Powered By Blogger

martedì 24 settembre 2024

L' AULA (Prima parte)


 "Potevo fare di quest’aula sorda e grigia un bivacco di manipoli".

Lo aveva detto, e lo aveva fatto. Non come quell’altro, quello pelato, che tanti anni prima aveva proferito la medesima minaccia ma non l’aveva attuata, anche se poi si era macchiato di nefandezze ben peggiori. A modo loro, si tratta comunque di due sbruffoni, di due pericolosi gradassi. In ogni caso tocca a me affrontare quest’ultimo, l’attore riccioluto.

Percorro a piedi le vie della Città Eterna che, come sempre, pare indifferente alle miserie umane. Ne ha viste troppe ormai, ha perso la capacità di stupirsi, preferisce sonnecchiare in paziente attesa che anche ciò che sta accadendo in questi giorni cupi trascorra e si trasformi con rapidità in storia.

Cammino da solo, privo di scorta, perché non l’ho mai voluta e ora comunque non l’avrei più. Nessuna persona amica mi accompagna. Tra i passanti che incrocio, tra quelli che mi riconoscono, colgo sguardi di ostilità, quando non sono di odio puro. Eppure non ho fatto nulla di male. Al contrario, i miei propositi erano positivi, sono sicuro che avrei potuto dare il mio significativo contributo alla rinascita di questa nazione disgraziata. Lo giuro, la mia non era soltanto ambizione sfrenata. Certamente c’era pure quella, non lo nascondo, ma ho sempre nutrito grande fiducia nelle mie capacità, non vedevo l’ora di mettermi alla prova. Non ne ho avuto il tempo, perché tutto è accaduto così in fretta, in maniera del tutto imprevedibile, che anch’io, che mi sono sempre vantato di vivere a velocità doppia rispetto a tutti gli altri, ne sono stato dapprima sorpreso e poi travolto.

Tengo gli occhi bassi, non voglio che la mia espressione, di solito un po’ sfrontata, possa apparire come una provocazione. Ignoro gli insulti che mi vengono rivolti e tiro dritto.

"Stronzo!"

 "Sei un pezzo di merda!"

 "Vattene a casa!"

 "Vaffanculo!"

Mi avvicino alla sede del partito, dove mi staranno tutti aspettando. È in quell’edificio che adesso si riunisce il governo, il mio governo, quello che è durato un solo giorno. Che nessuno sa se sia ancora in carica o meno. A me piace pensare che lo sia ancora, anche se ciò rappresenta più che altro un’illusione.

Di fronte al palazzo ci sono due poliziotti. Hanno le giubbe slacciate, parlano e fumano. Il loro atteggiamento è rilassato e strafottente. So bene che, se ci fossero dei disordini, non interverrebbero. Proprio ieri sera un gruppo di scalmanati ha tentato di occupare la sede del partito e la polizia non si è intromessa. Gli agenti sono rimasti a guardare. Se non fosse stato per i nostri ragazzi, quelli del nostro servizio d’ordine improvvisato, ora non avremmo neppure un luogo dove riunirci. Saremmo ridotti alla clandestinità.

"Tanto non siete stati eletti! Che volete?" direbbero i cittadini, ormai trasformati in un branco di esaltati, di minacciosi fanatici.

All’ingresso ci sono due robusti giovanotti. Mi riconoscono, mi fanno un cenno di saluto e mi permettono di entrare. I loro sguardi sono affranti, quasi rassegnati.

                                                                                                         (Continua)

martedì 17 settembre 2024

L' ARMADIO

Il nostro dirigente ha appena ottenuto una promozione. Un’altra. È sempre la stessa storia: chi non merita progredisce mentre gli altri, ad esempio il sottoscritto, rimangono fermi al palo. Purtroppo è così, le ingiustizie tendono a perpetuarsi. Non c’è proprio nulla da fare.

A differenza delle altre volte, però, il comportamento del nostro responsabile è stato differente.

Dovete sapere che sto parlando di un uomo molto riservato, qualcuno dice addirittura villano, che non ama il contatto con la gente, e ancora meno con i suoi sottoposti. Che se ne sta tutto il giorno chiuso nel suo elegante ufficio a impartire direttive attraverso il telefono.

Quindi siamo rimasti tutti piuttosto sorpresi quando, di buon mattino, si è presentato nella nostra stanza. Erano trascorsi anni dall’ultima volta che l’aveva fatto.

Immediatamente abbiamo smesso di parlare, abbiamo chinato la testa e abbiamo finto di lavorare. Ma lui non ha badato a questo aspetto della nostra attività lavorativa, alludo alla eccessiva indolenza, bensì ha sorriso e annunciato che ci sarebbe stata una piccola festa. Il dirigente è un uomo di alta statura, rigido nei movimenti, con una gran testa. Mi riferisco alle dimensioni del cranio, ovviamente. I suoi pochi e sottili capelli, dall’attaccatura arretrata sulla fronte ampia, sono sempre arruffati e bisognosi di pettine.

