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domenica 20 marzo 2016

AUSTRALOPITECHI



Non sono affatto estinti. No, sono ancora tra noi, anche se sono rimasti in pochi. Mi riferisco a quelli che, in maniera un po' scherzosa, mi piace chiamare australopitechi, dal nome di un genere di ominidi che si ritiene essere appartenuti alla linea evolutiva dell'uomo.
A volte succede di incontrare qualcuno di loro.
Mi è capitato proprio la settimana scorsa mentre stavo viaggiando in treno. Negli ultimi tempi, per i miei spostamenti di affari, preferisco l'utilizzo di tale mezzo. In parte perché il treno, a differenza dell'automobile, permette di rilassarsi, leggere un libro, sfogliare una rivista, sonnecchiare oppure di perdersi nei propri pensieri; in parte perché, da quando ho avuto un brutto rovescio finanziario, la macchina l'ho dovuta vendere.
Poco dopo che il treno si è avviato dalla stazione ho notato quell'esemplare di australopiteco. Stava dall'altra parte del corridoio, un paio di posti davanti al mio. Appena l'ho visto, compreso chi fosse, ho iniziato a osservarlo con morbosa curiosità. Era rannicchiato sul sedile, e stringeva qualcosa tra le grosse mani. A intervalli regolari emetteva dei piccoli grugniti di fastidio e di insofferenza. Inoltre non riusciva a stare fermo, si agitava di continuo, cambiava posizione, pareva quasi che il comodo sedile del treno ad alta velocità gli scottasse le natiche. Sono convinto che, se al posto del sedile ergonomico ci fosse stato uno scranno di pietra, quell'infelice avrebbe sofferto di meno. A un certo punto mi sono sporto di più dal mio posto per riuscire a scrutare meglio e ho finalmente capito quale fosse l'oggetto che il primitivo teneva tra le mani: si trattava di un moderno smartphone. L'australopiteco picchiava con forza sul display dell'apparecchio, pensando forse che fosse dotato di tasti. Oppure, altra ipotesi, pur conoscendo l'esistenza dello schermo touch screen (forse qualcuno, dotato di infinita pazienza, glielo aveva spiegato) le sue dita troppo grosse non avevano la necessaria sensibilità per attivare le varie funzioni dell'aggeggio.
Così l'ominide si innervosiva sempre di più, disturbando, tra l'altro, lo sventurato passeggero seduto accanto a lui. La scena, dunque, è diventata penosa. Insostenibile, per il mio animo sensibile, la visione dei vani sforzi di quel disgraziato. Non ho retto più e mi sono spostato in prima classe, pur non avendo il biglietto, per non soffrire più.
Avevo assistito a una scena simile appena qualche mese prima. Mi trovavo in un bar per il consueto tè delle cinque. Quando arrivò il cameriere con l'ordinazione rimasi raggelato: era di sicuro uno di loro. Lo sciagurato avanzava con passi insicuri sul lucido pavimento di marmo. Si trattava di un grosso esemplare, stretto in una giacchetta che minacciava di esplodere da un momento all'altro. Il palmo della sua mano era più grande del vassoio che reggeva teiera e tazza. Quando posò con movimenti incerti e legnosi quest'ultima sul tavolo chiusi gli occhi: una piccola pressione di quelle dita tozze e robuste avrebbe potuto stritolarla senza difficoltà. Esaurito il suo compito mi fece un cenno di saluto. Cercò anche di sorridere, ma il suo sorriso non era altro che uno spaventoso ghigno. Mentre si allontanava gli lanciai un'ultima occhiata. Era completamente fradicio di sudore: sulla fronte, sul naso, dal collo colavano rivoli d'acqua che si insinuavano nello stretto colletto. Sulla sua mascella quadrata si intravedeva un'ombra di barba (per questi individui primordiali non sono sufficienti neppure tre rasature giornaliere).
Finalmente mi rilassai e sorseggiai il mio tè. Mi augurai di non imbattermi mai più in un individuo di quella specie perché tali incontri mi provocano sempre un profondo turbamento. Invece, come si è visto, mi è accaduto di nuovo, in treno.
Sono rimasti in pochi, è vero, ma possono essere ovunque.

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