Mi guardo allo specchio e
cerco di capire se sono cambiato.
Osservo con estrema attenzione
il mio viso riflesso. Noto la pelle smorta, gli occhi arrossati, i capelli
arruffati e un impercettibile tic nervoso che mi deforma, a intermittenza,
l’angolo sinistro della bocca, dove le labbra si congiungono. Sempre stando
immobile, mi sforzo di percepire segnali insoliti che possano provenire da
dentro il mio corpo, perché qualcosa in me deve essere di sicuro mutato. Allora
mi rendo conto che il mio respiro è strano, corto e affannoso. E il cuore
picchia con forza. Gli echi delle secche contrazioni mi rimbalzano alle tempie
e mi stordiscono. Ho l’impressione che a volte, nella sua corsa sfrenata, il
muscolo che porto racchiuso nel petto inciampi e salti un passo.
Contemplo le mie mani,
grandi e scarne e dalle dita affusolate, come quelle di un pianista. Sono
pulite. Le ho sfregate a lungo, sotto l’acqua, in maniera ossessiva, senza che
ve ne fosse la reale necessità.
Tra poco più di un’ora
torneranno i miei genitori. Rincasano sempre tardi perché i loro pensieri sono
unicamente rivolti al lavoro. Per quel momento dovrò essere pronto, il profondo
turbamento che ancora provo non dovrà trasparire e sarò il figlio modello di
sempre.
Quella ragazzina mi piace.
Mi piaceva.
Domani andrò all’università.
Ho una lezione importante, che non posso perdere, e l’esame si avvicina. Nel
fine settimana invece mi unirò a quelli che la staranno cercando, mi renderò
utile e fornirò il mio contributo, doveroso, alla comunità.
Io la guardo ogni volta,
quando esce, e lei ricambia il mio sguardo. Ricambiava.
Mi siedo perché sono molto
stanco.
Non so bene che cosa volessi
fare, e non capisco perché ho portato con me il coltello. Adesso l’ho gettato,
in un posto dove nessuno lo troverà mai. E questo mi dispiace, ero molto
affezionato a quel coltello. L’avevo comprato alcuni anni fa, quando ero poco
più di un bambino, e per tutto questo tempo è rimasto chiuso nel mio comodino,
infilato nel suo fodero di cuoio grezzo. Ogni tanto lo estraevo e lo ammiravo.
Perché l’ho preso? Per quale ragione me lo sono messo in tasca? Queste domande
mi assillano e mi tormentano, ma non riesco a dar loro una risposta. Penso che
io sono una persona adulta mentre lei è ancora piccola. Era piccola. Che
bisogno avevo di usare quell’arma? Sarebbe stato sufficiente parlare, se voglio
so essere molto convincente e persuasivo.
Forse sono stati i suoi
occhi. Sono molto belli i suoi occhi, di color blu cobalto, vivaci e brillanti.
Erano belli ma pieni di paura, e questo non l’ho potuto sopportare. La paura è
contagiosa e, poco alla volta, ha iniziato a invadere anche il mio corpo, si è
trasformata in terrore.
Non ricordo che cosa ho
detto, non ricordo che cosa ho sentito. Le urla, le mie e le sue, si sono
unite, si sono fuse, come provenienti da un’unica bocca.
Mi alzo dalla sedia in preda
all’ansia. Sudo e tremo. No, non posso fare così, devo calmarmi.
Non ho più di fronte a me un
corpo che desidero, che desideravo, ma un essere dalla forma indefinita, che si
dibatte e strepita. Che grida. Che gridava. E allora colpisco, con forza, con
il pugno, e quasi non mi avvedo che il mio pugno stringe il coltello. Mi pare
impossibile che una lama tanto affilata possa produrre, su quell’esile figura,
dei suoni così sordi. Una lama dovrebbe affondare, penetrare e lacerare in assoluto
silenzio. Invece non è così, e inorridisco.
Mi scosto, mi sono scostato,
in tutta fretta e i miei vestiti non si sono sporcati. Sono sorpreso.
E poi… poi non ricordo
altro. All’improvviso mi sono ritrovato qui, a casa. Soltanto una parte dei
miei ricordi è stata rimossa, e questo mi angoscia.
Perché prima o poi mi
chiameranno mostro.
Prima o dopo diventerò
l’orco, mentre io non volevo uccidere. Credo proprio di no...