Una formica non può
combattere contro un gigante. Non ha nessuna possibilità di spuntarla: il suo
destino è quello di rimanere schiacciata, annientata. Le formiche siamo noi, i
poveri abitanti del pianeta Terra.
Accidenti, li abbiamo
aspettati da sempre, abbiamo sperato di incontrarli, li abbiamo quasi invocati,
e alla fine sono arrivati davvero. Ma con loro è arrivato per noi il giorno del
giudizio. Un giudizio che non sarà benevolo. Toccherà a me, oggi, accompagnare
il Presidente Harvey, il responsabile pro-tempore del governo mondiale,
all'incontro con il capo di... quelli. Non sappiamo il suo nome, forse perché loro
non hanno nomi. Toccherà a me, in qualità di principale assistente del vecchio
Harvey.
Paura? No, non ho
assolutamente paura. Non nutro alcun timore perché loro sono buoni. Sono
talmente buoni che hanno deciso di distruggerci. Lo faranno, se davvero lo
faranno, per il nostro e per il loro bene, per il bene di tutti gli abitanti
dell'Universo, che abbiamo scoperto essere numerosi.
Dicono di noi che siamo
malvagi, che uccidiamo i nostri simili, che siamo avidi, egoisti e prepotenti.
Che non siamo generosi, che ci cibiamo di altri esseri viventi, che stiamo
devastando il pianeta, e che non abbiamo il diritto di farlo. Hanno ragione,
corrisponde tutto al vero. Non meritiamo di esistere.
Sappiamo che il
verdetto finale ci sarà sfavorevole, siamo consapevoli che il giudizio ci
condurrà allo sterminio. Non nutriamo più speranze, siamo ben coscienti di
essere colpevoli.
Avremmo potuto reagire?
Avremmo potuto contrastare questi esseri giunti dalla profondità del cielo?
Queste strane creature tanto diverse da noi ma tanto più intelligenti e più
evolute sul piano etico?
No, non lo avremmo
potuto fare, e infatti non ci abbiamo neppure provato. Ci siamo arresi senza
condizioni, ci siamo limitati a implorare pietà. Non è questione di compassione,
ci hanno spiegato con pazienza. Loro provano una grande pena nei nostri
confronti, perché sono esseri molto empatici. Si tratta piuttosto di una
questione di giustizia, di giustizia universale, e dunque la nostra condanna è
inevitabile.
Siamo arrivati. Siamo
soli, soltanto io e il Presidente, perché così hanno voluto. Nessun altro
accompagnatore, nessuna cerimonia, nessuna scorta. Loro sono molto sobri, pretendono la stessa cosa anche da noi. Harvey è
livido in volto, privo di ogni colore. È vero, è un uomo anziano, stanco, ha
più di cent'anni, ma mai avrebbe pensato di essere lui, nel corso del proprio
mandato, il liquidatore della specie umana. La portinaia dello stabile ci sta
aspettando, con la scopa in mano. Sta pulendo le scale.
Gli alieni hanno scelto
come loro quartier generale terrestre un alloggio sfitto in un modesto
condominio di periferia. Erano state offerte loro le sedi diplomatiche più
prestigiose, più lussuose, i più bei palazzi, castelli, ville storiche, situati
in tutto il mondo, ma loro hanno rifiutato. Che cosa c'è che non va in questo
palazzo?, avevano detto, sinceramente stupiti dalla nostra insistenza.
Soltanto due di loro
sono scesi sul nostro pianeta, il capo e un assistente. Tutti gli altri sono
rimasti sulle migliaia e migliaia di navi che stazionano in cielo, talmente
tante che non si vede più il sole.
La portinaia fa un
inchino al Presidente, ci indica di salire. Vi stanno aspettando, dice, poi
riprende a spazzare i gradini.
Entriamo nel piccolo
appartamento. Le due creature sono nel soggiorno, sedute, anzi appoggiate sul
logoro divano. Quello che deve essere il capo inizia a parlare.
