ave Maria si interrompono nell'aria. Un silenzio imbarazzato cala sul cortile. Tutti i volti si girano nello stesso tempo verso il giovane con i baffi, gli  sguardi sono carichi di sorpresa e di disapprovazione. Ma anche di un vago accenno di divertimento represso.

Il ragazzo, colto sul fatto, abbozza un sorriso complice, alza le spalle in un gesto di scusa non troppo convinto. Don Luigi, con un sospiro rassegnato, scuote il capo, gli occhi che esprimono una stanchezza infinita. Dopo l'attimo di sospensione, il prete riprende le litanie, con voce più alta del solito. Si sforza di riportare la sacra veglia sui binari della preghiera e del rispetto. Tuttavia l'immagine del gallo indaffarato rimane sospesa nell'aria, un'irriverente nota di vitalità in mezzo al lutto e alla mestizia.

 

martedì 22 aprile 2025

OGNI GIORNO

Appoggio la tazzina di caffè sul tavolo, il suo aroma avvolgente si mescola all’aria fresca del mattino. Il giornale, ancora aperto sulla pagina che mi ha così tanto turbato, è accanto a me. Le parole che ho appena letto continuano a rimbombare nella mia mente, come un eco inquietante. Un’auto fuori strada, un pedone illeso. L'incidente è accaduto nel mio paese. La notizia è così tragica che mi fa venire voglia di chiudere gli occhi e dimenticare, ma non posso. Come non posso ignorare il pensiero che mi assilla. Ripenso all’ultima volta che ho parlato con il mio amico B., l'agricoltore, appena qualche giorno fa. Era un pomeriggio di sole, e ci eravamo incontrati nel suo campo, quello che costeggia la strada provinciale, circondati da filari di pomodori e piante di basilico. B. era molto agitato, e non ci volle molto perché mi raccontasse della sua ossessione per R., la ragazza che aveva conosciuto al seggio elettorale, quando entrambi vi avevano prestato servizio. La sua voce tremava di emozione mentre parlava di lei, dei suoi occhi, del suo sorriso, della sua simpatia. Del suo corpo. Era come se avesse trovato un tesoro inaspettato ma, al tempo stesso, c’era una nube scura che aleggiava sopra di lui.

"Non so come dirglielo" aveva confessato, il viso contratto in una smorfia di preoccupazione.

"In realtà non so se le piaccio. E poi c’è suo padre…" aveva aggiunto con voce triste.

Ricordo bene il modo in cui aveva abbassato lo sguardo, come se il peso di quella figura paterna lo schiacciasse.

"Lo conosci anche tu. È un tipo violento, possessivo. Pensa che una volta l’ho visto fermarsi davanti alla chiesa e sputare per terra con disprezzo. Non voglio avere problemi con lui".

Eccome se lo conoscevo, il signor Pino Pettenuzzo! Una specie di troglodita, un autentico animale.  

Avevo comunque cercato di incoraggiare il mio amico, di fargli capire che, se davvero teneva così tanto a quella ragazza, doveva fare qualcosa.

"Non puoi semplicemente stare lì a guardarla passare in macchina! Non ha alcun senso!"

Ogni giorno, alla stessa ora, B. si appostava nel cortile di casa e attendeva il passaggio dell'automobile di R. che tornava dal lavoro insieme alla madre. Avevo insistito. 

"Dovresti cercare di parlare con lei, magari andare a casa sua. Vi siete conosciuti lavorando ai seggi, no?"

Lui aveva scosso la testa, lo sguardo perso nel vuoto.

"Non posso. Ho paura".

Eppure, nonostante i suoi timori, mi aveva sorpreso dicendo di avere un piano. "Ho deciso di attirare la sua attenzione" aveva detto, con un tono che oscillava tra la determinazione e la follia.

"Fingerò di attraversare la strada senza prestare attenzione e mi farò investire. Così saranno costrette a fermarsi e io avrò modo di parlare con lei".

Non avevo potuto fare a meno di ridere, pensando che fosse uno scherzo.

"Ma sei pazzo? Non puoi fare una cosa del genere! È pericoloso!"

Lui aveva sorriso debolmente, ma nei suoi occhi c’era una luce che non riuscivo a decifrare.

"Hai ragione, ma non so cosa altro fare. Non posso continuare a vivere così, a guardarla da lontano. Ogni giorno".

