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martedì 24 giugno 2025

CINQUANT'ANNI DOPO

Il tempo, si sa, non fa sconti. Maria se n’era accorta più che mai da quando era andata in pensione. Le giornate, prima scandite dal ritmo frenetico del lavoro, si erano fatte lunghe, vuote. E in quel vuoto lei, poco alla volta, si era persa. I capelli, prima castani e lucidi, adesso erano un groviglio informe di ciocche grigie e arruffate. La pelle del viso, segnata da rughe profonde come solchi, raccontava una storia di anni senza trucco, senza creme, senza la minima cura. Gli abiti, poi, erano un capitolo a sé: sempre gli stessi da anni, logori e stazzonati, appesi al suo corpo come sacchi vuoti.

Un pomeriggio, mentre scorreva la bacheca di Facebook, uno dei suoi pochi passatempi, un nome le balzò agli occhi, un ricordo lontano di un passato mai del tutto sopito: Andrea Rossi. Proprio lui, il ragazzo che le piaceva ai tempi della terza media. Il cuore le fece un balzo. Il suo profilo era lì, a portata di click. Scorse le foto, i post, fino a quando i suoi occhi non si posarono sull’indirizzo del negozio di elettrodomestici che Andrea gestiva. Non era lontano da lei. Una decisione improvvisa, quasi un impulso irrefrenabile, la spinse a non contattarlo online. Lo avrebbe incontrato di persona.

Cinquanta lunghi anni erano passati, ma quell’episodio continuava a tormentarla, a riaffiorare nella sua mente. Un pomeriggio, dopo la scuola, Andrea e un altro compagno avevano invitato lei e la sua amica Albertina a visitare una casa abbandonata. L’eccitazione e la paura si erano mescolate in un cocktail inebriante. Quando erano stati sul posto, i ragazzi erano saliti ad esplorare il piano superiore, lasciando Maria e Albertina sole in una stanza polverosa.

"Quando scendono gli facciamo uno scherzetto" aveva detto Albertina, ridacchiando, con quella sua aria sfrontata e disinibita che tanto la caratterizzava.

"Che cosa?" aveva domandato Maria, la cui timidezza era un fardello pesante. L'amica le aveva sussurrato ciò che avrebbero dovuto fare. Il viso di Maria si era incendiato, un rossore violento le aveva invaso le guance. Un imbarazzo così profondo da farle male, un misto di vergogna e di ribellione. Non poteva, non ce la faceva. Non era come Albertina, lei era così timorata!

Un’improvvisa ondata di panico l’aveva travolta. Aveva afferrato la stupefatta Albertina per un braccio, quasi strattonandola.

"Andiamo, dobbiamo andare via!" aveva detto con voce strozzata. E così erano fuggite, senza nemmeno avvisare i ragazzi che, una volta tornati, le avevano cercate invano. Quella fuga improvvisa, quella paura di osare, di lasciarsi andare, l’aveva perseguitata per mezzo secolo.

Ora era lì, a pochi passi dal negozio di Andrea. Il cuore le batteva forte, l’attesa era snervante. Poi, le saracinesche si abbassarono. Un uomo uscì dal negozio e si incamminò proprio verso di lei: Andrea. Non c’era alcun dubbio. Il tempo l’aveva cambiato, ma in un modo benevolo. Era un uomo attraente, nonostante l’età, con un portamento elegante e uno sguardo che conservava ancora un guizzo giovanile.

Andrea la vide. I suoi occhi si posarono su di lei, ma non c’era traccia di riconoscimento. Anzi, un’espressione di imbarazzo, quasi una smorfia, gli attraversò il viso. Poi, con un gesto inaspettato, l’uomo mise la mano in tasca, tirò fuori alcune monete e gliele porse, prima di allontanarsi di fretta.

 

martedì 17 giugno 2025

L'UOMO DI PAGLIA

Un affollato bar di paese, odore di vino e birra e tante chiacchiere che riempiono l'aria. È una serata come tante altre, con amici che si ritrovano per condividere storie e risate, per ubriacarsi e scordare le tribolazioni quotidiane. Tra loro ci sono Giorgio, Tonio e Saturnino, seduti con altri attorno a un tavolo di legno consumato dal tempo. Gli sghignazzi si mescolano al rumore dei bicchieri che si scontrano, mentre l'oste si affanna a servire i clienti. Dopo avere bevuto parecchio, l'atmosfera si fa più intima e i tre amici decidono di rivelare i loro timori più profondi. Giorgio, con un sorriso nervoso, è il primo a cominciare.

"La mia paura più grande? Che mia moglie scopra che vado a puttane. Quella mi porta in tribunale!"

Tonio scoppia a ridere, lo prende in giro.