Ha comunicato che ci sarebbe stato un rinfresco per festeggiare il suo avanzamento di carriera. Rilassati ma non troppo, io e i miei colleghi ci siamo alzati dalle scrivanie e lo abbiamo attorniato. Io gli ho stretto la mano senza dire nulla, e mi sono sentito alquanto stupido. La mia collega Maria, più espansiva, ha pronunciato ingarbugliate parole di congratulazione e poi lo ha baciato sulle guance. Lui dapprima si è ritratto, poi si è sottomesso a quella inaspettata violenza anche se è arrossito come un pomodoro.

Subito dopo, a sorpresa, sono entrati due camerieri. Li abbiamo riconosciuti come tali perché indossavano una giacca uguale, di un tremendo colore giallognolo. Con gesti svelti e precisi hanno steso una tovaglia di carta sul nostro inutilizzato e impolverato tavolo per riunioni.

Al loro successivo ingresso hanno portato le bevande: acqua naturale, acqua gassata e… acqua lievemente frizzante. C’è stato un generale sospiro di delusione. D’altra parte, si sa che non è consentito bere alcolici durante l’orario di lavoro. Tuttavia avremmo gradito volentieri un’eccezione alla regola, anche se era mattino. Poi è arrivato il primo vassoio, non tanto grande, per la verità. Conteneva dei pasticcini di svariati colori, troppi colori, e perciò non molto invitanti. Ne abbiamo consumato uno a testa, cercando di masticare in silenzio e facendo bene attenzione a non spandere crema su giacche, cravatte e camicette. Lui non ha mangiato. Poi i camerieri sono di nuovo usciti e hanno fatto ritorno dopo alcuni secondi con un piccolo vassoio di pizzette e salatini. Io e i miei colleghi abbiamo scambiato uno sguardo obliquo. Perché servire le paste salate dopo quelle dolci? Un vero e proprio orrore alimentare. Ci siamo domandato, stando muti, se quel deficiente l’avesse fatto apposta. Se la sua intenzione fosse la solita, cioè quella di umiliarci. Non pareva così. Il dirigente ha continuato a dispensare sorrisi. Mi ha invitato a prendere un secondo salatino, raccomandandomi di scegliere quello con le alici piccanti, un’autentica delizia, a suo dire. Vincendo la nausea e i conati di vomito, l’ho accontentato. Come prima, lui non ha consumato nulla. A un tratto ha avvicinato alle labbra il bicchiere di plastica pieno a metà di acqua naturale, ma non ha bevuto. Nessuno se n’è accorto, tranne me.

Poi, all’improvviso, ha detto che la festa era finita. Ha aggiunto che per noi ci sarebbe stata ancora un’ultima sorpresa. Aveva deciso di farci un regalo. Qualcosa di utile, ha precisato.

La porta dell’ufficio si è spalancata di colpo, e due facchini sudati hanno trascinato all’interno un grosso armadio. Badate bene, non un mobile da ufficio, di quelli in lamiera sottile e con i battenti di vetro. No, si trattava invece di un ingombrante armadio di legno, usato ma di certo non un pezzo di antiquariato. Enorme, marrone scuro, cupo e opprimente.

Il dirigente ha impartito comando ai due uomini di collocare l’armadio accanto alla mia scrivania. Loro hanno risposto con un grugnito e hanno eseguito. Il grosso mobile ha ostruito per metà la finestra, l’unica presente nel locale. Non ho osato esprimere rimostranze. Nessuno ne ha avuto il coraggio. Qualcuno, forse quel cretino di Pino, ha pure ringraziato. Ci siamo guardati in faccia, depressi e allibiti.

Quando ci siamo voltati, il dirigente non c’era più.

Ormai è trascorso un po’ di tempo. Da quando sono costretto a convivere con quel catafalco al mio fianco, voglio dire. La luce sul mio piano di lavoro è scarsa. Non ci vedo bene, e sono stato obbligato a procurarmi un nuovo paio di occhiali. Nessuno di noi ha mai aperto l’armadio. Non ne abbiamo mai avuto il coraggio. E non sappiamo se dentro ci sia qualcosa. Né lo abbiamo utilizzato per riporre le nostre pratiche. In verità ne abbiamo paura. Io ne sono terrorizzato. Perché di quell’uomo, del nostro dirigente, non mi sono mai fidato.



