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martedì 30 luglio 2024

IL PROBLEMA DEL SIEPISTA (Prima parte)


Giovanni Cartezzini, appena scese dal letto, ebbe il presentimento che quella sarebbe stata una giornata storta. Cercò di non badare a quella sensazione di catastrofe imminente che lo aveva assalito e che continuava a tormentarlo anche mentre faceva colazione e si preparava per uscire.

Arrivò al campo di allenamento alla solita ora, come accadeva tutti giorni. Davanti alla porta dello spogliatoio trovò ad aspettarlo il suo allenatore, Davide Bergonzi. Si trattava di una circostanza insolita, poiché Bergonzi amava poltrire a letto e si presentava al campo sempre in ritardo, quando lui aveva già completato il riscaldamento. Il tecnico aveva un'espressione seria, e in Cartezzini si accrebbe il senso di disagio.

"Prima di iniziare ti devo parlare" disse l'allenatore. "Entriamo dentro".

Nello spogliatoio c'erano due atleti, che furono invitati a uscire. Giovanni Cartezzini e Davide Bergonzi si sedettero su una panca.

"Ti devo dire due cose" esordì il tecnico. "Una buona e una cattiva. Da quale cominciamo?"

Cartezzini era preoccupato. La sua intuizione mattutina si stava rivelando corretta. Rassegnato, optò per ascoltare per prime le brutte nuove.

"Mi dispiace, Giovanni, ma per i cinquemila è stato scelto Ranieri" disse Bergonzi.

"Ranieri? Ma come è possibile?"

"La decisione è irrevocabile" aggiunse il tecnico.

"Ma..." Cartezzini era sconvolto.

"Lascia che ti spieghi" disse l'allenatore. "Ranieri è un atleta esperto, e anche se quest'anno non è stato molto brillante merita comunque questa ultima possibilità. Ormai ha una certa età e dopo i Giochi chiuderà la sua carriera, non gli possiamo negare questa soddisfazione dopo tutto ciò che ha fatto per la federazione".

Cartezzini era sempre più pallido.

"Non andrò alle Olimpiadi!" esclamò all'improvviso.

"Giovanni, tu sei ancora giovane..."

Alberto Cartezzini scattò in piedi.

"Tu sei giovane! Tu hai poca esperienza!" urlò. "Sono quattro anni che mi sento dire le stesse cose! Nel frattempo sono invecchiato!"

Bergonzi gli mise una mano sulla spalla e lo fece di nuovo sedere.

"Calmati, Alberto E la notizia buona? Non la vuoi sentire?"

L'altro, depresso e di colpo docile, annuì.

"Sono riuscito a farti inserire nei tremila siepi" disse Bergonzi, con un gran sorriso.

Cartezzini strabuzzò gli occhi.

"Non li ho mai corsi! Neppure una volta!" strepitò.

"Tranquillo, Alberto. Che importa se finora non li hai mai corsi? Lo farai".

"Non ho il tempo minimo di ammissione!"

"Questo non è un problema, ho già pensato a tutto. Tra dieci giorni ci sarà il meeting di Londra, e tu parteciperai. Ottenere il minimo non sarà un problema. Sarà una gara veloce, molto tirata, ci saranno anche keniani e etiopi. E ci sarà anche Tulli, che ti farà da lepre per i primi duemila metri. Vedrai, sarà un gioco da ragazzi. E poi, le Olimpiadi!"

Cartezzini era perplesso. Quell'idea stramba non lo allettava per nulla. Eppure, pur di partecipare ai Giochi Olimpici, sarebbe stato disposto a fare qualsiasi cosa.

"Perché non mi avete inserito nei diecimila?" tentò ancora di obiettare.

L'allenatore scosse energicamente il capo.

"Sei chiuso pure lì. Alberto, tu provieni dal mezzofondo, e possiedi uno spunto finale irresistibile. Se la gara delle siepi ai Giochi sarà tattica, come è facilmente prevedibile, e tu riuscirai a rimanere in gruppo, alla fine te la potrai addirittura giocare per le medaglie. Avrai più possibilità rispetto a quante ne avresti nei tuoi amati cinquemila, dove saresti comunque un comprimario".

Alberto Cartezzini sembrava quasi convinto. Poi, all'improvviso, un pensiero lo colpì.

"Le barriere!" strillò.