"Ma dai, Giorgio! Altro che puttane! Lo sappiamo che vai sempre dalla stessa, da vent'anni! Secondo me tua moglie lo sa eccome, ma sta ben zitta! Almeno se ne può stare tranquilla!"

Il divertimento contagioso si diffonde tra i presenti, anche se non sembra toccare più di tanto Tonio che, con un'espressione seria, interviene.

"La mia paura? Volete sapere qual è la mia paura? Quella di essere seppellito vivo! Ho già dato istruzioni per essere cremato e per spargere le ceneri in cento posti diversi. Non si sa mai..." Saturnino, fino a quel momento silenzioso, interviene con tono grave. Tutti tacciono di colpo.

"Il mio terrore è quello di finire impagliato" dice in fretta.

Un silenzio un po' imbarazzato scende sul tavolo, subito seguito da una risata collettiva.

"Ehi, Saturnino, hai paura di diventare uno spaventapasseri?" dice qualcuno, ma lui non ride affatto e continua a bere, lo sguardo fisso nel vuoto. Poi si cambia discorso, si comincia a parlare di sport, e la serata prosegue.

Qualche giorno dopo, Saturnino esce di casa con la sua doppietta accompagnato dal fedele segugio Flok. Il bosco lo accoglie con il suo silenzio, e lui si sente a casa. Mentre cammina tra gli alberi, incontra una figura strana: un uomo robusto, che indossa una specie di mantello e con il viso in parte coperto. Saturnino quasi si spaventa. Quel tizio sembra un brigante! Anche Flok è guardingo, emette un ringhio sommesso. L'uomo si avvicina, alza un braccio, sembra amichevole.

"Buongiorno, anch'io sono un cacciatore," dice con voce bassa e roca, ma Saturnino nota che non ha con sé né fucile né cane. All'improvviso l'uomo estrae dalla tasca un corto tubo luccicante e glielo punta contro . Un calore intenso pervade il corpo di Saturnino, l'abbaiare di Flok si trasforma in uggiolio lamentoso. Poi tutto diventa buio.

Un lontano pianeta, un ambiente cavernoso ma raffinato ed elegante. Un maschio alieno termina il suo pasto, mentre la femmina lo invita a spostarsi in un'altra stanza.

"Devo pulire" dice, con tono autoritario. "Guarda che sono stufa di togliere la polvere a quei due animali impagliati. Sembra addirittura che diffondano cattivo odore, forse sono stati imbottiti male".

Il maschio alieno sbuffa, non ne può più di quella storia, ma non può fare a meno di difendere i suoi trofei.

"Non è vero! Il lavoro è stato fatto a regola d'arte!"

La femmina tuttavia insiste, e alla fine lui, esasperato, accetta di liberarsene, ma chiede di poter almeno tenere, tra i due, l'animale più piccolo. Quello più grazioso, con il pelo lungo, quello che gli è sempre piaciuto di più. Dopo un momento di riflessione lei acconsente, a patto che lui prometta di non andare mai più a caccia in quel remoto e schifoso pianeta.

 

martedì 10 giugno 2025

INCONTRI

Il crepuscolo si insinuava lento tra le case della grande città. Yuki aspettava sotto il porticato di un vecchio palazzo, il colletto del soprabito alzato per ripararsi dalla brezza umida che saliva dal fiume. La temperatura non era rigida, ma quel venticello portava con sé una indistinta percezione di foglie morte e di qualcosa di non espresso, una sensazione che Yuki conosceva bene.

La ragazza arrivò silenziosa come un gatto, la figura esile avvolta in un cappotto scuro che le nascondeva il viso. Si chiamava Akari. I due si incontravano in quel posto, in un tempo sospeso tra il giorno e la notte, due volte alla settimana. Non si erano mai chiesti perché proprio quel luogo, né perché quel preciso momento. Era come se un filo invisibile, intrecciato di malinconia condivisa e silenzi significativi, li avesse condotti lì.

Si erano conosciuti alcuni mesi prima, in aeroporto. Due anime sperse che provenivano dallo stesso Paese, il Giappone. Un impegno comune: lo studio. Avevano deciso di rivedersi e lo avevano fatto. A una prima volta ne erano seguite tante altre.

"Ciao" disse lei, la voce un sussurro leggero.

"Ciao, Akari," rispose il ragazzo.

Non si baciarono, non si abbracciarono, né si presero per mano. Stavano lì, l'uno di fronte all'altra, come due personaggi usciti da un racconto incompiuto. Poi, senza bisogno di altre parole, iniziarono a camminare.

