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martedì 27 agosto 2024

TUTTI LO SANNO


“Ormai lo sanno tutti!” dice lei, tutto di un fiato.

Quelle parole mi colpiscono come una stilettata in pieno petto. Freddo, gelo immediato. Per un attimo interminabile boccheggio, nell’inutile tentativo di introdurre aria nei polmoni. Tutto il mio corpo è assalito da un tremore che non riesco a controllare. Il cuore martella impazzito, sento l’eco di quei colpi sordi fino in gola. Morirò. La fine, ma anche la salvezza. Scaccio in fretta quell’idea malsana, vile. Poco alla volta riprendo il controllo della mia mente sconvolta, della mia carne scombussolata.

“Perché non dici nulla?” Ancora quella voce di donna che mi trapassa i timpani, che li perfora con le sue acute vibrazioni.

“Sto pensando” rispondo. La mia voce è ridotta a un flebile pigolio. Ho bisogno di tempo. Devo riflettere, ho assoluta necessità di riordinare le idee. Ma i suoi occhi mi fissano, implacabili. Tento di sostenere quello sguardo di fuoco, cerco di scorgere in quelle pupille chiare un lampo di incertezza, un’esitazione, l’umana paura. Non è così. Il terrore attanaglia soltanto le mie viscere, le rende liquide e impalpabili, le scioglie.

“Che cosa c’è da pensare? Dimmi qualcosa…”

Ecco, finalmente colgo in lei un tentennamento. Il mio atteggiamento remissivo la disorienta. I miei indugi, la mia reticenza producono in lei una insicurezza insolita. Si apre un varco, nel quale dovrò cercare di infilarmi. Devo approfittarne subito, ma non ci riesco. Mi sente debole e scosso, non possiedo alcuna lucidità.

“Come l’hai saputo?” chiedo. Una domanda interlocutoria, sussurrata senza nerbo, per prendere tempo.  Mi maledico.

Lei non risponde. Mi squadra a lungo. Poi sospira e finalmente distoglie lo sguardo. Si accende una sigaretta. Le sue mani tremano, e quella visione mi sgomenta. Respiro a lungo, più volte. Perché continuo a essere affamato d’aria?

Infine lei scrolla le spalle, e subito dopo si affloscia, tutto il suo corpo si sgonfia all’improvviso. Un sacco vuoto, con i riccioli biondi.

“Tutti lo sanno” dice. La sua voce ha mutato inflessione. Rassegnazione? Oppure semplice disgusto? Non lo so, faccio fatica a decifrare questa nuova intonazione. È come se di fronte a me ci fosse una sconosciuta, e non quella donna che ho a lungo desiderato. Non importa se non l’ho mai avuta. Non ancora. E non l’avrò più. Mi mancherà, sono sicuro che mi mancherà. Ma questo non lo posso dire, perché sarei perso. Non posso perdermi, proprio non me lo posso permettere. Perché? La domanda che rivolgo a me stesso è retorica, ne conosco bene la risposta. La mia mente dissestata per un istante, per un solo drammatico istante, richiama l’immagine sbiadita di mia moglie, dei miei figli. Di fronte a quell’opacità di sentimenti inorridisco, provo ripugnanza. Nutro pena. Non trascorrerò più ore interminabili a parlare con lei, a ridere e scherzare, a confidarmi. Non inalerò più il suo profumo, scorderò la sua allegria, il suo sorriso. Non mi perderò più nei suoi occhi luminosi. No, nulla di tutto questo. Il senso di perdita mi annienta, mi annichilisce.

“È meglio se non ci vediamo più” dice lei. Tristezza, ora percepisco tanta tristezza, ma anche risoluta dignità. Quella che io non possiedo. È stata lei a pronunciare quelle parole, quelle che si aspettava da me. Coraggio, tanto coraggio, quello che io non ho.

Raddrizzo la schiena, mi schiarisco la voce ma non parlo. Non parlo e neppure piango. Invece annuisco, mesto.

