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venerdì 14 agosto 2015

LE BELVE DI DON BOSCO



Torino, la città post-industriale, della Mole, della Sindone. Torino, la città dei caffè, dell’esoterismo, dei santi. Già, dei santi. Proprio in questi giorni, in pieno agosto, si festeggiano i duecento anni dalla nascita di don Bosco. Per l’occasione sono arrivati in città giovani (e meno giovani) da tutta Italia, da tutto il mondo. Un appuntamento pacifico e gioioso (in teoria). E li vedo, questi ragazzi colorati, e finalmente mi capita anche di incontrarli da vicino.
È tardo pomeriggio, ed è in corso un violento temporale. Vedo arrivare il bus e mi precipito, inseguito da un branco di selvaggi urlanti. Eh sì, sono proprio loro, i famosi (famigerati?) ragazzi di don Bosco. Saliamo sul mezzo, e quelli iniziano a spintonare, ad accalcarsi, a ignorare la presenza degli altri pochi passeggeri. Saturano il bus con la loro chiassosa e incivile presenza. Le urla, le grida, gli strepiti aumentano sempre più di volume. Qualcuno canta a squarciagola, canzoni di matrice religiosa che appaiono incongrue, sguaiate. Nessun rispetto per nessuno, esistono soltanto loro, gli altri passeggeri sbalorditi irritati atterriti storditi non contano nulla. Non esistono. Una delle belve non esita a promuovere il luogo di provenienza del branco. Non dirò qual è, non vorrei essere accusato di intolleranza, razzismo o peggio. Dirò soltanto che si trova in Italia, e che è il capoluogo di una regione del sud. Un’isola. Basta così o divento politicamente scorretto.
Il percorso di poco più di un quarto d’ora si trasforma in un incubo infinito. Alla fine, giunti in prossimità di una stazione, le porte si spalancano e i primitivi sciamano fuori, continuando a urlare. 
Caro don Bosco, povero don Bosco, ti chiedo scusa perché loro, le belve, non lo faranno mai.



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