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domenica 10 settembre 2017

MENTE IN BOCCA


Odio i ricevimenti e le feste in genere, detesto in particolare quelli in cui sono costretto a fare da tappezzeria. Eppure non ho potuto fare a meno di accettare l'invito del mio amico Bill. La schiena addossata a una parete, in mano un bicchiere, il terzo o il quarto drink, osservo Bill impegnato in una animata conversazione, attorniato da un capannello di persone adoranti. Bill è un autentico cervellone. Ci siamo conosciuti all'Università (che io naturalmente non ho ultimato) e la nostra amicizia è durata nel tempo. Lui è una specie di scienziato, si occupa di linguistica, ma ha esteso il suo campo di ricerca anche alla medicina. Il suo ultimo articolo, dove è esposta una stravagante ma innovativa speculazione, è stato pubblicato da una autorevole rivista scientifica e ha suscitato un certo clamore. Il party è in suo onore, e io quel famoso articolo non l'ho neppure letto. Leggere è impegnativo, e poi stanca.
Un'ultima risata generale, poi Bill riesce a staccarsi dai suoi fan (nonché finanziatori) e finalmente mi raggiunge. Sorride, io lo squadro dall'alto verso il basso (il mio amico è un nanerottolo grasso), poi sollevo un sopracciglio.
"Stavi raccontando barzellette?" gli chiedo.
"Che dici? Lo sai che disprezzo le barzellette!" Bill è del tutto privo del senso dell'umorismo.
"Dunque?"
"Stavo esponendo la mia teoria. Sono convinto che non abbiano capito nulla. Non importa, l'importante è che continuino ad aprire i portafogli".
"Già". Finisco di scolare lo scotch, quindi afferro un altro bicchiere da un cameriere di passaggio.
"E tu, che ne dici della mia teoria?" domanda il mio amico.
"Oh, non ho ancora avuto modo di approfondire... Sai, il mio lavoro..."
"Quale lavoro?"
"Falla finita, Bill. Esponimi le tue conclusioni. In parole semplici, per favore".
Lui sorride, poi mi strappa il bicchiere dalla mano e ingolla un robusto sorso. Me lo restituisce.
"Hai presente un computer?"
"Certo che ce l'ho presente".
"Un computer possiede una memoria molto capace, in grado di immagazzinare una quantità di dati che noi non riusciamo neppure ad immaginare".
"Uh, uh".
"Le persone comuni utilizzano i computer, e le loro memorie, all'uno per cento. Non di più".
"Bene".
"Che cosa può essere comparato a un computer?"
"Non lo so, Bill".
Il mio amico sospira.
"Il cervello umano" dice.
"Anche il cervello umano viene utilizzato non più che all'uno per cento della sua capacità" aggiunge.
"Sul serio?"
"Certamente. È come se noi disponessimo di una immensa memoria e ci limitassimo a utilizzarne una parte che può benissimo essere contenuta in una pen drive".
"Eh? Pen drive? Che dici, Bill?"
Un altro sospiro. Di impazienza ma, mi accorgo, anche di compatimento.
"Una chiavetta".
"Ah!".
"Ma il problema non è questo" riprende Bill.
"No?"
"No. Il problema non è il minimo utilizzo del cervello. Il fatto è che la maggior parte degli individui il cervello non lo utilizza affatto".
"Chi lo dice?" domando.
"Lo dicono i miei studi, le mie ricerche".
"Però!"
"Queste persone si servono soltanto di una piccola memoria aggiuntiva, uno strumento periferico, del tutto slegato dall'attività del cervello, che nel loro caso è nulla".
"Non ti seguo, Bill".
"Come sai, i miei studi si limitano soprattutto al linguaggio. Dopo anni di ricerche ho scoperto che la generalità delle persone adopera una quantità di vocaboli che va da trecento a quattrocento. E queste informazioni, utilizzate per comunicare, non provengono dal cervello, bensì dalla bocca".
"Eh?"
"È così. Non più di quattrocento vocaboli, che vengono di continuo rimescolati e ricombinati a formare delle frasi che, come puoi immaginare, consentono di esprimere soltanto pensieri elementari e superficiali. Negli ultimi tempi la situazione è ancora peggiorata. La frenesia della vita attuale, l'esigenza di sintesi, la nascita di strumenti di comunicazione quali i messaggi brevi, l'imposizione al compendio dovuto all'espansione delle reti sociali virtuali, tutto ciò contribuisce sempre di più alla riduzione di numero e alla semplificazione dei vocaboli impiegati. Anche nelle poche occasioni in cui capita di parlare a quattr'occhi bisogna dire tutto in fretta. L'interlocutore sente ma non ascolta, non vede l'ora di dire la sua, di sovrastarti. La conseguenza è che tra qualche tempo impareremo a dire tutto utilizzando non più di duecento parole. Ma questa è soltanto la premessa della mia teoria. Io mi sono concentrato anche sugli aspetti fisiologici della questione e mi sono domandato dove può risiedere questa piccola memoria aggiuntiva, l'unica adoperata da quasi tutti gli individui."
"La risposta?" Ormai sono un po' confuso.
"Nella bocca, si trova nella bocca. La maggior parte delle persone non soltanto parla con la bocca, ma pensa anche con la bocca!"
"Ma..."
"So che cosa stai per chiedermi. La mia ipotesi principale prevede che - nella lingua, nella laringe oppure in un altro organo della fonazione - si siano sviluppate oltre misura delle terminazioni nervose in grado di archiviare una seppur minima quantità di informazioni, le famose quattrocento parole. La risposta definitiva la dovrà dare il team di fisiologi che collabora alle mie ricerche".
"Ma..."
"Lo so che cosa stai pensando, e credo tu abbia ragione. La maggior parte degli esseri umani vive con il cervello spento, non lo usa, ha imparato a farne a meno".
"Però!" La mia confusione ormai è totale.
"Allora? Che ne dici della mia teoria?"
"Come?"
"Ti sto chiedendo che cosa pensi dei miei studi".
"Eh? Non lo so, proprio non lo so".
Il viso di Bill si accende all'improvviso.
"Non lo so! Non lo so! Non sai dire altro! Non puoi esprimere i tuoi pensieri in maniera un po' più complessa? Non dirmi che sei diventato uno di quelli!"
"Eh? Uno di quelli? Dici?"
Poi Bill si calma e inizia a osservarmi con un certo interesse.
"Senti, perché domani non passi a trovarmi in laboratorio?" dice.

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