 

martedì 20 agosto 2024

VORREI MA NON POSSO

Potevo fare qualcosa ma non l’ho fatto. Più ci penso e ci ripenso e più mi rendo conto che un mio intervento avrebbe potuto modificare il corso degli eventi. Invece ciò non è avvenuto. Da parte mia non c’è stata alcuna iniziativa in tal senso. In una circostanza del genere sarebbe stato necessario mostrare rapidità di decisione e, soprattutto, grande tempestività nell’agire. Così non è stato, perché i miei riflessi sono stati lenti, e la mia mente intorpidita mi ha impedito di reagire in maniera pronta ed efficace. L’istinto non è riuscito a prevalere. Ormai non posso più porre rimedio, e sarò condannato a rivivere per sempre quelle brevi e concitate fasi, a tormentarmi per il rimorso, senza che nulla possa più mutare. E maledire, per tale ragione, la mia inadeguatezza all’azione.

Sono una persona tranquilla, che mai si vorrebbe venire a trovare in situazioni difficili. So bene di non essere attrezzato per fronteggiarle, conosco alla perfezione i miei limiti e le mie debolezze. Non amo, pertanto, essere messo alla prova. Preferisco, al contrario, fare di tutto per evitare di incappare in circostanze che non sia in grado di padroneggiare, che possono facilmente sfuggire al mio controllo.

Questa volta le mie abituali precauzioni si sono rivelate del tutto inutili. Il fatto è che non mi sarei dovuto trovare su quell’automobile in quel momento. Se io non fossi stato presente il fatto non sarebbe accaduto. Ne sono quasi sicuro. Sono convinto che sia stata la mia presenza a bordo della vettura a provocare, in modo del tutto involontario, quel lieve squilibrio che ha causato la tragedia. Mi riferisco a una instabilità emotiva, ovviamente. In ogni caso, se io non ci fossi stato non sarei mai venuto a conoscenza di quel fatto, anche se si fosse verificato ugualmente. Invece c’ero, e lo ricordo bene.

Questa automobile è strana. In apparenza sembra una comune berlina, nel senso che le sue dimensioni non sono insolite. Nell’abitacolo, invece, sono sistemati tre ordini di sedili. Lo spazio tra l’uno e l’altro è molto ridotto. Io sto seduto da solo nella fila di mezzo. Alla guida della vettura c’è un ragazzo. Altri due giovani sono accomodati in fondo. Si tratta di un ragazzo e di una ragazza. Tutti loro paiono ignorare la mia presenza. I due giovani dietro di me hanno le mani intrecciate e si guardano negli occhi con grande intensità. Non parlano. Li osservo, in modo diretto, e due particolari mi colpiscono. Le dita delle loro mani sono sporche. Il sudiciume che le ricopre è quello peculiare di chi non si lava. Loro, tuttavia, non sembrano dare alcuna importanza a quell’aspetto che, in parte, suscita in me un certo disgusto. No, loro continuano a scambiarsi effusioni e tenerezze. Poi, i lineamenti dei loro visi: sono grossolani, appena abbozzati, sgradevoli. Insomma, quei due ragazzi sono decisamente brutti.

L’auto sfreccia veloce attraverso la notte. Attorno a me scorrono luci e ombre. La musica, ad alto volume, mi assorda e mi impedisce di pensare. Suoni gitani.