Come facciamo a
comprenderci? Non chiedetelo a me. So soltanto che, grazie ai loro tecnici, e
ai loro scienziati, fin dal loro arrivo siamo stati in grado di scambiare
informazioni. Fosse stato per noi, per la nostra primitiva civiltà, non ci
sarebbe mai stata alcuna possibilità di dialogo.
L'alieno ci conferma ciò
che già ci era stato anticipato: abbiamo troppe colpe, abbiamo commesso troppe
nefandezze, non meritiamo di vivere. È rimasto loro soltanto un piccolo dubbio,
aggiunge.
Proprio in
quell'istante, dall'appartamento vicino (il palazzo è popolare, i muri sono
sottili) filtra una musica, una dolce melodia, una voce di tenore accompagnata
dal pianoforte.
Un attimo, dice la
creatura. Poi comincia a emettere degli strani gemiti, ruota su se stessa,
secerne dalla sua pelle un liquido vischioso e maleodorante. Lo stesso, anche
se in misura minore, succede al suo assistente, che ci prega con un sussurro di
accomodarci nella stanza accanto.
Dopo quasi mezz'ora ci
richiamano. Nel frattempo, io e il Presidente Harvey non abbiamo scambiato una
sola parola. Non riusciamo a capire ciò che sta accadendo.
Scusate, ci dice l'alieno,
il capo.
Vi siete sentiti male?,
domanda Harvey.
No, tutt'altro,
risponde l'assistente. Ascoltando quei suoni, io e il mio capo ci siamo...
commossi, come dite voi. Quei suoni hanno un nome?
Non saprei, risponde il
Presidente, guardando me, e sperando in un mio aiuto. Che arriva, perché ho
riconosciuto la melodia.
È un'aria d'opera,
dico. Se vi può interessare, è tratta da un lavoro del compositore Georges
Bizet.
Il nome, il nome del
pezzo, dice la creatura, devo catalogarlo!
Je crois entendre encore, dico. Harvey mi guarda, annuisce
riconoscente e sollevato.
L'alieno riprende a
parlare.
Vedete, dice, il dubbio
nei confronti della vostra civiltà era proprio legato a ciò che voi chiamate
musica. In tutto l'universo conosciuto nessun popolo è in grado di accostare i
suoni come fate voi. Esistono artisti geniali in tutti i campi, ma non in
questo. Voi rappresentate una unicità che forse, e sottolineo forse, va
conservata. Abbiamo intenzione di darvi ancora una possibilità, una piccola
possibilità. Voi tutti, nei prossimi cent'anni terrestri, dovrete dedicarvi
esclusivamente alla musica. Dopodiché noi torneremo e vi giudicheremo di nuovo.
Andate, adesso, e diffondete il nostro messaggio. Noi ce ne andremo, e sarete
di nuovo soli. Ricordate, questa è la vostra ultima opportunità di
sopravvivere. E dite a quel vostro Bizet di fabbricare molte altre musiche come
quella che abbiamo ascoltato.
Usciamo. Sono contento
di avere contribuito, in un certo senso, alla salvezza dell'umanità. Cerco di
condividere questa mia immensa gioia con Harvey, ma vedo che il Presidente è
cupo e affranto.
Cent'anni!, dice. E poi
la distruzione non potrà comunque essere evitata. Ti immagini? Tutti a comporre
musica per cent'anni. Ma quanti sono gli esseri umani in grado di comporre
musica? Uno su mille? Uno su diecimila? Uno su un milione? Abbiamo
semplicemente prolungato la nostra agonia!
Sconsolato, rifletto.
Forse il Presidente ha ragione. Era meglio farla finita subito. Tra l'altro,
non abbiamo neppure avuto il coraggio di dire all'alieno che Bizet è morto da
più di duecento anni.
Nessun commento:
Posta un commento