                                                      (continua)

giovedì 25 luglio 2024

IL TRIONFO DEL TEDOFORO (Seconda e ultima parte)


Il giorno seguente David Luiz Antonio Da Silva, il grande saltatore, la gloria nazionale, riprese con umiltà ad allenarsi. Voleva farsi trovare pronto al grande appuntamento con la storia.

Cominciò facendo alcuni giri dell'isolato, un po' camminando, un po' corricchiando in maniera sgraziata e un po' zoppicando, trascinando come poteva la gamba offesa. Nella mano destra reggeva una scopa di saggina, per abituarsi a portare il peso della fiaccola olimpica. Non reagiva mai alle pesanti ironie, alle canzonature e ai dileggi dei pochi passanti che lo riconoscevano.

"Intendi partecipare alle Olimpiadi? Guarda che per vincere devi saltare ben più di cinquanta centimetri!"

Oppure: "Sei stato assunto come netturbino volante?"

Lui, stando sempre zitto, sorrideva amaro. Tutti quei buontemponi il giorno della cerimonia di apertura delle Olimpiadi sarebbero rimasti a bocca aperta.

Qualche giorno dopo squillò il telefono.

"Vado io!" urlò il vecchio catapultandosi dalla poltrona. Ebbe un giramento di testa, ma si riprese subito e artigliò il microfono.

"Buonasera, presidente. Come? Dice davvero? Sul serio? Oh, grazie! Grazie! Per me sarà un autentico onore".

Sua figlia accorse dalla cucina.

"Allora?" domandò ansiosa. "Era lui?"

L'uomo sfoggiava un sorriso a tutta dentiera.

"Certo che era lui! Che ti avevo detto? Hanno scelto me!"

"Quanto sono contenta, papà! Certo che gli altri due ci saranno rimasti male".

L'anziano scrollò le spalle.

"Il nuotatore è ricoverato in ospedale per una intossicazione alimentare e la donna pretendeva di portare la fiaccola stando a cavallo! Bah, le donne..."

La figlia corse ad abbracciarlo.

Poi venne il grande giorno.

David Luiz Antonio Da Silva era pronto, appena fuori dallo stadio. Il suo compito, in fondo, era semplice. Dopo aver ricevuto la fiaccola dal penultimo tedoforo, un ex schermidore, avrebbe fatto il suo ingresso nell'arena. Aveva insistito a lungo per indossare canottiera e pantaloncini, gli stessi di quarant'anni prima, che aveva conservato, ma gli organizzatori lo avevano convinto a cambiare idea.

"Signor Da Silva, cerchi di capire, con le sue gambette..."

Alla fine aveva accettato di infilarsi una tuta in acetato con i colori della nazionale. Aveva molto caldo. Lo schermidore arrivò e gli consegnò la fiaccola. Da Silva la impugnò con attenzione, non voleva certo che si spegnesse. Quanto era pesante! Strinse i denti e iniziò a correre con andatura sghemba. Entrò nello stadio. Il boato della folla lo tramortì. Quasi si fermò, si guardò attorno estasiato e quindi proseguì la sua corsa da anatra zoppa. Salì alcuni gradini e si avvicinò alla base del braciere. Adesso si trattava di avvicinare la torcia a un meccanismo automatico che avrebbe consentito l'accensione della fiamma. Da Silva indugiò. Un pensiero improvviso lo assalì. Quell'inaspettato momento di gloria sarebbe durato soltanto un attimo. Il giorno dopo, quando sarebbero iniziate le competizioni, la dura lotta per le medaglie, nessuno lo avrebbe più ricordato. Di nuovo sarebbe stato dimenticato. E questa volta per sempre. Iniziò a salire sulla scaletta di servizio, quella che conduceva al tripode. Piano piano, un piolo dopo l'altro, reggendosi con una sola mano, perché nell'altra impugnava la sacra fiaccola.

In sala regia tutti si guardarono, sorpresi e attoniti.

"Ma che sta facendo il vecchio? Dove sta andando? Non gli avete spiegato come doveva comportarsi?" urlò il regista, congestionato in viso.

"Abbiamo fatto un sacco di prove" disse un uomo accanto a lui, bianco in volto.

"E adesso che facciamo? Come lo fermiamo? Mica possiamo mandare i poliziotti! E siamo pure in mondovisione, cazzo!"

David Luiz Antonio Da Silva, il più grande saltatore dimenticato del suo paese, era finalmente giunto in cima alla scaletta di metallo. Si affacciò sul bordo dell'enorme braciere, ancora spento. Poi si lasciò cadere dentro, reggendo forte la torcia infuocata. Dal braciere si sprigionò un'enorme fiammata, e un potente ruggito.

