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mercoledì 29 ottobre 2025

NUOVO LIBRO (1)

Esiste un legame invisibile, ma tenace, che connette l’amore e la solitudine. Un filo sottile, quasi impercettibile, che attraversa le esperienze umane più profonde, intessendo emozioni apparentemente opposte in un’unica trama. Non si tratta di due poli in conflitto, ma di due manifestazioni complementari di una stessa condizione esistenziale. L’amore, con la sua forza generativa, può colmare il senso di vuoto, può offrire rifugio, può restituire senso. Ma, allo stesso tempo, è proprio l’amore che talvolta genera distanza, che costruisce barriere invisibili, che impone confini interiori. Nel desiderio di fusione, può emergere la paura della perdita. In quella paura, la solitudine si insinua.

La solitudine, d’altra parte, non è sempre una condizione da temere o da evitare. Può diventare uno spazio fertile, un terreno silenzioso in cui germogliano consapevolezze. È in quell’assenza dell’altro che si può imparare ad ascoltare la propria voce più autentica, a riconoscere i propri bisogni, a distinguere ciò che si desidera da ciò che si teme. La solitudine può essere un luogo di rigenerazione, una pausa necessaria, un tempo sospeso in cui ritrovarsi.

Questa antologia di racconti si addentra proprio in quel territorio fragile e sfumato, indagando il legame sottile e complesso tra amore e solitudine. Sono storie che parlano di incontri inattesi e di separazioni inevitabili, di persone che si rincorrono senza mai toccarsi davvero, e di altre che si smarriscono proprio nel momento in cui credono di essersi trovate. Ci sono illusioni coltivate con cura, e verità che si rivelano troppo tardi. Ci sono racconti che attraversano l’euforia luminosa dell’amore nascente, quella sensazione di pienezza che sembra cancellare ogni mancanza, e altri che esplorano la calma, a volte dolce, a volte pungente, del vivere in solitudine.

Le narrazioni si muovono tra passioni improvvise che sconvolgono l’equilibrio quotidiano, tra legami che resistono al tempo, alla distanza, alle trasformazioni, e relazioni che, invece, si trasformano in prigioni emotive, che soffocano, che consumano lentamente. E poi c’è la nostalgia, quella che brucia silenziosa per ciò che è stato e non è più, per ciò che avrebbe potuto essere, per ciò che è rimasto sospeso.

Sono ritratti di vite in cui l’amore assume forme diverse, non sempre riconoscibili, non sempre rassicuranti. E in cui la lontananza non è solo assenza, ma anche possibilità. Possibilità di ritrovarsi, di ricominciare, di guardarsi con occhi nuovi. Un’indagine intima e profonda su cosa significhi amare ed essere soli, su come queste due esperienze si intreccino, si nutrano a vicenda, si riflettano l’una nell’altra. Un viaggio nei chiaroscuri dell’interiorità umana, dove ogni emozione è una soglia, ogni relazione un passaggio, ogni solitudine un’eco da ascoltare.

(Il libro è disponibile, in formato cartaceo ed e-book, su Amazon e sulle principali librerie online)

https://www.amazon.it/dp/B0FWNT7JVB/ref=sr_1_4



 

martedì 28 ottobre 2025

LE CUGINE


Sei Alberto. La tua vita, in questo momento, è un equilibrio precario, fatto di mezze verità e sguardi rubati. Viviana è la tua fidanzata. Lei è il tipo di ragazza sempre con il naso affondato nei libri, seria, posata. Non è una bellezza, e lo sai. È minuta, un po' rotondetta, con un viso che ricorda una luna piena. I suoi occhi verdi, tuttavia, sono un incanto, e rivelano intelligenza.

Poi c'è Viola, la cugina di Viviana, di un anno più giovane. Lei è uno schianto. Alta, slanciata, con una cascata di riccioli neri e occhi scuri e vivaci. Viola è l'opposto di Viviana: non è fatta per i libri, ma per il divertimento, per le risate, per la leggerezza. Spesso uscite tutti e tre insieme: serate al cinema, aperitivi, passeggiate. E tu, Alberto, ti ritrovi sempre più spesso a cercare lo sguardo di Viola, a notare i suoi gesti, a ridere delle sue battute.

Con il tempo, diventa evidente una fredda consapevolezza: non ami più Viviana. Forse non l'hai mai amata davvero, o forse l'affetto che provavi si è lentamente spento, soffocato da un'infatuazione crescente per sua cugina. Ma non dici nulla. Continui a fingere, a recitare la parte del fidanzato innamorato. Stringi la mano di Viviana, le dici che le vuoi bene, mentre la tua mente è occupata a cercare un modo per stare solo con Viola. Sai che l'unico modo per frequentare la ragazza è mantenere viva la farsa con Viviana. È un gioco sporco, te ne rendi conto, ma la prospettiva di perdere il contatto con Viola è insopportabile.

