Non sono affatto
estinti. No, sono ancora tra noi, anche se sono rimasti in pochi. Mi riferisco
a quelli che, in maniera un po' scherzosa, mi piace chiamare australopitechi,
dal nome di un genere di ominidi che si ritiene essere appartenuti alla linea
evolutiva dell'uomo.
A volte succede di
incontrare qualcuno di loro.
Mi è capitato proprio
la settimana scorsa mentre stavo viaggiando in treno. Negli ultimi tempi, per i
miei spostamenti di affari, preferisco l'utilizzo di tale mezzo. In parte
perché il treno, a differenza dell'automobile, permette di rilassarsi, leggere
un libro, sfogliare una rivista, sonnecchiare oppure di perdersi nei propri
pensieri; in parte perché, da quando ho avuto un brutto rovescio finanziario,
la macchina l'ho dovuta vendere.
Poco dopo che il treno
si è avviato dalla stazione ho notato quell'esemplare di australopiteco. Stava
dall'altra parte del corridoio, un paio di posti davanti al mio. Appena l'ho
visto, compreso chi fosse, ho iniziato a osservarlo con morbosa curiosità. Era
rannicchiato sul sedile, e stringeva qualcosa tra le grosse mani. A intervalli
regolari emetteva dei piccoli grugniti di fastidio e di insofferenza. Inoltre
non riusciva a stare fermo, si agitava di continuo, cambiava posizione, pareva quasi
che il comodo sedile del treno ad alta velocità gli scottasse le natiche. Sono
convinto che, se al posto del sedile ergonomico ci fosse stato uno scranno di
pietra, quell'infelice avrebbe sofferto di meno. A un certo punto mi sono
sporto di più dal mio posto per riuscire a scrutare meglio e ho finalmente capito
quale fosse l'oggetto che il primitivo teneva tra le mani: si trattava di un
moderno smartphone. L'australopiteco
picchiava con forza sul display dell'apparecchio, pensando forse che fosse
dotato di tasti. Oppure, altra ipotesi, pur conoscendo l'esistenza dello
schermo touch screen (forse qualcuno,
dotato di infinita pazienza, glielo aveva spiegato) le sue dita troppo grosse
non avevano la necessaria sensibilità per attivare le varie funzioni
dell'aggeggio.
Così l'ominide si
innervosiva sempre di più, disturbando, tra l'altro, lo sventurato passeggero
seduto accanto a lui. La scena, dunque, è diventata penosa. Insostenibile, per
il mio animo sensibile, la visione dei vani sforzi di quel disgraziato. Non ho
retto più e mi sono spostato in prima classe, pur non avendo il biglietto, per
non soffrire più.
Avevo assistito a una
scena simile appena qualche mese prima. Mi trovavo in un bar per il consueto tè
delle cinque. Quando arrivò il cameriere con l'ordinazione rimasi raggelato:
era di sicuro uno di loro. Lo sciagurato avanzava con passi insicuri sul lucido
pavimento di marmo. Si trattava di un grosso esemplare, stretto in una
giacchetta che minacciava di esplodere da un momento all'altro. Il palmo della
sua mano era più grande del vassoio che reggeva teiera e tazza. Quando posò con
movimenti incerti e legnosi quest'ultima sul tavolo chiusi gli occhi: una
piccola pressione di quelle dita tozze e robuste avrebbe potuto stritolarla
senza difficoltà. Esaurito il suo compito mi fece un cenno di saluto. Cercò
anche di sorridere, ma il suo sorriso non era altro che uno spaventoso ghigno.
Mentre si allontanava gli lanciai un'ultima occhiata. Era completamente
fradicio di sudore: sulla fronte, sul naso, dal collo colavano rivoli d'acqua
che si insinuavano nello stretto colletto. Sulla sua mascella quadrata si
intravedeva un'ombra di barba (per questi individui primordiali non sono
sufficienti neppure tre rasature giornaliere).
Finalmente mi rilassai
e sorseggiai il mio tè. Mi augurai di non imbattermi mai più in un individuo di
quella specie perché tali incontri mi provocano sempre un profondo turbamento.
Invece, come si è visto, mi è accaduto di nuovo, in treno.
Sono rimasti in pochi,
è vero, ma possono essere ovunque.
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