All’improvviso il ragazzo alla guida alza il piede dall’acceleratore. Si volta verso di me e mi sorride. Poi abbassa l’audio della radio, completamente. Subito l’altro giovane si stacca dalla ragazza e infila una mano nella tasca della giacca. Si sente il rumore di uno scatto metallico. Compare un coltello dalla lama sottile e molto affilata, saldamente impugnato. Lui si alza dal sedile e si sporge in avanti. Comprendo al volo quali siano le sue intenzioni, ma non intervengo. Potrei interporre il mio corpo, oppure tentare di bloccare il suo braccio, ma rimango immobile, come pietrificato. Il ragazzo colpisce l’autista, più volte. Prima nella schiena, poi sul petto. La lama affonda con estrema facilità, subito scorre il sangue. L’altro, incredulo, non emette alcun suono. Tenta di ripararsi da quei tremendi fendenti, invano. Alla fine si accascia sul volante, e l’auto si arresta sul bordo della strada. Il mio sguardo si incrocia con quello dell’assassino. Ho paura. Lui schiocca le labbra poi, con un cenno, mi indica lo sportello dell’automobile. Annuisco e aziono la maniglia. Esco e mi allontano nel buio. Ho tanto freddo. 

 


mercoledì 14 agosto 2024

L' ALTRO

Lo vidi la prima volta di persona quando era tra noi da più di un anno. Fu durante una celebrazione che si tenne nella mia città, in onore del suo fondatore. Lui, per quanto possibile, ambiva a partecipare a qualsiasi tipo di cerimonia, perché era grande il suo desiderio di osservare, di imparare e di capire. Cercai di avvicinarlo e ci riuscii piuttosto facilmente, perché lui amava il contatto con la gente e non ne aveva alcun timore. Era sicuro che nessuno avrebbe mai osato fargli del male. Quando gli giunsi accanto, non fui troppo stupito dalle sue singolari sembianze. Ormai lo avevo visto tante volte, nei filmati in televisione e sulle fotografie dei giornali, ripreso e immortalato mentre era a colloquio con uomini importanti e potenti, ma anche quando visitava, sempre curioso, sempre partecipe, i luoghi più miseri, quando incontrava i poveri e i derelitti e li rincuorava, recapitando il suo messaggio di pace.

No, quello che mi colpì fu soprattutto il suo sguardo. Mi immersi nei suoi occhi, due pozze enormi e brillanti, attraverso i quali si percepiva quella qualità che da tutti gli era riconosciuta, che lo caratterizzava e lo rendeva peculiare: l’immensa bontà. Un insieme di dolcezza, di mitezza e di mansuetudine, una soavità e una serenità che lui riusciva a trasmettere a chi lo guardava, rendendolo partecipe, all'istante, della sua immensa serenità.

Un’esperienza unica, in grado di cambiare la vita di un individuo e di renderla migliore.

Dapprima, nei suoi confronti, c’era stata molta diffidenza. Forse anche un certo timore. In parte per le modalità della sua venuta, difficili da comprendere e da accettare. Quell’apprensione iniziale, tuttavia, era subito svanita. Era stato sufficiente sentirlo parlare, rilevare con attenzione il suo atteggiamento umile e remissivo, del tutto insolito in un individuo così dotato, e tutte le residue preoccupazioni scomparvero.  Sì, perché lui è superiore a tutti noi, ormai lo abbiamo capito, e abbiamo imparato a riconoscere e a rispettare questa sua indubitabile preminenza etica.

In principio il sospetto fu alimentato, senza una precisa ragione, dal fatto che ci avesse portato dei doni. Oggetti che non avevamo mai visto prima e che nessuno di noi sarebbe mai stato in grado di concepire, e conoscenze che avrebbero potuto, in un immediato futuro, alleviare le nostre sofferenze. Adesso per quei regali gli siamo immensamente riconoscenti.

Qualcuno, senza rendersi conto, ha tentato di strumentalizzare la sua visita. Penso, ad esempio, a quella comunità di ebrei ultra-ordodossi che vive nel deserto del Negev, e di cui si è tanto parlato nei mesi scorsi. Mi riferisco agli accoliti del rabbino Isaac Rabinowitz, ormai conosciuti da tutti. Quegli uomini che hanno riconosciuto nel nostro amico il Messia, quel Messia atteso da tempo immemorabile e che finalmente si era manifestato ai figli d’Israele. Si tratta, di certo, di un enorme abbaglio. Nondimeno, come non comprendere quella gente, che crede di aver visto realizzato un sogno, un desiderio, una speranza, un qualcosa in cui hanno da sempre creduto?