Hai comunque sottovalutato Viviana. Hai creduto che la sua serietà e il suo carattere tranquillo nascondessero un' ingenuità di fondo. Ti sei sbagliato. Viviana non è stupida. Anzi, è molto perspicace. Ha notato quel luccichio diverso nei tuoi occhi quando guardi Viola. Ha sentito la distanza tra voi, ha colto il tuo disinteresse nei suoi confronti.  Viviana ha capito che non la ami più. Soprattutto, ha capito che ti sei preso una cotta colossale per sua cugina.

Un giorno, Viviana ha affrontato Viola. Le ha raccontato tutto, con una calma disarmante. Viola, che in realtà non si era accorta di nulla, non aveva colto i tuoi segnali, è scoppiata a ridere. In quel momento, le due cugine, così diverse, si sono trovate unite da un'intesa inaspettata. Hanno deciso, con un sorriso complice, che era ora di farti pagare il conto.

Ti invitano entrambe a una serata a casa di Viviana, per vedere un film. Arrivi puntuale. Volevi comprare qualcosa per la tua fidanzata, ma te ne sei dimenticato. Poco male. Entri in salotto e le trovi sedute sul divano. Viviana, come al solito, con un libro in mano, e Viola con il suo cellulare. L'atmosfera è quella solita. Ti siedi accanto a Viviana, e dopo qualche battuta sul più e sul meno, Viola si alza.

"Ragazzi, ho una sete pazzesca. Vado a prendere qualcosa da bere. Alberto, tu vuoi qualcosa?".

"Un bicchiere d'acqua" dici. Le fissi la scollatura, e poi il posteriore quando si volta per andare in cucina.

Viviana scosta gli occhi dal libro. Lo chiude. Poi tira fuori il telefono.

"Alberto, voglio farti vedere una cosa" dice. Apre un video.

Il tuo cuore fa un balzo. È un video di te, registrato di nascosto, mentre guardi Viola, mentre sorridi alle sue battute, mentre i tuoi occhi si perdono su di lei in un modo che non hai mai riservato a Viviana. C'è persino un momento in cui, convinto di non essere visto, le sfiori la coscia. La tua faccia è un miscuglio di imbarazzo e sgomento. Alzi lo sguardo su Viviana, che ti fissa con quei suoi occhi verdi, che ora appaiono freddi. Privi, però, di ogni traccia di tristezza. C'é solo un'espressione di amara ironia. Viola, in piedi con un bicchiere in mano, ti guarda con un'espressione di disgusto evidente.

Poi ti scaglia l'acqua in faccia.


martedì 21 ottobre 2025

I GIOVANI

Ero soltanto un ragazzino, ma avevo già i miei idoli. Non erano calciatori o eroi dei fumetti. No, i miei eroi erano "i giovani". Quelli veri, intendo. Quelli che incontravo al bar, quando andavo a comprare il gelato o a giocare la schedina per papà.

Chi erano questi giovani? Erano quelli che sfrecciavano sui motorini truccati, e qualcuno di loro, addirittura, guidava già la macchina. Portavano i capelli lunghi, ed erano sempre impeccabili, vestiti all'ultima moda. E poi bevevano alcolici. Per me questi personaggi costituivano un mistero affascinante. Stavano sempre lì, al bar, a chiacchierare e a scherzare tra di loro. Ma io ero convinto che, una volta usciti da quelle quattro mura, facessero cose grandiose, cose importanti che avrebbero cambiato il mondo.

Poi sono cresciuto. Poco per volta, senza quasi accorgermene, sono diventato un "quasi giovane" anch'io. E pur avendo varcato quella soglia invisibile, ho continuato ad ammirare quelli che consideravo i "veri giovani", quelli storici, quelli che avevano modellato la mia immaginazione infantile.

Ormai anch'io ero un frequentatore abituale del bar (in paese ce n'era uno solo), e qualche alcolico lo bevevo anch'io, pur non avendo ancora l'età per farlo. Il primo che incontravo, entrando, era sempre Silvano. Alto, magrissimo, con quei suoi capelli biondi sottili che iniziavano a diradarsi sulla sommità del capo. E l'eterna sigaretta che gli penzolava, quasi incollata, al labbro inferiore. Un autentico simbolo, per me. Mi limitavo a salutarlo con un cenno, un gesto di rispetto muto. Ma una sera, non so come, trovai il coraggio di rivolgergli la parola. Mi sentivo più maturo, più consapevole di me stesso. Erano tempi difficili, era il Settantasette, l'anno della contestazione. Sembrava che tutto dovesse esplodere da un momento all'altro.