E ora, mentre il caffè è ormai freddo nella tazzina e il giornale continua a fissarmi con la sua notizia drammatica, mi chiedo che cosa abbia spinto B. a mettere davvero in atto quel piano così assurdo. La mia mente corre veloce, cerca di ricostruire gli eventi. La strada provinciale, il cortile di casa sua, il passaggio di R. con la madre. Il tentativo di schivare l'incauto pedone, l'auto contro il palo, le due donne morte. E il mio amico illeso e dannato per sempre.

 

venerdì 18 aprile 2025

CHI COMPIACE PIACE

Un'accoglienza calorosa, elogi reciproci e un'intesa politica che non sorprende: l'incontro tra la premier Giorgia Meloni e il presidente Donald Trump alla Casa Bianca si è svolto all'insegna della cordialità. Come previsto, i due leader, appartenenti alla stessa famiglia politica, hanno trovato un terreno comune su diversi temi chiave. Tutto scontato: canis canem non est.

Trump ha riservato parole di apprezzamento per Meloni, sottolineando la sua leadership e la sua visione politica. Un trattamento ben diverso da quello riservato ad altri leader internazionali, primo tra tutti il presidente ucraino Zelensky, considerati meno allineati con l'attuale amministrazione americana.

Meloni, da parte sua, ha cercato di compiacere Trump in tutti modi: ha promesso l'aumento delle spese militari per la NATO, l'acquisto di maggiori quantità di gas americano (il più costoso dell'intero globo terracqueo per via dei costi elevati dovuti al trasporto via nave) e un forte sostegno alla lotta contro l'immigrazione clandestina, in linea con le politiche di Trump (che purtroppo abbiamo cominciato a conoscere). Inoltre, la premier ha espresso la sua piena adesione alla battaglia contro la diffusione del pensiero "woke", un tema molto caro alla destra americana, e che tradotto in pratica significa meno diritti per le minoranze.

L'unico momento di leggera tensione si è verificato quando Meloni ha menzionato l'invasione russa dell'Ucraina, definendo la Russia come l'aggressore. Trump, tuttavia, ha apparentemente ignorato la dichiarazione, mentre Meloni ha rapidamente corretto il tiro, attenuando le sue parole, e togliendo addirittura la parola all'interprete.

Nonostante le preoccupazioni sui dazi commerciali, l'argomento non è stato affrontato. L'aspetto più promettente dell'intero incontro è rappresentato dalla possibilità di una futura visita di Trump a Roma per un incontro con i vertici dell'Unione Europea. Si spera che questa visita, se davvero ci sarà, possa portare a un dialogo costruttivo e che non si limiti a una semplice visita turistica alla Garbatella...

 

martedì 15 aprile 2025

PHOTOSHOP 10.0


Era una serata tranquilla nel piccolo appartamento di Marco, un ingegnere informatico appassionato di tecnologia. Aldo, il suo amico di lunga data, era venuto a trovarlo per fare due chiacchiere e scoprire le ultime novità.

"Ho saputo che hai sviluppato una nuova versione di Photoshop. Di cosa si tratta?" chiese Aldo, sistemandosi sul divano.

"È qualcosa di davvero incredibile, anche se devo ancora sistemare alcuni dettagli" rispose Marco, con un sorriso entusiasta, che però subito si spense. Poi iniziò a spiegare.

"Ho integrato un sistema di intelligenza artificiale che attinge a dati biometrici, sociali e comportamentali da tutte le banche dati disponibili in rete. Consente di creare immagini invecchiate delle persone in modo realistico".

"Come funziona?" chiese Aldo, incuriosito.

"Guarda" disse Marco, accendendo il computer. "Posso mostrarti un esempio. Ho fatto degli esperimenti su di me".

Erano state proprie quelle prove che lo avevano profondamente turbato.

Sullo schermo apparve l'immagine di Marco, visibilmente invecchiato, con capelli grigi e rughe. "Sembra quasi reale!" esclamò Aldo.

"A settantacinque anni sarò esattamente in quel modo" disse Marco.

"E cosa succede se continui a invecchiare?"

L'ingegnere eluse la domanda dell'amico. L'altro non ci badò più di tanto, tutto preso dall'eccitazione per ciò che stava vedendo.

"Posso provarlo su di me? Voglio vedere come sarò tra due anni. Aspetta, cerco una foto." Mise mano al portafoglio.

