Torino, la città
post-industriale, della Mole, della Sindone. Torino, la città dei caffè, dell’esoterismo,
dei santi. Già, dei santi. Proprio in questi giorni, in pieno agosto, si
festeggiano i duecento anni dalla nascita di don Bosco. Per l’occasione sono
arrivati in città giovani (e meno giovani) da tutta Italia, da tutto il mondo.
Un appuntamento pacifico e gioioso (in teoria). E li vedo, questi ragazzi colorati, e
finalmente mi capita anche di incontrarli da vicino.
È tardo pomeriggio, ed
è in corso un violento temporale. Vedo arrivare il bus e mi precipito,
inseguito da un branco di selvaggi urlanti. Eh sì, sono proprio loro, i famosi
(famigerati?) ragazzi di don Bosco. Saliamo sul mezzo, e quelli iniziano a
spintonare, ad accalcarsi, a ignorare la presenza degli altri pochi passeggeri.
Saturano il bus con la loro chiassosa e incivile presenza. Le urla, le grida, gli
strepiti aumentano sempre più di volume. Qualcuno canta a squarciagola, canzoni
di matrice religiosa che appaiono incongrue, sguaiate. Nessun rispetto per
nessuno, esistono soltanto loro, gli altri passeggeri sbalorditi irritati
atterriti storditi non contano nulla. Non esistono. Una delle belve non esita a
promuovere il luogo di provenienza del branco. Non dirò qual è, non vorrei
essere accusato di intolleranza, razzismo o peggio. Dirò soltanto che si trova
in Italia, e che è il capoluogo di una regione del sud. Un’isola. Basta così o
divento politicamente scorretto.
Il percorso di poco più
di un quarto d’ora si trasforma in un incubo infinito. Alla fine, giunti in
prossimità di una stazione, le porte si spalancano e i primitivi sciamano
fuori, continuando a urlare.
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