"Silvano" gli chiesi, la voce forse un po' incerta. "Che cosa avete intenzione di fare voi giovani?"

Silvano prosciugò il bicchiere di vermouth, un sorso secco. Poi scosse il capo, mi guardò, poi osservò i miei amici che mi stavano accanto, e infine emise la sua sentenza, con quella sua voce un po' roca.

"Siete voi i giovani. Tocca a voi fare qualcosa".

Rimasi scioccato. Silvano aveva ragione. Aveva perfettamente ragione. E così, cercammo di fare qualcosa. Ci provammo, sul serio. Ma, alla fine, non riuscimmo a concludere nulla. Proprio come la generazione che ci aveva preceduto. Tante parole, tanti discorsi accesi, ma nessun risultato concreto.

Poi gli anni cominciarono a fuggire via, veloci, inesorabili. La famiglia, poi niente famiglia, poi un'altra famiglia ancora. E i giovani, i nuovi giovani che si succedevano, li persi di vista, come se non esistessero più. Non ci facevo più caso. La vita mi aveva inghiottito.

E adesso, che ormai sono anziano, mi sono accorto che i giovani continuano ad esistere eccome. Ho ricominciato a notarli. Dopotutto, ho tanto tempo per farlo. Tuttavia, i giovani che vedo oggi non mi piacciono. Non li capisco. Non li ammiro per niente. Anzi, se proprio devo dire la verità, i giovani di adesso mi fanno un po' paura.

 

martedì 14 ottobre 2025

BARBA E CAPELLI


Sono dal parrucchiere e sto aspettando il mio turno. Lo sguardo si posa sul ragazzino seduto sulla poltrona, che con un'espressione seria e una grande sicurezza sta spiegando all'acconciatore il taglio desiderato. Con una gestualità propria di una persona adulta, descrive in maniera minuziosa ogni sfumatura, ogni lunghezza, facendo persino riferimento a calciatori e personaggi dello spettacolo per farsi capire meglio.

E mentre il parrucchiere, un po' confuso, cerca di tradurre in realtà quelle complesse istruzioni, un sorriso malinconico mi si dipinge sul volto. Ai miei tempi non era così. Il cliente, che fosse un ragazzino o un adulto, non aveva diritto di parola. Il taglio era una decisione unilaterale del barbiere. Il professionista era lui, e non tollerava ingerenze nel suo mestiere.

La mia mente vaga indietro nel tempo. A Battista, il mio primo e unico barbiere non del Meridione. Era un uomo d'altri tempi, con mani svelte e una lingua ancora più veloce. Tagliava i capelli in dieci minuti, usando soltanto le forbici, e il suo salone era sempre pieno, con gente che attendeva il proprio turno per ore. Si parlava solo di calcio, si compilavano le schedine per le partite della domenica, si respirava un'aria di autentica mascolinità. Alla fine dell'anno, fedele a un'antica tradizione, Battista distribuiva a tutti, anche ai ragazzini, il suo calendario profumato con le foto di donne discinte.

Battista si arrabbiava e si offendeva se qualcuno osava chiamarlo "parrucchiere". Quel termine, a suo parere, metteva in dubbio la sua virilità. Lui era un barbiere, e basta. Ricordo quando, in estate, veniva a casa per tagliare i capelli e fare la barba al mio bisnonno. Prendeva una sedia e la sistemava in mezzo al cortile.

"Così non sporchiamo dentro" diceva. In poco tempo, l'intero vicinato si accorgeva della sua presenza e accorreva per un rapido servizio. A volte, Battista trascorreva l'intera mattinata in quel cortile, trasformando un semplice taglio di capelli in un momento di comunità.

Quando Battista andò in pensione, mi toccò scegliere un nuovo barbiere. Fu Salvatore, un azzimato siciliano che più che tagliare i capelli sembrava interessato a corteggiare con eleganza e discrezione le madri dei suoi piccoli clienti. Si trattò di una meteora, perché dopo poco tempo si trasferì altrove. Chissà se la sua scelta di vita fu favorita da qualche marito un po' scontento.

Poi venne Cosimo, un simpatico e ironico pugliese con la battuta pronta. Il dramma, però, era quando andava in ferie. L'estate non si poteva resistere alle pressioni dei parenti.

"Fa caldo, si suda, devi andare dal parrucchiere" consigliavano con fermezza i genitori.

"Sembri un cappellone" diceva mio nonno scuotendo la testa con disgusto.