Le Olimpiadi erano iniziate.

                                                       (Fine)

martedì 23 luglio 2024

IL TRIONFO DEL TEDOFORO (Prima parte)

"Sì, d'accordo. La ringrazio molto. Va bene, ci sentiamo presto. Buonasera".

L'uomo chiuse la chiamata, poi crollò su una poltrona. Il suo viso color caffelatte era sbiancato. I baffi ormai ingrigiti tuttavia fremevano di eccitazione.

"Papà, che hai? Ti senti male?" domandò la figlia, con tono apprensivo.

Lui sorrise.

"Mai stato così bene, figlia mia".

Lei si avvicinò e gli porse un bicchiere d'acqua.

"Chi era al telefono?"

"Il Presidente" rispose l'uomo.

"Dos Santos?" domandò la figlia.

"Ma no! Era il presidente del comitato olimpico".

"Ah! E che cosa voleva da te? Per caso ti vogliono invitare alla cerimonia di inaugurazione? Sarebbe ora che si ricordassero di te, con tutto ciò che hai fatto per loro".

"No, si tratta di qualcosa di meglio, di molto meglio".

"Vale a dire?"

"Vogliono che faccia il tedoforo".

"E chi è il tedoforo? Quello che porta la fiaccola?"

"Esatto. I tedofori però sono tanti, ma soltanto uno è quello importante, l'unico che sarà ricordato: l'ultimo".

"Quello che accende il braciere?" domandò ancora la donna, titubante.

"Brava, figlia mia! Proprio quello!"

"Sono contenta per te, papà".

Il viso del vecchio si rabbuiò all'improvviso.

"Che c'è, papà? Qualche problema?"

"In effetti sì. Vedi, non lo hanno chiesto soltanto a me, ma anche ad altri due. Insomma, non hanno ancora scelto. Lo faranno entro qualche giorno".

"E chi sarebbero gli altri due?"

L'uomo fece un gesto con il braccio, come per scacciare un insetto molesto.

"Si tratta di due mezze calzette" rispose infine.

"Li conosco?"

"Penso di no. Uno era un nuotatore, ma ora è diventato più grosso di un barile. Non credo che farebbe fare bella figura al nostro paese". Dicendo ciò, l'uomo ridacchiò tra sé. "L'altra è una donna" riprese. "Una ex cavallerizza, ma non sceglieranno mai una donna, te lo assicuro io".

"Perché?" domandò la figlia, un po' indispettita.

L'uomo rifece il gesto di prima e liquidò in quel modo, senza dare alcuna spiegazione, quella che per lui era un'ipotesi del tutto irrealistica.

"Vedrai, alla fine preferiranno me. Ne sono sicuro".

"Non illuderti troppo, però. Non vorrei che tu rimanessi deluso".

"Stai remando contro tuo padre?" domandò l'anziano, irritato.

"Ma no, papà. Sai quanto tengo a te" rispose la figlia.

"Tu eri appena nata e io ero già una delle persone più importanti del nostro paese. Per meriti sportivi!"

Il vecchio, tutto sommato, aveva ragione.

David Luiz Antonio Da Silva, quasi quarant'anni prima, aveva vinto il titolo olimpico nel salto triplo. E il suo trionfo era stato suggellato dal nuovo record del mondo. Un primato che era rimasto imbattuto a lungo. Dopo la sua strepitosa vittoria, Da Silva era stato considerato un eroe nazionale. Per qualche tempo si era persino parlato di lui come del probabile nuovo ministro dello sport. Alla fine non se ne era fatto nulla. Poi la sua carriera sportiva era giunta all'inevitabile epilogo. Il suo reinserimento nella vita normale era stato difficile. Non era mai riuscito a trovare una collocazione che gli fosse congeniale. Gli affari, quei pochi che aveva tentato di intraprendere, erano andati tutti male. Poco alla volta si era ritrovato dimenticato e in miseria. Alla fine qualcuno nelle alte sfere si era ricordato di lui, e gli era stato concesso un piccolo vitalizio, appena sufficiente per vivere. Quando sua figlia aveva divorziato era andato a vivere con lei, anche perché non riusciva più a pagare l'affitto per un appartamento tutto suo.

"Papà, ma come farai a correre? Sai, la tua gamba rigida..."