 

martedì 10 settembre 2024

LA CHIAVE (Seconda e ultima parte)


I due uomini scesero una lunga serie di scale che, a mano a mano che si procedeva, si facevano sempre più strette e buie. Sembrava quasi che mancasse l’aria. Il vescovo sudava e sbuffava, affaticato. Giunsero infine di fronte a una piccola porta di legno, rinforzata da sbarre di metallo arrugginite. Ad attenderli trovarono tre uomini: due giovani guardie, che non riuscivano a celare il loro sbalordimento, e un individuo dall’aria stanca e rassegnata, l’indagato.

Pedro Guerrero infilò la chiave nella toppa. Con un grande sforzo riuscì a farla ruotare, più volte. Aiutandosi con la possente spalla, scostò la porta che si aprì cigolando. Il primo ad entrare fu il comandante Frisch. Si trovò di fronte a un buio impenetrabile. Tastando il muro con la mano, prima a destra e poi a sinistra, cercò inutilmente l’interruttore, che non c’era. Sorpreso, si voltò e incrociò lo sguardo sorridente e gioviale di Pedro Guerrero.

“Comandante, a quei tempi l’elettricità non esisteva” disse il vescovo, che poi si rivolse a una delle guardie.

“Presto, vai a prendere dei ceri, molti ceri. Mi raccomando, che alcuni siano grossi, perché mi serviranno per…” Quindi si interruppe, mentre già il ragazzo scattava per eseguire l’ordine, e iniziò a rovistare nell’ampio vestito finché non recuperò una torcia elettrica. La accese.

Immersi nel cono di luce, i due uomini penetrarono nella stanza. C’era molta polvere, e odore di muffa.

“Portate dentro anche il prigioniero” disse il vescovo. Questi non oppose la minima resistenza. Aveva la bocca spalancata, ma non emetteva alcun suono. I suoi occhi sembravano dover schizzare fuori dalle orbite da un momento all’altro. Era terrorizzato.

“Eccellenza, le ricordo che si tratta del maggiordomo del Santo Padre” riuscì a dire Frisch. L’altro non rispose. Illuminò con la torcia alcuni attrezzi che si trovavano all’interno della stanza. Prima una garrotta, poi un rullo, quindi delle zampe di gatto, una culla di Giuda e uno schiacciatesta. Ne provò il funzionamento e annuì tra sé, soddisfatto. Appoggiate su un bancone corroso dai tarli c’erano pinze e tenaglie ricoperte di ruggine e rivestite da soffici ragnatele.

Il comandante delle guardie fissò quegli strumenti, agghiacciato.

“Non si preoccupi, comandate. Prima di utilizzarle le sterilizzerò. Con il fuoco” disse il vescovo. Il suo sorriso si era trasformato in un orribile sogghigno. Il colonnello Frisch rabbrividì ancora di più.

Tornò la giovane guardia e furono accesi innumerevoli ceri. La stanza assunse un aspetto inquietante. Il vescovo congedò i due militari e rimase solo con il comandante e l’accusato, che fu fatto stendere su un tavolaccio e fissato ad esso per mezzo di rigide cinghie di cuoio. Il malcapitato iniziò a piangere, in silenzio.

“Colonnello Frisch, avrei bisogno di un testimone per l’interrogatorio e quindi le chiederei di rimanere. Tuttavia se proprio non se la sente…”

Il comandante uscì quasi di corsa dalla stanza e si catapultò su per le scale. Il vescovo sorrise e iniziò la sua inchiesta.

Dopo circa un’ora il piantone irruppe di nuovo nell’ufficio del capo della gendarmeria.

Frisch alzò stancamente il capo.

“Che succede ancora?” domandò.

“C’è… c’è… lui!”

“Chi? Che cosa stai dicendo?”

Proprio in quel momento comparve una figura che indossava una candida veste bianca, accompagnata da un ometto dall’aspetto dimesso, il suo segretario particolare.

Il colonnello Frisch balzò in piedi, aggirò la scrivania, si inginocchiò e baciò il grosso anello.

“Santo Padre!” disse, ancora meravigliato.

L’altro gli sorrise e gli toccò il capo con una mano. Una benedizione?

“Come procede interrogatorio?” domandò l’uomo in bianco, con il suo forte accento straniero.

Il comandante trasalì.

“Eh?”

“Mio incaricato stare lavorando?” domandò ancora il Pontefice.

In quell’attimo si udirono delle urla disumane, che provenivano dai sotterranei.

“Sì, sta lavorando, sta lavorando bene” disse il comandante, sbiancando.

Il Papa annuì, beato.

“Non sia così turbato, colonnello. Verità è spesso accompagnata da dolore” pronunciò solenne.


                                                            FINE

 


mercoledì 4 settembre 2024

LA CHIAVE (Prima parte)


I locali della piccola gendarmeria si animarono all’improvviso.

Il piantone fece irruzione, trafelato, nell’ufficio del comandante, il colonnello Max Frisch.