Lui, inoltre, nel periodo di tempo trascorso tra noi, è stato protagonista di tanti episodi, allegri e stravaganti, a volte toccanti, ma tutti in gran parte gioiosi. Ci siamo resi conto sempre più, con amarezza, che non potremo mai essere al suo pari, anche se il suo esempio potrà essere utile, e ci servirà di sicuro per essere migliori. Più buoni e generosi.

Adesso è quasi inutile ricordare tutto ciò, perché lui non c’è più, ormai se n’è andato. Prima di fare ritorno da dove era venuto, però, ci fece due importanti rivelazioni, e lo fece proprio quel giorno in cui ebbi la fortuna di vederlo. La prima, in fondo, non ci stupì più di tanto. Disse che tutti i suoi simili erano uguali a lui, esattamente uguali. Non ci meravigliammo perché ormai eravamo convinti che fosse così, per di più sapevamo che diceva sempre e soltanto la verità, e quindi non avevamo nessun motivo per dubitare di lui.

La seconda affermazione invece ci sconvolse. Nessuno lo aveva chiesto, anche se molti avrebbero voluto farlo, ma lui aveva sentito lo stesso il dovere di dirlo. D’altra parte, non ci aveva mai nascosto nulla. Per questo lo apprezzavamo così tanto.

Disse che il suo Creatore, il suo e quello dei suoi simili, non era il nostro, ma un altro. Come non credergli?

Poi, con la voce incrinata dal dispiacere, aggiunse che noi eravamo stati sfortunati, molto sfortunati.     

 

 

martedì 6 agosto 2024

LA SOLITUDINE DEL PALLANUOTISTA


Edoardo Cavazzoni osserva la sua figura riflessa nel grande specchio dell'ingresso. L'uomo è completamente nudo. Dapprima si sofferma sul volto. Il suo viso non gli piace, non gli è mai piaciuto. Troppe ossa, e troppi spigoli. E poi gli occhi, ravvicinati più del dovuto, e il lungo naso leggermente storto. No, proprio non ci siamo.

Il resto del corpo, invece, è tutt'altra cosa. Innanzitutto la statura, oltre il metro e novanta. E la muscolatura, possente, a partire dalle spalle larghe, dai pettorali scolpiti, dal ventre piatto e duro come l'acciaio. E infine le gambe, lunghe e solide come tronchi, innestate sui fianchi stretti.

Edoardo Cavazzoni si scosta dallo specchio, si siede sul letto, un letto che non ha mai condiviso con nessuno. Un letto comodo, morbido, pronto per accogliere una donna. Il fatto è che a lui le donne non piacciono. Lo attirano forse gli uomini? Chissà, soltanto lui può dirlo, e finora non lo ha ancora fatto. Non lo ha mai confessato neppure a se stesso.

Edoardo Cavazzoni si ritiene una persona destinata a rimanere sola per tutta la vita. Soltanto lo sport lo ha salvato dal precipitare nella disperazione totale. Ma fino a quando?

Da giovane, Edoardo Cavazzoni amava il calcio. Provò a praticarlo, ma ben presto scoprì di non possedere le doti necessarie. Iniziò giocando da attaccante. Con i piedi non era granché, di conseguenza cercava di sfruttare le sue notevoli doti fisiche, prima fra tutte l'elevazione. Purtroppo gli mancava il tempismo. Saltava sempre più in alto dei difensori, ma il pallone non lo prendeva mai. Sempre un attimo di anticipo, o di ritardo. Fu spostato in difesa, nel ruolo di centrale. Non andò meglio. Troppo impetuoso, troppi falli, e le poche volte che si ritrovava il pallone tra i piedi non sapeva che farne. Si limitava a calciarlo, con forza, il più lontano possibile.

"Perché non provi a fare il portiere?" gli disse un giorno il suo allenatore. "Sai, con il tuo fisico..."

