Il campo si intravede
dietro una rete metallica, tutta rotta e arrugginita. Foglie enormi, un po’
ingiallite, un groviglio vegetale inestricabile corre sul terreno, ne ricopre ogni
minimo spazio. Le zucche ormai non ci sono più. Raccolte, giustiziate spolpate
incise. Forse in occasione di Halloween.
“Eccolo, lo dobbiamo
ripulire”.
Annuisco dubbioso. Penso
che potrei andarmene, nessuno mi obbliga a rimanere. E invece resto.
“Andiamo, sta
cominciando la distribuzione degli attrezzi”.
Adesso c’è tanta gente.
Tutti corrono verso un fabbricato dai muri scrostati, adiacente al campo. Mi
pare di riconoscere qualcuno tra loro, ma non ne sono del tutto sicuro. Alcuni
sono contadini, altri sono in giacca e cravatta, come me. Parlano un dialetto
che fatico a comprendere. Sembrano contenti.
Entriamo nell’edificio.
Mi metto in coda sulle scale. Il brusio è insopportabile, poi finalmente arriva
il mio turno. Sono sul pianerottolo, di fronte a una porta chiusa.
“Non devi entrare. Non
si può più”.
Avvicino l’orecchio
allo spioncino. A stento riesco a percepire una voce che sussurra.
“Siete in tanti. I
picconi sono finiti. Dovete tornare giù, a piano terra, nella grande sala, dove
troverete altri attrezzi”.
Scendo le scale ed
entro in una ampia stanza con il pavimento di cemento. Al centro c’è un tavolo
di pietra sul cui piano sono posati strani arnesi. Non riesco a capire a che
cosa possano servire. Soltanto uno di essi mi appare familiare: un calibro a
nonio. Serve a misurare la larghezza di un oggetto. Forse la dimensione delle
zucche, quelle zucche che ormai non ci sono più? Non lo so, poso lo strumento e
mi guardo attorno. Non c’è più nessuno. Sono tutti nel campo, intenti a
lavorare.
Che fare? Esco dall’edificio
senza farmi notare e mi allontano con circospezione.
“Torna più tardi”.
Una voce, proprio
dietro di me.
“Potrebbe esserci
bisogno di te”.
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