Sogno o son desto? Sto
sognando. Percorro in bicicletta un sentiero di montagna. La traccia è larga
non più di venti centimetri. Sono in equilibrio precario sulle due ruote; la
minima esitazione o il più piccolo sbandamento mi farebbero precipitare
nell'abisso sottostante. Decido di intervenire con la mia parte cosciente, quel
minimo residuo di consapevolezza che non mi abbandona neanche durante i sogni. Smetto
di pedalare, metto un piede a terra e mi aggrappo alla roccia. Tutto svanisce.
Sono alla guida di un
autobus, un vecchio torpedone senza passeggeri. La strada è ampia e diritta. Non
c'è il parabrezza e l'aria mi colpisce gli occhi, mi scompiglia i capelli. La
velocità del mezzo aumenta sempre di più, senza che io acceleri, senza che io
faccia nulla. D'altra parte, non potrei. Quando cerco il pedale del freno, non
lo trovo. Provo un senso di vuoto allo stomaco, la paura mi assale. So che in
fondo al rettilineo ci sarà una curva a gomito. So che mi schianterò. Basta
così, meglio interrompere.
La casa in cui mi trovo
ha un aspetto antico. Il pavimento di legno sembra il ponte di un vascello. Il
soffitto è basso, i muri sono sporchi di caligine. In un angolo della stanza
c'è una piccola stufa di ghisa, accesa e arroventata. In mezzo c'è un misero
tavolo, ci sono alcune seggiole scompagnate. Tutto è misero, tutto è povero.
All'improvviso nell'ambiente fa irruzione una donna. Non la riconosco ma so che
è mia madre. È vestita di nero, i capelli grigi sono raccolti in una crocchia.
"Scappiamo!
Scappiamo!" urla terrorizzata. Nello stesso istante sento il rumore delle
bombe. Sento le grida. Spaventato mi dirigo alla finestra. Scosto la tendina e
guardo in strada. Interi battaglioni di soldati sfilano battendo i tacchi.
Dietro di loro, enormi carri armati. Il cielo di colpo diventa grigio, poi nero
pece. Una angoscia totale mi assale, mi stringe il petto.
"È la guerra! È la
guerra!" strepita la donna. "Scappiamo in cantina!"
Con le mani tremanti
sollevo la botola sul pavimento, una botola che prima non c'era. Mi insinuo in
uno stretto pertugio. Mi rendo conto che non si tratta di una cantina, ma di
una angusta intercapedine. Avanzo a fatica strisciando sulla pancia, inalando
polvere. Non riesco quasi a sollevare la testa, tanto è basso il cunicolo. La
larghezza del budello di terra si riduce sempre più, vi rimango incastrato con le
spalle. Non riesco più ad avanzare e neppure a retrocedere. Sono bloccato, e
sento che manca l'aria. Questo è troppo. Decido di staccare.
Mi sveglio di
soprassalto in piena notte. Ho sentito dei rumori. Non ho il coraggio di aprire
gli occhi. Spero di riuscire a riaddormentarmi, ma ciò non avviene. Ancora quei
rumori, qualcuno, o qualcosa, che gratta sulla porta della stanza. Mi faccio
coraggio e mi alzo. Mi avvicino alla porta e la spalanco di colpo. L'uomo è
alto quasi due metri. Indossa un lungo impermeabile nero, un cappello che gli
nasconde il viso. Impugna una pistola luccicante. È inutile, so già come andrà
a finire. Decido di darci un taglio ma esito troppo. L'uomo spara. Il
proiettile incandescente penetra nel mio addome. Lo percepisco farsi strada tra
le mie viscere, sento prima una stilettata fredda seguita da un gran bruciore.
Annaspo, mi lamento, mi
agito. Scalcio le lenzuola.
Una mano mi tocca la
spalla.
"Ehi! Svegliati!
Stai soltanto sognando. Hai avuto un incubo?"
Una voce strana, che
non riconosco, ma alla quale sono grato.
Spalanco gli occhi. L'essere
è nudo e completamente ricoperto di lunghi peli scuri. Il suo muso è simile a
quello di un cinghiale, le sue grosse dita sono provviste di lunghi e acuminati
artigli.
"Sto ancora
sognando?" La mia voce è un sussurro disperato, poco più di un gemito.
"No"
risponde, quasi sorpresa, quella voce cavernosa.
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