L'anziano si riscosse dal torpore in cui era precipitato. Gli accadeva spesso.

"Che dici, figlia? Quale gamba rigida? La mia gamba è soltanto un po' pigra".

Lei scosse il capo, poi sorrise. Quanto voleva bene a quel vecchio testone!


                                                  (Continua)

 

 

lunedì 15 luglio 2024

GIUDIZIO UNIVERSALE

Una formica non può combattere contro un gigante. Non ha nessuna possibilità di spuntarla: il suo destino è quello di rimanere schiacciata, annientata. Le formiche siamo noi, i poveri abitanti del pianeta Terra.

Accidenti, li abbiamo aspettati da sempre, abbiamo sperato di incontrarli, li abbiamo quasi invocati, e alla fine sono arrivati davvero. Ma con loro è arrivato per noi il giorno del giudizio. Un giudizio che non sarà benevolo. Toccherà a me, oggi, accompagnare il Presidente Harvey, il responsabile pro-tempore del governo mondiale, all'incontro con il capo di... quelli. Non sappiamo il suo nome, forse perché loro non hanno nomi. Toccherà a me, in qualità di principale assistente del vecchio Harvey.

Paura? No, non ho assolutamente paura. Non nutro alcun timore perché loro sono buoni. Sono talmente buoni che hanno deciso di distruggerci. Lo faranno, se davvero lo faranno, per il nostro e per il loro bene, per il bene di tutti gli abitanti dell'Universo, che abbiamo scoperto essere numerosi.

Dicono di noi che siamo malvagi, che uccidiamo i nostri simili, che siamo avidi, egoisti e prepotenti. Che non siamo generosi, che ci cibiamo di altri esseri viventi, che stiamo devastando il pianeta, e che non abbiamo il diritto di farlo. Hanno ragione, corrisponde tutto al vero. Non meritiamo di esistere.

Sappiamo che il verdetto finale ci sarà sfavorevole, siamo consapevoli che il giudizio ci condurrà allo sterminio. Non nutriamo più speranze, siamo ben coscienti di essere colpevoli.

Avremmo potuto reagire? Avremmo potuto contrastare questi esseri giunti dalla profondità del cielo? Queste strane creature tanto diverse da noi ma tanto più intelligenti e più evolute sul piano etico?

No, non lo avremmo potuto fare, e infatti non ci abbiamo neppure provato. Ci siamo arresi senza condizioni, ci siamo limitati a implorare pietà. Non è questione di compassione, ci hanno spiegato con pazienza. Loro provano una grande pena nei nostri confronti, perché sono esseri molto empatici. Si tratta piuttosto di una questione di giustizia, di giustizia universale, e dunque la nostra condanna è inevitabile.

Siamo arrivati. Siamo soli, soltanto io e il Presidente, perché così hanno voluto. Nessun altro accompagnatore, nessuna cerimonia, nessuna scorta. Loro sono molto sobri, pretendono la stessa cosa anche da noi. Harvey è livido in volto, privo di ogni colore. È vero, è un uomo anziano, stanco, ha più di cent'anni, ma mai avrebbe pensato di essere lui, nel corso del proprio mandato, il liquidatore della specie umana. La portinaia dello stabile ci sta aspettando, con la scopa in mano. Sta pulendo le scale.

Gli alieni hanno scelto come loro quartier generale terrestre un alloggio sfitto in un modesto condominio di periferia. Erano state offerte loro le sedi diplomatiche più prestigiose, più lussuose, i più bei palazzi, castelli, ville storiche, situati in tutto il mondo, ma loro hanno rifiutato. Che cosa c'è che non va in questo palazzo?, avevano detto, sinceramente stupiti dalla nostra insistenza.

Soltanto due di loro sono scesi sul nostro pianeta, il capo e un assistente. Tutti gli altri sono rimasti sulle migliaia e migliaia di navi che stazionano in cielo, talmente tante che non si vede più il sole.

La portinaia fa un inchino al Presidente, ci indica di salire. Vi stanno aspettando, dice, poi riprende a spazzare i gradini.

Entriamo nel piccolo appartamento. Le due creature sono nel soggiorno, sedute, anzi appoggiate sul logoro divano. Quello che deve essere il capo inizia a parlare.