"Non c'è bisogno di foto. Come ti ho spiegato, l'applicazione si procura da sé tutte le informazioni. Devi soltanto inserire i tuoi dati anagrafici" disse Marco. L'amico procedette.

Marco annuì, poi digitò a sua volta qualcosa sulla tastiera. Dopo pochi istanti, sullo schermo apparve Aldo, leggermente invecchiato, un po' dimagrito.

"Non male! Mi aspettavo di peggio, sembro pure più in forma di adesso" rise Aldo.

"E come sarò tra cinque anni? Oppure tra dieci?" aggiunse.

Marco, un po' titubante, procedette a elaborare una nuova immagine. Ma quando il video si fermò, lo schermo era completamente nero. Tutto nero, proprio come quando, nei giorni precedenti, aveva domandato all'applicazione come sarebbe stato lui a ottant'anni. Lavorando a ritroso sulle date, con tentativi successivi, era riuscito a scoprire quale sarebbe stato il giorno della sua morte, a settantotto anni, tre mesi e dodici giorni. Il suo amico Aldo, invece, sarebbe morto entro i prossimi cinque anni.

"Aldo... no" disse Marco, turbato. Aldo stava guardando lo schermo, perplesso.

"Il programma non funziona ancora bene. Non è del tutto affidabile, per questo ho aspettato per brevettarlo" precisò l'ingegnere.

Aldo, un po' scosso - forse aveva intuito qualcosa - cercò di sdrammatizzare.

"Dai, non è la fine del mondo. Magari è solo un bug".

Marco, ancora sconvolto, si alzò per andare in cucina.

"Vuoi qualcosa da bere?" domandò all'amico.

"Volentieri," rispose Aldo, cercando di mascherare la sua inquietudine.

"Avrai tutto il tempo di migliorare il programma" aggiunse.

Marco sorrise amaro.

"Non riuscirò mai a farlo nel modo che vorrei..." disse.


martedì 8 aprile 2025

MOVIDA (CHI HA SONNO DORME)


Di nuovo!

Tutti i fine settimana è sempre la stessa storia. Gruppi di sfaticati escono ubriachi dai locali e schiamazzano in strada tutta la notte. Non ho bisogno di scostare le lenzuola perché non le uso. Da giugno a settembre si dorme sopra, questa è la regola. In verità non ero assopito, perché i vecchi dormono poco o nulla. Chi ha sonno dorme, e non si sveglia neppure con un colpo di cannone, diceva sempre mio padre. Non stavo dormendo, non sono stato svegliato, eppure le balle mi girano lo stesso. Nessuno ha il diritto di fare baccano e di disturbare le persone per bene. Adesso basta.

Scendo dal letto e sbircio tra le fessure delle persiane. Proprio di fronte a casa, sull'altro lato della via, scorgo tre persone. Si tratta di due ragazzi e di una ragazza. Parlano a voce alta, discutono tra loro, gesticolano e ridono in maniera sguaiata. Esco dalla stanza da letto e vado nel ripostiglio. Prendo la carabina, carica e sulla quale è già montato il cannocchiale a infrarossi. Avvito sulla canna il silenziatore, quello che mi ha fabbricato il mio amico Sergio nella sua officina casalinga. Non l'ho ancora provato, speriamo bene. Torno in camera, mi abbasso e striscio sul balcone. Il pavimento è sporco di merda di piccione, mi insozzo il pigiama ma non ci bado più di tanto. La ringhiera è di cemento, tutta piena, a eccezione di alcune piccole feritoie a forma di cuore. Infilo la carabina in una di esse e prendo la mira. Faccio un bel respiro e poi premo il grilletto. Ho mirato alla figura in mezzo, la ragazza, che indossa una maglietta bianca e una gonna corta, dalla quale spuntano le lunghe gambette nude. Colpisco in pieno il ginocchio, la rotula va in frantumi. La giovinetta rimane per un attimo in piedi su una gamba sola, come il fenicottero quando dorme, poi crolla a terra urlando. I due amichetti, sbronzi persi, in un primo momento non comprendono ciò che è accaduto. Si guardano intorno smarriti. Finalmente uno dei due si avvede del sangue che fuoriesce copioso dalla ragazza. Si china su lei, inginocchiandosi e mettendosi di profilo. Proprio in quell'istante sparo di nuovo. Centro il tizio sul tallone. Lui emette un gemito simile allo squittio di un topo, poi si accascia sul selciato. Dopo questo trattamento, caro mio, per stare in piedi avrai bisogno di un bel piedistallo, come quello dei soldatini di plastica. Rientro all'interno, strisciando all'indietro. In strada, nel frattempo, si è scatenato il putiferio. Gente che accorre, gente che grida, tra un po' qualcuno chiamerà ambulanze e forze dell'ordine. Ci saranno sirene e lampeggianti. Proprio un bel caos. Il momento migliore per schiacciare un bel sonnellino, prima che a qualcuno venga in mente di suonare il mio campanello. Tanto, come diceva mio padre, chi ha sonno dorme.

martedì 1 aprile 2025

LASCIARE PARIGI


"Quindici minuti sono troppo pochi per lasciare Parigi".