Edoardo Cavazzoni smise di giocare a calcio.

Un giorno il suo insegnante di educazione fisica delle scuole superiori gli mise un braccio sulla spalla e, accarezzandogli il bicipite già poderoso, gli domandò: "Sei capace a nuotare?"

Edoardo Cavazzoni gradì quel tocco leggero, non si scostò e rispose: "So nuotare bene. Mi ha insegnato mio padre quando ero piccolo. È l'unica cosa che ho imparato da lui".

"Perché non provi con la pallanuoto?" disse il professore, e gli allungò un biglietto con annotato l'indirizzo di una piccola società amatoriale.

Edoardo Cavazzoni disse che ci avrebbe pensato. Alla fine decise di provare. La pallanuoto, in fondo, è molto simile al calcio, rifletteva il ragazzo nei suoi lunghi pomeriggi solitari. Ci sono due squadre. E c'è un campo, anche se è fatto di acqua e non di erba; ci sono due porte, dentro le quali bisogna buttare il pallone. D'accordo, la palla viene giocata con le mani e non con i piedi, ma tutto il resto è praticamente uguale.

Edoardo Cavazzoni iniziò, con entusiasmo, a praticare la pallanuoto. Ben presto si accorse che le differenze con il calcio erano più di quelle che aveva creduto. Nel calcio il pubblico assiste a tutto ciò che accade sul campo. Le giocate, i falli. Nella pallanuoto invece lo spettatore vede soltanto quello che avviene sopra la superficie dell'acqua. Non scorge le robuste trattenute subacquee, i calci nelle palle, i tentativi, a volte riusciti, di ficcare la testa dell'avversario sotto, di farlo bere e fargli provare quella spiacevole sensazione di soffocamento che per qualche istante lo neutralizza.

Edoardo Cavazzoni rimase soltanto un anno in quella piccola società. Pure quegli scalzacani di periferia si resero conto che quel ragazzo poteva diventare un campione. E infatti lo diventò. Adesso, ed è passato qualche anno, è il capitano della nazionale. Una squadra che partecipa alle Olimpiadi, che lotta per una medaglia. A Edoardo Cavazzoni delle Olimpiadi non importa molto. Per lui tutte le gare sono uguali. Le vuole vincere tutte, al di là di che cosa ci sia in palio. Si augura che i suoi compagni siano alla sua altezza. Quei compagni che, al di fuori degli allenamenti, non vede mai. Si può dire che quasi non li conosca. Sono ragazzi che indossano la calottina del suo stesso colore, nulla di più. Sono persone che, alla fine di una dura partita, della quale portano i segni su braccia, gambe, schiena e torace dicono: "Cazzo, la pallanuoto non è mica uno sport per signorine o per frocetti!"

Edoardo Cavazzoni sta zitto e sorride amaro. Che altro potrebbe fare?


giovedì 1 agosto 2024

IL PROBLEMA DEL SIEPISTA (Seconda e ultima parte)


Bergonzi non si scompose.

"Esatto, nei tremila siepi ci sono le barriere, non lo scopriamo certamente adesso" disse.

"E la riviera!"

L'allenatore cercò di conservare la calma. Una calma olimpica.

"D'accordo, c'è pure la riviera. In ogni caso si tratta di un ostacolo come tutti gli altri, non vedo il problema".

"Non ho mai saltato gli ostacoli!" enfatizzò ancora Cartezzini.

"Ascolta, Alberto. Da domani ti affiderò a Onofri che ti seguirà nella parte tecnica. In pochi giorni imparerai a superare le barriere, te lo assicuro. Adesso però cambiati, dobbiamo iniziare la seduta."