Le strade della grande città a quell'ora avevano un qualcosa di surreale. Le vetrine dei negozi riflettevano luci debole e figure indistinte, creando un paesaggio da sogno in cui il tempo sembrava rallentare. I due ragazzi camminavano fianco a fianco, mantenendo una distanza rispettosa, come se avessero paura anche soltanto di sfiorarsi.

A tratti si fermavano davanti a una vetrina illuminata, osservando in silenzio un oggetto qualsiasi: un manichino con un vestito di seta color violetto, una pila di libri con copertine sbiadite. In quei momenti, Yuki sentiva un legame particolare con Akari, un'intesa che andava oltre le parole.

Una sera, mentre passeggiavano lungo il fiume, con l'acqua che scorreva scura e silenziosa, riflettendo le luci tremolanti dei lampioni, Akari all'improvviso si arrestò. Si appoggiò alla ringhiera di ferro battuto.

"Yuki" disse, la voce appena percepibile sopra il leggero rumore dell'acqua. "A volte ho l'impressione che le nostre vite siano come dischi rotti che continuano a suonare la stessa vecchia canzone".

Il ragazzo la guardò. I suoi occhi scuri brillavano nella semioscurità, pieni di una tristezza antica. Lui condivideva quella sensazione. Anche la sua vita, a volte, gli sembrava un ripetersi infinito di gesti e di sogni sbiaditi.

"Forse hai ragione" disse Yuki. "Incontrarci è come trovare per un istante una nuova traccia da ascoltare".

Akari accennò un sorriso appena percettibile. Poi si voltò e riprese a camminare, i suoi passi leggeri sull'acciottolato un po' umido. Yuki la seguì, sentendo per la prima volta da molto tempo una fragile speranza fiorire dentro di sé.

Non sapevano che cosa sarebbe accaduto in futuro, né dove li avrebbe portati quel loro strano rituale. Tuttavia, in quei momenti, i due ragazzi trovavano un rifugio sicuro. Un luogo in bilico nel tempo dove le loro solitudini si incontravano. E forse potevano comprendersi.

 

martedì 3 giugno 2025

QUANTE PAROLE!

Il pranzo domenicale era stato un po' troppo abbondante. E forse avevo pure esagerato con il vino. Avevo bisogno di un pisolino ristoratore e quindi andai in camera. Il sole picchiava impietoso contro le persiane chiuse.

Mi stesi sul letto, il corpo finalmente disteso dopo la libagione, e chiusi gli occhi, pronto a lasciarmi cullare dal silenzio di quel pomeriggio festivo. Tutta apparenza. Un vocio insistente, monotono, che proveniva dalla strada, si insinuava con fastidio dalla finestra. Un brusio continuo che mi  impediva di incontrare il sonno.

Incuriosito ma soprattutto irritato, mi alzai a malincuore, scostai la tenda e sbirciai dalla finestra. Sotto, nel piccolo bar all'angolo, un ragazzo e una ragazza sedevano a un tavolino all'aperto. Era lui a parlare, sempre e solo lui, un fiume di parole senza interruzione, un torrente verbale che non accennava a placarsi. La sua voce sgradevole, dal timbro metallico, riempiva l'aria con un borbottio costante. Lei lo ascoltava, o almeno così sembrava, con un'espressione che oscillava tra la rassegnazione e la vaga perplessità.

Sospirai, irritato, quindi mi ritirai di nuovo sul letto, cercando di ignorare quel fastidioso sottofondo sonoro. Nonostante il disturbo, dopo un po' il sonno finì per avvolgermi.

Quando mi svegliai, quasi un'ora dopo, la situazione non era cambiata. La stessa voce, identica nel tono e nell'intensità, proseguiva il suo incessante monologo. La mia irritazione, a quel punto, crebbe a dismisura. Non ne potevo proprio più.

Senza pensarci troppo, infilai le scarpe, ancora con i capelli arruffati e la maglietta stropicciata, scossi la testa per cercare di scacciare la sonnolenza residua e scesi in strada.

Mi avvicinai al loro tavolino, il sangue che mi pulsava nelle tempie. Mi rivolsi alla ragazza e, con un tono che nemmeno io sapevo di possedere, sbottai.

"Signorina, se questo è il suo fidanzato, le consiglierei di lasciare perdere. Troppe parole".

Calò un silenzio improvviso. La ragazza, con mia sorpresa, non si scompose. Mi guardò con un'espressione seria, quasi pensierosa, prima di parlare.

"Grazie, signore. In effetti qualche dubbio ce l'avevo, lei me li ha chiariti del tutto" disse con calma, poi accennò un piccolo sorriso, come se un grosso peso le fosse stato tolto dalle spalle.

Il ragazzo invece continuava a fissarmi, a bocca aperta. Una bocca spalancata dalla quale, finalmente, non usciva più alcun suono.