Il funzionario del ministero della Difesa aveva fatto irruzione nella saletta in cui ero stato fatto accomodare pronunciando quelle parole.

"Che cosa?" domandai.

"Si sieda, dottor Giorgi. Le devo comunicare qualcosa di davvero spiacevole".

Da un paio d'anni ero il corrispondente dalla capitale francese per il mio giornale. In quegli ultimi giorni frenetici, grazie alle preziose conoscenze del mio direttore, ero riuscito a ottenere un appuntamento per una breve intervista con il ministro della Difesa. La crescente ostilità della Russia per l'intera Europa era culminata in aperta minaccia nei confronti della Francia, lo stato-guida del vecchio continente. Quel colloquio con il ministro Guillame sarebbe stato un vero scoop.

"Quindici minuti sono troppo pochi per lasciare Parigi" ripeté il funzionario.

Subito dopo seguì una rapida e concitata spiegazione. Precipitai nello sconforto. Non ci sarebbe stata nessuna intervista, ma quella era la buona notizia. Il resto era che la Russia aveva lanciato un attacco nucleare contro la Francia. All'improvviso. Un missile con testata atomica stava per abbattersi sulla capitale transalpina.

"Il missile può essere intercettato?" domandai in preda all'ansia.

"Quasi impossibile" rispose il funzionario.

"Davvero non posso andarmene?" chiesi. Lui scosse il capo.

"Nessuno può lasciare il palazzo. È già stato sigillato. Per andare dove, poi?"

"Devo assolutamente avvisare i miei familiari" dissi, afferrando il cellulare.

"Loro non corrono alcun pericolo, sono in un altro stato" rispose il funzionario, che continuava a essere impassibile, anche se era molto pallido.

Anch'io, d'altra parte, faticavo sempre di più a mantenere il controllo. Non è facile farlo, quando la probabilità di essere liquefatti nei prossimi dieci minuti è molto alta, se non sicura.

"Voglio comunque parlare con loro" dissi, proprio mentre mi accorgevo che il telefono non aveva campo.

L'uomo di fronte a me scosse il capo.

"Il palazzo è stato schermato" disse. "Nessuna comunicazione civile è possibile. Mi spiace, dottor Giorgi".

Scagliai a terra il cellulare. Mi resi conto che stavo per mettermi a piangere. Mi vergognai per la mia debolezza, chinai il capo.

"A questo punto glielo posso dire, dottor Giorgi" riprese il funzionario, fingendo di non notare il mio estremo smarrimento. "Credo che la cosa non la rincuorerà più di tanto, tuttavia sappia che abbiamo risposto".

"Che cosa?" domandai. Non avevo capito, la mia mente era ormai in completa confusione.

"Un missile con cinque testate nucleari si sta dirigendo verso la Russia. Arriverà tra... (consultò l'orologio) undici minuti".

"Colpirà Mosca?" chiesi.

"Mosca e dintorni non esisteranno più. Per sempre".

"Mi scusi, dottor Giorgi, ma adesso la devo proprio lasciare" aggiunse. "Lei può rimanere qui ad attendere gli eventi. Non si muova, mi raccomando, e attenda eventuali istruzioni" disse il funzionario.

"Dopo... dopo che succederà?" chiesi, mentre lui era già voltato.

"Dopo? Non lo so, in ogni caso si tratta di una questione che ormai non riguarda più nessuno di noi due..." E uscì.

Mi avvicinai alla grande finestra. Il sole splendeva nel centro di Parigi. Un sole che tra pochi minuti sarebbe stato oscurato da una nube nera e maligna. In lontananza si intravedeva la sagoma della Torre Eiffel. La osservai mentre ormai le lacrime mi scorrevano copiose. Non l'avrei più vista, nessuno l'avrebbe più vista.