La scelta era limitata. Nella vicina cittadina c'erano due fratelli, Ciro e Pasquale, ognuno con il proprio salone. Quello di Ciro era più elegante, frequentato da professionisti e ricchi commercianti. C'ero stato una sola volta, e mi ero sentito a disagio. Pasquale, il fratello, era dunque la scelta obbligata. Il suo salone era modesto, con arredi molto vecchi, i suoi clienti erano soprattutto ragazzini e anziani. Lui offriva solo due tipi di taglio: capelli lunghi o corti. Per "lunghi" si riferiva a un taglio a spazzola, tipo marine, mentre per "corti" intendeva rasati a zero. Scegliere tra le due proposte era come decidere se buttarsi dal decimo piano o dal nono.

Mi scuoto dai miei pensieri, da ricordi che, dopo tanti anni, hanno acquisito una malinconica dolcezza. Il rumore metallico delle forbici e il vociare del salone mi riportano al presente. È finalmente arrivato il mio turno. Mi accomodo sulla poltrona di Carmelo, che con la sua solita gentilezza mi rivolge la consueta e fatidica domanda.

"Come li facciamo?" Subito dopo inizia a propormi alcuni tipi di taglio ma, come sempre, io lo blocco.

"Facciamoli corti" dico.

Carmelo annuisce e sorride. 


 


martedì 7 ottobre 2025

LO SCAPESTRATO

La casa di Michele era situata proprio di fronte alla mia. Un ammasso sgangherato di mattoni e intonaco scrostato che sembrava voler crollare da un momento all'altro. Michele aveva un anno più di me, ma era stato bocciato diverse volte e si ritrovava un anno indietro. Il ragazzino era considerato, in paese, una cattiva compagnia: giocare con lui era tassativamente proibito.

Suo padre, che faceva lo stradino, era un uomo di poche parole. Aveva una gamba rigida che gli dava un'andatura zoppicante. Le sue mani, però, erano svelte, capaci di riparare qualsiasi cosa. La madre, invece, si muoveva come un'ombra, furtiva e silenziosa, ma la sua lingua era un mulino che macinava pettegolezzi senza sosta. E poi c'erano le sorelle di Michele, tutte e due più grandi di lui. Erano il ritratto dell'antipatia e della scortesia, sempre pronte a pavoneggiarsi con abiti economici ma vistosi. A me, bambino, quelle ragazze facevano pensare alle sorellastre di Cenerentola.

Nonostante il divieto, le occasioni per incontrare Michele non mancavano. Lui era un tipo strano, taciturno, con una voce ruvida e sgradevole che sembrava grattare la gola. Non gli piaceva nessun gioco, nessuna delle nostre innocenti corse o delle finte battaglie. L'unica cosa che amava fare era tirare sassi, e le sue tasche erano sempre rigonfie di proiettili. Aveva anche una fionda, fabbricata da lui, con la quale andava a caccia di uccelli. Quando aveva occasione di sgraffignare qualcosa, inoltre, non si tirava mai indietro. Sapevo che fumava: rubava cartine e tabacco al padre e con quelle fabbricava sigarette dalla forma sgraziata. A volte mi permetteva di assistere ai suoi riti segreti. Le accendeva di nascosto, ma ogni boccata si traduceva in un minuto intero di tosse convulsa. Poi buttava via la sigaretta, mugugnando che il tabacco faceva schifo e che quelle con il filtro erano un'altra cosa, ma suo padre, aggiungeva, era troppo tirchio per comprarle. Io pensavo che il genitore non fosse avaro, ma semplicemente povero, o almeno, questo era ciò che sentivo dire dai miei.

Michele non aveva amici. Girava quasi sempre da solo, un lupo solitario. Conosceva un numero impressionante di parolacce, che snocciolava in serie. Solo col tempo capii che le usava a vanvera, senza conoscerne il vero significato. A volte era manesco, sembrava quasi che la violenza gli piacesse. Quando percepivo la sua irrequietezza, mi allontanavo. Lui mi richiamava e, se non tornavo, mi tirava pietre con una mira incredibile. Se i miei genitori avessero scoperto i miei incontri con Michele, sarei stato punito con severità. A me sembrava ingiusto. Certo, aveva un brutto carattere, ma isolarlo in quel modo non era la migliore soluzione.

Una mattina, all'inizio dell'estate, scesi in strada e un senso di vuoto mi colpì. La casa di Michele era deserta. Lui e la sua famiglia se n'erano andati alla chetichella, senza un saluto, senza una parola. L'intera borgata tirò un sospiro di sollievo. Quella famiglia così scostante non era mai piaciuta a nessuno. Eppure, in fondo, io ne fui un po' dispiaciuto. Michele non era mai stato mio amico, e a volte mi faceva persino paura, ma era stato il ragazzo più particolare che avessi mai incontrato nella mia infanzia, unico, del tutto diverso da me e da tutti gli altri.