Da tanto tempo, ormai, si è
persa la capacità di stupirsi.
Quella di sbalordirsi, di
restare strabiliati di fronte a qualcosa, è una caratteristica tipica dell’età
infantile. È raro ritrovarla in un adulto, in una persona vissuta, in chi ha
avuto modo di saggiare e patire le innumerevoli asperità dell’esistenza.
Spalancare gli occhi,
sostare incantati a osservare una giostra, una gru, oppure un buffo animale è
cosa da bambini, peculiarità di uno sguardo innocente, limpido e non ancora
corroso da brutture e da vicende tristi.
Nell’individuo maturo, in
tali occasioni, scatta invece spontaneo il disincanto, la capacità di
astrarsi, di provare il necessario distacco dalla situazione. E così la giostra
si trasforma in un chiassoso marchingegno che ferisce i timpani, nulla di più,
e niente che abbia invece a vedere con il divertimento, con un aspetto ludico
che non può più essere colto. E la gru non è un magico macchinario, un attrezzo
prodigioso bensì un bieco strumento di oppressione e di fatica per lo
sventurato e infelice operaio addetto alla manovra. Infine il cane, quel grosso
cane festante dal pelo ispido, ispira più tenerezza che gioia o sbalordimento.
Chi è colmo di cicatrici, di
una dura scorza che ricopre ferite dell’anima ormai rimarginate ma che ne hanno
intaccato l’essenza profonda, non può più trovare ricovero nella sorpresa, ma
ineluttabili subentrano l’indifferenza e l’incapacità di rimanere colpiti, di
meravigliarsi.
Eppure, quella corazza che
riveste il fragile corpo, quell’armatura coriacea e invisibile è l’unico
possibile congegno di difesa, un dispositivo immateriale che permette di
attraversare l’esistenza senza subire danni estremi, definitivi.
In fondo, il fatto di non
rimanere mai di stucco, di non sorprendersi più di nulla, né del bene né del
male, è ciò che consente di vivere.
È triste, comunque, dover
pensare di avere smarrito qualcosa, per sempre, in maniera irrimediabile.
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