“Ehi! Che succede?” disse l’ufficiale, sollevando il volto da un’alta pila di carte.

La guardia deglutì, poi si sistemò sull’attenti di fronte all’enorme scrivania.

“Chiedo scusa, comandante. C’è un uomo che desidera incontrarla, subito.”

“Chi è?”

L’altro alzò le spalle, desolato, e solo un istante dopo si rese conto che quel suo gesto poteva apparire poco marziale. Chiese di nuovo scusa.

“Non ha voluto presentarsi” aggiunse. “Comunque si tratta di uno di loro.”

Max Frisch, un uomo non più giovane, con la pelle del viso di color rosso acceso che contrastava con i capelli grigi, irti e corti, sospirò. Poi, con un gesto di stizza inconsueto per lui, l'uomo era dotato di grande autocontrollo, scagliò la penna con violenza sul piano del tavolo.

“Va bene, lo riceverò. Lo faccia entrare.”

La guardia salutò, con enfasi eccessiva, e uscì.

Subito dopo fu introdotto nell’ufficio del comandante un uomo molto grasso, vestito con un semplice abito scuro. Sul bavero della sua giacca spiccava, per la sua brillantezza, un minuscolo crocifisso d’argento. L’espressione del viso di quel singolare individuo era piuttosto giovale. Strinse la mano al colonnello e poi si accomodò di fronte a lui, sempre sorridendo. Si presentò.

“Un vescovo!” esclamò il colonnello. “Non avevo mai avuto il privilegio di incontrarla, prima d’ora. Presumo che lei non abbia mai prestato la sua opera in sede. Finora, almeno.”

“Esatto. Di solito i miei incarichi mi portano in giro per il mondo. Pochi giorni fa sono stato richiamato qui, e lei può ben immaginare da chi” disse l’altro, senza nascondere un certo compiacimento.

Frisch assentì, anche se in realtà non aveva ben compreso.

“In che cosa posso essere utile?” domandò.

Il vescovo scoppiò in una fragorosa risata.

“Mi scusi, colonnello, forse mi sono espresso in maniera non sufficientemente chiara. Lei da questo momento sarà ai miei ordini, fino al termine del procedimento giudiziario.”

Il vescovo porse al comandante un plico, estratto a fatica dalla tasca interna della giacca. L’altro esaminò a lungo il carteggio, annuì, poi impallidì.

“Si tratta dell’uomo del Santo Padre? Il maggiordomo?”

Il vescovo annuuì, sfoggiando un ennesimo sorriso.

“Vede, Eccellenza” proseguì Frisch. “La fase istruttoria è praticamente terminata. L’indagato, nel corso di tutti gli interrogatori ai quali è stato sottoposto, ha sempre negato ogni addebito. Inoltre, non siamo riusciti a raccogliere prove sufficienti a suffragare le accuse formulate nei suoi confronti. Al processo sarà inevitabile un verdetto di assoluzione. Sa, dopo tutto questo tempo mi sto convincendo anch’io che quell’uomo possa essere davvero innocente. Una vittima, probabilmente, alla mercé di qualcuno che lo ha utilizzato a sua completa insaputa. E che sta molto in alto.”

Il vescovo scosse con violenza il capo, senza però perdere la sua espressione bonaria.

“Ho l’impressione che lei si sbagli, colonnello.”

Il suo interlocutore scrollò le spalle, in segno di impotenza.

“Desidero interrogare il prigioniero di persona” disse l’alto prelato. “Immediatamente.”

“Il prigioniero?” domandò Frisch, incredulo.

Pedro Guerrero, perché era questo il nome con il quale il corpulento vescovo si era presentato, eluse la domanda.

“Faccia portare subito quell’uomo nella stanza” disse invece. Il suo era un ordine.

“Intende dire qui?”

“Colonnello, forse non ci siamo intesi. Mi riferisco a quella stanza.”

“Impossibile!” sbottò l’ufficiale. “Non è più utilizzata da… da…”

“Tale particolare non ha nessuna importanza. Esegua ciò che le ho detto, comandante.”

“Ma… noi non possediamo neppure la chiave. Quella stanza è…”

Il vescovo frugò in una tasca dei larghi pantaloni.

“Si riferisce a questa?” domandò, sorridente. Poi posò sul piano della scrivania una grossa chiave di bronzo.

Il colonnello Frisch era impietrito.

“Come se l’è procurata?” mormorò.

“L’ho avuta da lui, naturalmente. E lei sa bene a chi mi riferisco.”

“Mi scusi, Eccellenza” disse allora il comandante, prima di uscire dall’ufficio. Dopo aver impartito le necessarie istruzioni ritornò e pregò il vescovo Guerrero di seguirlo.

“I miei uomini, con l’accusato, ci aspettano di sotto."


                                                                                                              (continua)