“Prepara la cavia” ordinò
l’anziano medico affacciandosi alla porta del laboratorio.
Il suo assistente chiuse il
giornale. Si alzò. Controllò che il tavolo da dissezione fosse in ordine,
verificò che tutti gli strumenti fossero al loro posto e poi si diresse verso
le celle. Si fece accompagnare da una guardia in divisa. Il giovane assistente
la riteneva una precauzione del tutto inutile, tuttavia era quanto previsto dal
protocollo e lui risolse di attenersi alle regole.
La guardia inserì una
tessera magnetica in una fessura e la pesante porta si aprì. All’interno del
piccolo locale c’era odore di chiuso. E di sudore stantio. Fu accesa la luce.
La ragazza si destò
all’improvviso. Seduta sulla misera branda, sbatté più volte gli occhi,
abbagliata dal violento chiarore.
“In piedi! Sbrigati!” intimò
la guardia.
“Che succede?” domandò lei,
con aria smarrita. Ma ubbidì. L’uomo la guardò e rinunciò ad ammanettarle i
polsi.
A quel punto si fece avanti
il giovane che indossava il camice bianco.
“Devi venire con noi,
subito. È arrivato il tuo turno” disse, con tono impersonale. Poi si voltò.
“Perché non sono stata
avvisata?” domandò la ragazza. Faticava a trattenere le lacrime.
Il ragazzo girò su se stesso
e fece un passo.
“Il dottor Pain preferisce
che le cavie siano rilassate e non intossicate dalla paura. Spogliati.”
Sotto gli occhi indifferenti
dei due uomini, la giovane si sfilò il camicione grigio e poi si fermò.
“Tutto” ribadì l’assistente.
In lui si percepiva impazienza.
“È proprio necessario?
Perché volete umiliarmi?” gridò la donna.
La guardia sogghignò mentre
il giovane emise un sospiro.
“Non ricordo di avere mai
visto dei topi con le mutande…” disse quest’ultimo. L’altro scoppiò a ridere.
“Bastardi!” urlò la ragazza.
Piangendo si tolse gli slip e li gettò a terra. Erano logori e sporchi.
La robusta guardia l’afferrò
per un braccio e la trascinò attraverso un lungo corridoio. Giunsero infine al
laboratorio. La giovane fu sistemata sul lettino. Le mani furono bloccate con
delle robuste cinghie. E anche i piedi.
Il giovane assistente fece
un cenno alla guardia.
“Posso andare?” L’altro
annuì.
Rimasto solo con la ragazza,
l'assistente iniziò la preparazione. Nessuno dei due disse una parola. La
giovane aveva lo sguardo spento, rassegnato. L’uomo procedette rapido, con
grande professionalità. La vista del corpo nudo della ragazza non suscitava in
lui alcuna reazione. Era abituato. Notò soltanto che il soggetto appariva
alquanto debilitato. Braccia e gambe erano molto esili, e il tronco di una
magrezza spaventosa. Scosse il capo.
“È da tempo che non mangiò
più” disse lei con un filo di voce, intuendo i pensieri dell'uomo.
“Avevo suggerito al dottor
Pain l’alimentazione forzata. Non mi ha dato ascolto.”
L’assistente sistemò con
cura alcuni elettrodi, verificò un’ultima volta tutti gli strumenti poi,
soddisfatto, si scostò dal tavolo operatorio.
“Perché?” disse la ragazza.
Sembrava ormai rassegnata alla sua triste sorte. L’altro non rispose.
“Tu non sai che cosa ho
fatto, immagino. Lascia che ti spieghi e forse avrai un po’ di pietà” aggiunse
lei.
“Non mi interessa, non
lo voglio sapere” disse il giovane medico. “Se sei stata condannata alla
vivisezione un motivo ci sarà. Qualcuno lo ha deciso, e non tocca certamente a
me mettere in discussione tale scelta. Mi limito a fare il mio lavoro.”
“Che cosa mi farete?”
domandò lei. Lui fece una smorfia, poi la osservò con attenzione.
“Che importanza ha saperlo?
Tanto lo vedrai. Eseguiremo soltanto delle anestesie parziali. Non proverai
dolore, non tanto, credo…”
“Dimmelo, ti prego!”
L’uomo prima sbuffò, poi
rispose.
“D’accordo. Ti estrarremo i
polmoni, proveremo a farli vivere in ambiente esterno. È questo il campo di
specializzazione del dottor Pain, la respirazione.”
“E poi?” chiese la ragazza.
Il suo volto, un tempo grazioso, si era trasformato in una maschera di terrore.
“Vuoi che sia sincero? Non
credo molto negli esperimenti del mio capo. A volte ho l’impressione che creda
di essere la reincarnazione del dottor Mengele!” Il ragazzo sorrise compiaciuto
per la battuta. Poi tornò serio.
“Come finirà? Non lo so come
finirà. Temo che alla fine ci tocchi buttare via tutto, come è successo tante
altre volte.”
“Buttare via tutto?” soffiò
la ragazza. Era trasfigurata, non sembrava più un essere umano.
“Lasciamo stare.”
La giovane iniziò ad urlare.
Un urlo che si trasformò presto in un gemito sommesso. Poi, di colpo, si calmò.
Cercò lo sguardo del giovane assistente.
“Guardami” disse. “Davvero
non vedi in me una persona ma soltanto una cavia da laboratorio? Lo voglio
sapere…”
Lui la squadrò a lungo.
Notò, chissà perché soltanto in quel momento, che la ragazza aveva un piccolo
tatuaggio ormai sbiadito sul seno sinistro. Poi scrollò le spalle.
“Vedo un organismo vivente.
Per il momento.”
Si voltò di schiena e
allineò alcuni strumenti chirurgici su un piano.