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domenica 8 febbraio 2015

IL CAMPO


Il campo si intravede dietro una rete metallica, tutta rotta e arrugginita. Foglie enormi, un po’ ingiallite, un groviglio vegetale inestricabile corre sul terreno, ne ricopre ogni minimo spazio. Le zucche ormai non ci sono più. Raccolte, giustiziate spolpate incise. Forse in occasione di Halloween.
“Eccolo, lo dobbiamo ripulire”.
Annuisco dubbioso. Penso che potrei andarmene, nessuno mi obbliga a rimanere. E invece resto.
“Andiamo, sta cominciando la distribuzione degli attrezzi”.
Adesso c’è tanta gente. Tutti corrono verso un fabbricato dai muri scrostati, adiacente al campo. Mi pare di riconoscere qualcuno tra loro, ma non ne sono del tutto sicuro. Alcuni sono contadini, altri sono in giacca e cravatta, come me. Parlano un dialetto che fatico a comprendere. Sembrano contenti.
Entriamo nell’edificio. Mi metto in coda sulle scale. Il brusio è insopportabile, poi finalmente arriva il mio turno. Sono sul pianerottolo, di fronte a una porta chiusa.
“Non devi entrare. Non si può più”.
Avvicino l’orecchio allo spioncino. A stento riesco a percepire una voce che sussurra.
“Siete in tanti. I picconi sono finiti. Dovete tornare giù, a piano terra, nella grande sala, dove troverete altri attrezzi”.
Scendo le scale ed entro in una ampia stanza con il pavimento di cemento. Al centro c’è un tavolo di pietra sul cui piano sono posati strani arnesi. Non riesco a capire a che cosa possano servire. Soltanto uno di essi mi appare familiare: un calibro a nonio. Serve a misurare la larghezza di un oggetto. Forse la dimensione delle zucche, quelle zucche che ormai non ci sono più? Non lo so, poso lo strumento e mi guardo attorno. Non c’è più nessuno. Sono tutti nel campo, intenti a lavorare.
Che fare? Esco dall’edificio senza farmi notare e mi allontano con circospezione.
“Torna più tardi”.
Una voce, proprio dietro di me.

“Potrebbe esserci bisogno di te”.

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