Come facciamo a comprenderci? Non chiedetelo a me. So soltanto che, grazie ai loro tecnici, e ai loro scienziati, fin dal loro arrivo siamo stati in grado di scambiare informazioni. Fosse stato per noi, per la nostra primitiva civiltà, non ci sarebbe mai stata alcuna possibilità di dialogo.

L'alieno ci conferma ciò che già ci era stato anticipato: abbiamo troppe colpe, abbiamo commesso troppe nefandezze, non meritiamo di vivere. È rimasto loro soltanto un piccolo dubbio, aggiunge.

Proprio in quell'istante, dall'appartamento vicino (il palazzo è popolare, i muri sono sottili) filtra una musica, una dolce melodia, una voce di tenore accompagnata dal pianoforte.

Un attimo, dice la creatura. Poi comincia a emettere degli strani gemiti, ruota su se stessa, secerne dalla sua pelle un liquido vischioso e maleodorante. Lo stesso, anche se in misura minore, succede al suo assistente, che ci prega con un sussurro di accomodarci nella stanza accanto.

Dopo quasi mezz'ora ci richiamano. Nel frattempo, io e il Presidente Harvey non abbiamo scambiato una sola parola. Non riusciamo a capire ciò che sta accadendo.

Scusate, ci dice l'alieno, il capo.

Vi siete sentiti male?, domanda Harvey.

No, tutt'altro, risponde l'assistente. Ascoltando quei suoni, io e il mio capo ci siamo... commossi, come dite voi. Quei suoni hanno un nome?

Non saprei, risponde il Presidente, guardando me, e sperando in un mio aiuto. Che arriva, perché ho riconosciuto la melodia.

È un'aria d'opera, dico. Se vi può interessare, è tratta da un lavoro del compositore Georges Bizet.

Il nome, il nome del pezzo, dice la creatura, devo catalogarlo!

Je crois entendre encore, dico. Harvey mi guarda, annuisce riconoscente e sollevato.

L'alieno riprende a parlare.

Vedete, dice, il dubbio nei confronti della vostra civiltà era proprio legato a ciò che voi chiamate musica. In tutto l'universo conosciuto nessun popolo è in grado di accostare i suoni come fate voi. Esistono artisti geniali in tutti i campi, ma non in questo. Voi rappresentate una unicità che forse, e sottolineo forse, va conservata. Abbiamo intenzione di darvi ancora una possibilità, una piccola possibilità. Voi tutti, nei prossimi cent'anni terrestri, dovrete dedicarvi esclusivamente alla musica. Dopodiché noi torneremo e vi giudicheremo di nuovo. Andate, adesso, e diffondete il nostro messaggio. Noi ce ne andremo, e sarete di nuovo soli. Ricordate, questa è la vostra ultima opportunità di sopravvivere. E dite a quel vostro Bizet di fabbricare molte altre musiche come quella che abbiamo ascoltato.

Usciamo. Sono contento di avere contribuito, in un certo senso, alla salvezza dell'umanità. Cerco di condividere questa mia immensa gioia con Harvey, ma vedo che il Presidente è cupo e affranto.

Cent'anni!, dice. E poi la distruzione non potrà comunque essere evitata. Ti immagini? Tutti a comporre musica per cent'anni. Ma quanti sono gli esseri umani in grado di comporre musica? Uno su mille? Uno su diecimila? Uno su un milione? Abbiamo semplicemente prolungato la nostra agonia!

Sconsolato, rifletto. Forse il Presidente ha ragione. Era meglio farla finita subito. Tra l'altro, non abbiamo neppure avuto il coraggio di dire all'alieno che Bizet è morto da più di duecento anni.


lunedì 8 luglio 2024

DIFFERENZE

Quali sono, in realtà, le vere differenze tra noi esseri umani e gli amici animali? Amici per modo di dire, dal momento che non esitiamo a maltrattarli, torturarli, vivisezionarli e divorarli. Possiamo anche escludere dal confronto quegli animali che, per ovvie e grandi diversità biologiche, possano apparire ai nostri occhi troppo dissimili dall’uomo, vale a dire pesci, uccelli, rettili e anfibi. Rimangono comunque, da utilizzare per la nostra comparazione, tutti i mammiferi di piccole o grandi dimensioni.

