I due uomini scesero una lunga serie di
scale che, a mano a mano che si procedeva, si facevano sempre più strette e
buie. Sembrava quasi che mancasse l’aria. Il vescovo sudava e sbuffava,
affaticato. Giunsero infine di fronte a una piccola porta di legno, rinforzata
da sbarre di metallo arrugginite. Ad attenderli trovarono tre uomini: due
giovani guardie, che non riuscivano a celare il loro sbalordimento, e un
individuo dall’aria stanca e rassegnata, l’indagato.
Pedro Guerrero infilò la chiave nella
toppa. Con un grande sforzo riuscì a farla ruotare, più volte. Aiutandosi con
la possente spalla, scostò la porta che si aprì cigolando. Il primo ad entrare
fu il comandante Frisch. Si trovò di fronte a un buio impenetrabile. Tastando
il muro con la mano, prima a destra e poi a sinistra, cercò inutilmente
l’interruttore, che non c’era. Sorpreso, si voltò e incrociò lo sguardo
sorridente e gioviale di Pedro Guerrero.
“Comandante, a quei tempi l’elettricità
non esisteva” disse il vescovo, che poi si rivolse a una delle guardie.
“Presto, vai a prendere dei ceri, molti
ceri. Mi raccomando, che alcuni siano grossi, perché mi serviranno per…” Quindi
si interruppe, mentre già il ragazzo scattava per eseguire l’ordine, e iniziò a
rovistare nell’ampio vestito finché non recuperò una torcia elettrica. La
accese.
Immersi nel cono di luce, i due uomini
penetrarono nella stanza. C’era molta polvere, e odore di muffa.
“Portate dentro anche il prigioniero”
disse il vescovo. Questi non oppose la minima resistenza. Aveva la bocca
spalancata, ma non emetteva alcun suono. I suoi occhi sembravano dover
schizzare fuori dalle orbite da un momento all’altro. Era terrorizzato.
“Eccellenza, le ricordo che si tratta del
maggiordomo del Santo Padre” riuscì a dire Frisch. L’altro non rispose.
Illuminò con la torcia alcuni attrezzi che si trovavano all’interno della
stanza. Prima una garrotta, poi un rullo, quindi delle zampe di gatto, una
culla di Giuda e uno schiacciatesta. Ne provò il funzionamento e annuì tra sé,
soddisfatto. Appoggiate su un bancone corroso dai tarli c’erano pinze e
tenaglie ricoperte di ruggine e rivestite da soffici ragnatele.
Il comandante delle guardie fissò quegli
strumenti, agghiacciato.
“Non si preoccupi, comandate. Prima di
utilizzarle le sterilizzerò. Con il fuoco” disse il vescovo. Il suo sorriso si
era trasformato in un orribile sogghigno. Il colonnello Frisch rabbrividì
ancora di più.
Tornò la giovane guardia e furono accesi
innumerevoli ceri. La stanza assunse un aspetto inquietante. Il vescovo congedò
i due militari e rimase solo con il comandante e l’accusato, che fu fatto
stendere su un tavolaccio e fissato ad esso per mezzo di rigide cinghie di
cuoio. Il malcapitato iniziò a piangere, in silenzio.
“Colonnello Frisch, avrei bisogno di un
testimone per l’interrogatorio e quindi le chiederei di rimanere. Tuttavia se
proprio non se la sente…”
Il comandante uscì quasi di corsa dalla
stanza e si catapultò su per le scale. Il vescovo sorrise e iniziò la sua
inchiesta.
Dopo circa un’ora il piantone irruppe di
nuovo nell’ufficio del capo della gendarmeria.
Frisch alzò stancamente il capo.
“Che succede ancora?” domandò.
“C’è… c’è… lui!”
“Chi? Che cosa stai dicendo?”
Proprio in quel momento comparve una
figura che indossava una candida veste bianca, accompagnata da un ometto
dall’aspetto dimesso, il suo segretario particolare.
Il colonnello Frisch balzò in piedi,
aggirò la scrivania, si inginocchiò e baciò il grosso anello.
“Santo Padre!” disse, ancora meravigliato.
L’altro gli sorrise e gli toccò il capo
con una mano. Una benedizione?
“Come procede interrogatorio?” domandò
l’uomo in bianco, con il suo forte accento straniero.
Il comandante trasalì.
“Eh?”
“Mio incaricato stare lavorando?” domandò
ancora il Pontefice.
In quell’attimo si udirono delle urla
disumane, che provenivano dai sotterranei.
“Sì, sta lavorando, sta lavorando bene”
disse il comandante, sbiancando.
Il Papa annuì, beato.
“Non sia così turbato, colonnello. Verità
è spesso accompagnata da dolore” pronunciò solenne.
FINE
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