Al termine dell'allenamento Cartezzini rimase da solo nel campo. Si avvicinò cauto a una barriera. Vide che gli arrivava quasi al petto. D'accordo, lui era un atleta di bassa statura, tuttavia quella verifica lo spaventò. Poi si riprese, e pensò che avrebbe risolto il problema facendo ricorso alla sua notevole agilità. Prima di uscire andò a esaminare la riviera, che fino a quel giorno non aveva mai degnato di un solo sguardo. Osservò con attenzione la fossa con la parete inclinata. Non c'era l'acqua e Cartezzini notò con apprensione che la vasca era molto profonda. Rabbrividì un'ultima volta, quindi tornò a casa.

Il mattino dopo si presentò al campo con un'ora di anticipo. Aldo Onofri lo stava già aspettando.

"Oggi si salta" disse soltanto, poi si diresse verso la pista, seguito dall'improvvisato siepista. Onofri era un uomo di poche parole.

Dopo un paio d'ore arrivò anche Bergonzi. Domandò al suo vice come stessero procedendo le cose. L'altro si strinse nelle spalle. Poi lo sguardo di Bergonzi cadde sul suo allievo. E sulle sue gambe. Entrambe le tibie di Cartezzini erano piene di lividi e sbucciature.

"Perché non ti metti i parastinchi?" disse, divertito.

Cartezzini non la prese bene.

"Mica sono una merda di calciatore, io" rispose risentito. Poi l'allenamento riprese.

A un certo punto Onofri prese in disparte il suo capo, e pronunciò più parole di quante ne pronunciasse di solito in una intera settimana.

"Quello è negato. Ogni volta si accartoccia sulla barriera. Gli ho insegnato a non scavalcare l'ostacolo di volo, ma ad appoggiarci il piede. Così va un po' meglio, sempre se azzecca l'appoggio".

"Va bene, procedete così. Vedrai che ci saranno dei rapidi miglioramenti".

"Il tempo è poco, capo" disse Onofri.

"Lo so". E il tempo fu davvero poco.

É la sera del meeting di Londra. Cartezzini si gioca la possibilità di coronare il sogno della sua vita, quello di partecipare ai Giochi Olimpici. Il siepista è concentrato, ma anche molto teso. Lo starter dà il via. Il ritmo della gara è subito sostenuto, un'andatura ideale per conseguire quel riscontro cronometrico necessario per ottenere il tempo minimo di qualificazione alle Olimpiadi. Tulli, la presunta lepre, è subito risucchiato nelle retrovie. Cartezzini può contare soltanto sulle sue forze. Le tornate si susseguono, sempre molto veloci. Quando gli atleti iniziano a percorrere l'ultimo giro, Cartezzini è in terza posizione. Davanti e ormai irraggiungibili ci sono i due keniani. Il siepista sente dietro di sé l'ansimare del concorrente etiope. L'obiettivo, in ogni caso, è soltanto uno: quello di ottenere un buon tempo. E Cartezzini ci sta riuscendo. Si arriva così all'ultima riviera, che è anche il penultimo ostacolo da superare prima del traguardo. Il siepista lancia un'ultima occhiata al grande tabellone luminoso che scandisce il tempo. É fatta, pensa. Mentre si accinge ad appoggiare il piede sulla riviera, proprio come gli ha insegnato Onofri, l'atleta etiope gli urta leggermente il tallone. Cartezzini manca l'appoggio, il piede gli scivola sull'ostacolo e lui precipita dall'altra parte in maniera scomposta. Il tuffo di testa nella vasca è spettacolare. Cartezzini beve una sorsata d'acqua poi, mentre cerca di rialzarsi, piombano su di lui tutti gli altri atleti. La sua schiena viene martoriata dai chiodi delle scarpette, il suo corpo esile viene spiaccicato sul pavimento della vasca. Quando finalmente può essere soccorso, lo sfortunato atleta deve essere rianimato sul posto. Appena riprende conoscenza ha l'impressione di aver bevuto tutta quanta l'acqua della fossa. Alberto Cartezzini non prenderà parte ai Giochi Olimpici. Sarà però ricordato per sempre come il siepista che rischiò di affogare.

                                                        (Fine)