Ebbene, la nostra specie possiede, da sempre, la convinzione che la manifesta ed evidente (?) superiorità rispetto a tutti gli altri esseri viventi sia dovuta al possesso della consapevolezza di esistere. Una cognizione, sebbene discutibile, che ci porta sempre, inevitabilmente, a rivendicare tale egemonia. Insomma, noi ci rendiamo conto di essere nati, di vivere, di dover morire, abbiamo un ego piuttosto sviluppato mentre gli animali, i mammiferi nel nostro esempio, attendono inconsapevoli il termine della loro esistenza, e pertanto non sono in grado di progettare le loro vite, di attribuirne uno scopo. Su questo, pur con qualche riserva, possiamo anche essere d’accordo, quanto meno sulla base delle attuali conoscenze. Tuttavia ciò che davvero importa non è tanto la presenza di questa qualità unica (che in ogni caso non comporta un’automatica attestazione di predominio), quanto l’uso che di essa ne facciamo. E il quadro, conseguenza di questa pur condivisibile considerazione, appare desolante. La maggior parte delle esistenze degli esseri umani sono vuote e inconcludenti, nient'altro che un perenne e affannato rincorrere di qualcosa che non si riesce bene a definire, e rivolto al nulla se non alla ricerca del conseguimento di ricchezza, potere, successo in tutti i campi, esibizione di vanità e di altre pessime qualità specifiche del genere umano. Il vero e unico fine dell’esistenza dell’uomo dovrebbe invece essere quello di migliorarsi e di raggiungere (o almeno di provare a raggiungere) un livello etico superiore, un piano morale di eccellenza non necessariamente uguale per tutti gli individui, dal momento che le condizioni di partenza sono diverse da persona a persona, ma in ogni caso più alto rispetto a quello iniziale, a quello posseduto al principio della vita. Un obiettivo nobile ed elevato che, se perseguito con successo, potrebbe forse innalzare gli esseri umani nei riguardi degli animali, non verso un’affermazione di supremazia, bensì in direzione di un’illuminata diversità.

Ecco, questo è l’autentico vantaggio goduto dalla specie umana. Un privilegio - o, se si vuole, una prerogativa forse dettata soltanto dal caso - che non è mai stato sfruttato, e che non è mai stato, se non in minima parte, esercitato. Uno spreco che si perpetua, e che contrassegna senza appello la nostra come una specie imperfetta e con evidenti limiti. Una specie, tra altro, capace di esprimere i sentimenti più bassi e orrendi, quali l’odio, la cattiveria, la malignità, il risentimento, la meschinità, la pura malvagità. Bestie a due zampe in grado di ricorrere, senza ragione apparente, alle più inenarrabili e spaventose violenze. Al contrario gli altri animali non umani non odiano, non uccidono con colpa, non sono mai perfidi o crudeli. Una splendida diversità che è senza dubbio a loro favore.  

 

 

giovedì 4 luglio 2024

IL BUCO


 

Lo vedo bene, è proprio sotto lo scrittoio. Poso il libro che sto leggendo, perché non riesco a proseguire, ormai ho perso del tutto la concentrazione, e mi sporgo dalla poltrona. Il mio sguardo si posa sempre su quel punto, che in è parte nascosto. Mi volto e osservo mia moglie. È distesa sul letto, e sta sfogliando una delle sue riviste di architettura. Non sono mai riuscito a comprendere quel suo stupido interesse per divani, soprammobili e tappeti. Per le eleganti dimore di campagna, che noi non ci potremo mai permettere. E lei lo sa. A me tutte quelle cose, quegli inutili oggetti, non interessano per niente. Mi tocca dissimulare di continuo, fingere una partecipazione che non provo affatto, allo scopo di assecondarla. In fondo, però, che cosa mi costa farlo?

Senza dire nulla mi alzo e mi dirigo verso quel pezzo di pavimento, verso quella mattonella che tanto mi inquieta. Mi sistemo a quattro zampe e mi abbasso. Guardo con attenzione quel buco, quel foro netto che, ne sono certo, ieri non c’era. Perché, se ci fosse stato, di sicuro l’avrei subito notato. Come è accaduto oggi, d’altra parte.

Mia moglie nota il mio improvviso movimento. Lo intuisco dal fruscio delle lenzuola. Si toglie gli occhiali, con il suo solito gesto elegante, immagino, mi apostrofa.

“Che cosa stai facendo?” domanda un po’ stupita.

Non mi volto.

“C’è un buco” dico.

“Eh?”

Non rispondo. Avvicino ancora di più un occhio all’allarmante pertugio. Noto i suoi bordi regolari, lisci. Non riesco a vedere nulla, però sento una specie di ronzio, un suono ad alta frequenza. No, non è proprio una vibrazione, la mia impressione è che si tratti piuttosto di un lancinante lamento. Mi scosto di colpo, con un balzo mi proietto all’indietro. Mi ritrovo seduto a terra, sul freddo pavimento. Sento una risata.

“Ehi! Ma sei impazzito?”

Mi rialzo, cercando di recuperare un minimo di dignità. La posizione eretta mi permette di farlo nel volgere di un attimo.

“C’è un buco” ripeto come un automa. Il cuore mi martella nel petto.

“Ho capito!” dice mia moglie. “Forse c’è sempre stato e non l’abbiamo mai visto. Per fortuna è nascosto.”

Mi avvicino a lei, e vedo che la sua espressione da divertita diventa all’improvviso seria. Forse ha notato il pallore del mio volto, il mio evidente turbamento.

“Dentro c’è qualcosa” aggiungo con voce dal timbro irriconoscibile.

“Ah! Insetti!” grida mia moglie, e nello stesso tempo scatta a terra e mi si avvicina.

“Vado a prendere l’insetticida” dice, mentre esce dalla camera e si dirige verso il ripostiglio. A differenza di me, lei è un tipo pratico.

“Aspetta!” dico, e la blocco. “Portami una torcia, presto!”

Lei torna sui suoi passi, mi scruta per un attimo, poi apre un cassetto del comodino e mi porge quanto le ho chiesto.

“Che cosa vuoi fare?” domanda.

“Voglio dare un’occhiata” rispondo. Ho la bocca secca, faccio fatica a deglutire.

Lei annuisce, poco convinta.

Accendo la torcia e mi avvicino di nuovo al buco. Con estrema cautela, perché ho paura di udire ancora quel terribile sibilo. Il foro è abbastanza grande, e il fascio di luce riesce a penetrare al suo interno, tanto da consentirmi di scorgere qualcosa. Un brulichio, una ridda di piccoli esseri. Esamino la scena con maggiore attenzione, tentando di vincere l’inspiegabile e irrazionale terrore che si sta impossessando di me. Vedo distintamente le loro teste, e poi i sottili arti scuri. E i loro scudi rossi, rotondi, dai quali spuntano minacciose delle minuscole lance.

È troppo. Lancio un urlo straziante, la torcia mi sfugge di mano, mi ritraggo e mi scontro con mia moglie, che sta accorrendo. L’abbraccio, tremante. Sono sconvolto, e balbetto in maniera penosa.

Lei non capisce ciò che sto cercando di dire, con una vigorosa spinta mi scosta da sé e si precipita sul buco. Prende la torcia e, accucciandosi, osserva a sua volta. Dopo un po’ si rialza, e viene verso di me scuotendo il capo.

“Che cosa hai visto?” dice, tranquilla. “Sono soltanto degli scarafaggi. Sembrano rossi.”

“No!”

“Ehi! Si può sapere che ti prende? Non hai mai avuto timore degli insetti. Che cosa credi, che a me non facciano schifo? Vado a prendere l’insetticida e li faccio fuori!”

“No, aspetta!”

“Smettila!” E cerca di slanciarsi nuovamente fuori dalla stanza. Le afferro un braccio, con violenza.

“Non si tratta di insetti, sono guerrieri” dico, tutto di un fiato.

Lei si blocca, sbigottita.

“Lo sai che adesso mi fai paura?” dice. Nei suoi occhi, in effetti, scorgo lo spavento.

“Se li aggrediamo loro reagiranno. Sono bene armati, e non sappiamo quanti siano. Potrebbero essere milioni, ed avere ormai invaso tutta la casa.”

“Lasciami.” La sua voce è roca, irriconoscibile.

“No, non posso:”

“Che cosa intendi fare?” aggiunge, sempre con quella voce strana, dal timbro sconosciuto.

“Dobbiamo trattare”. Ecco, l’ho detto. Mi rendo conto di quanto la mia affermazione possa apparire assurda e priva di logica, tuttavia a me pare del tutto giustificata, ragionevole. Mia moglie invece non sembra essere d’accordo. Segue tra noi un silenzio carico di tensione. Poi, di colpo, lei si divincola ma io resisto. Un attimo dopo sento la pesante lampada di ottone, l’unico vero pezzo di design che abbiamo mai posseduto, abbattersi sul mio capo. Il buio mi assale. Forse cado a terra, forse muoio. In realtà, come faccio a saperlo?