Odio i ricevimenti e le
feste in genere, detesto in particolare quelli in cui sono costretto a fare da
tappezzeria. Eppure non ho potuto fare a meno di accettare l'invito del mio
amico Bill. La schiena addossata a una parete, in mano un bicchiere, il terzo o
il quarto drink, osservo Bill impegnato in una animata conversazione,
attorniato da un capannello di persone adoranti. Bill è un autentico
cervellone. Ci siamo conosciuti all'Università (che io naturalmente non ho ultimato)
e la nostra amicizia è durata nel tempo. Lui è una specie di scienziato, si
occupa di linguistica, ma ha esteso il suo campo di ricerca anche alla
medicina. Il suo ultimo articolo, dove è esposta una stravagante ma innovativa
speculazione, è stato pubblicato da una autorevole rivista scientifica e ha
suscitato un certo clamore. Il party è in suo onore, e io quel famoso articolo
non l'ho neppure letto. Leggere è impegnativo, e poi stanca.
Un'ultima risata
generale, poi Bill riesce a staccarsi dai suoi fan (nonché finanziatori) e
finalmente mi raggiunge. Sorride, io lo squadro dall'alto verso il basso (il
mio amico è un nanerottolo grasso), poi sollevo un sopracciglio.
"Stavi raccontando
barzellette?" gli chiedo.
"Che dici? Lo sai
che disprezzo le barzellette!" Bill è del tutto privo del senso
dell'umorismo.
"Dunque?"
"Stavo esponendo
la mia teoria. Sono convinto che non abbiano capito nulla. Non importa, l'importante
è che continuino ad aprire i portafogli".
"Già".
Finisco di scolare lo scotch, quindi afferro un altro bicchiere da un cameriere
di passaggio.
"E tu, che ne dici
della mia teoria?" domanda il mio amico.
"Oh, non ho ancora
avuto modo di approfondire... Sai, il mio lavoro..."
"Quale
lavoro?"
"Falla finita,
Bill. Esponimi le tue conclusioni. In parole semplici, per favore".
Lui sorride, poi mi
strappa il bicchiere dalla mano e ingolla un robusto sorso. Me lo restituisce.
"Hai presente un
computer?"
"Certo che ce l'ho
presente".
"Un computer
possiede una memoria molto capace, in grado di immagazzinare una quantità di
dati che noi non riusciamo neppure ad immaginare".
"Uh, uh".
"Le persone comuni
utilizzano i computer, e le loro memorie, all'uno per cento. Non di più".
"Bene".
"Che cosa può essere
comparato a un computer?"
"Non lo so,
Bill".
Il mio amico sospira.
"Il cervello
umano" dice.
"Anche il cervello
umano viene utilizzato non più che all'uno per cento della sua capacità"
aggiunge.
"Sul serio?"
"Certamente. È
come se noi disponessimo di una immensa memoria e ci limitassimo a utilizzarne
una parte che può benissimo essere contenuta in una pen drive".
"Eh? Pen drive? Che dici, Bill?"
Un altro sospiro. Di
impazienza ma, mi accorgo, anche di compatimento.
"Una
chiavetta".
"Ah!".
"Ma il problema
non è questo" riprende Bill.
"No?"
"No. Il problema
non è il minimo utilizzo del cervello. Il fatto è che la maggior parte degli
individui il cervello non lo utilizza affatto".
"Chi lo
dice?" domando.
"Lo dicono i miei
studi, le mie ricerche".
"Però!"
"Queste persone si
servono soltanto di una piccola memoria aggiuntiva, uno strumento periferico,
del tutto slegato dall'attività del cervello, che nel loro caso è nulla".
"Non ti seguo,
Bill".
"Come sai, i miei
studi si limitano soprattutto al linguaggio. Dopo anni di ricerche ho scoperto
che la generalità delle persone adopera una quantità di vocaboli che va da
trecento a quattrocento. E queste informazioni, utilizzate per comunicare, non
provengono dal cervello, bensì dalla bocca".
"Eh?"
"È così. Non più
di quattrocento vocaboli, che vengono di continuo rimescolati e ricombinati a
formare delle frasi che, come puoi immaginare, consentono di esprimere soltanto
pensieri elementari e superficiali. Negli ultimi tempi la situazione è ancora
peggiorata. La frenesia della vita attuale, l'esigenza di sintesi, la nascita
di strumenti di comunicazione quali i messaggi brevi, l'imposizione al compendio
dovuto all'espansione delle reti sociali virtuali, tutto ciò contribuisce
sempre di più alla riduzione di numero e alla semplificazione dei vocaboli
impiegati. Anche nelle poche occasioni in cui capita di parlare a quattr'occhi
bisogna dire tutto in fretta. L'interlocutore sente ma non ascolta, non vede
l'ora di dire la sua, di sovrastarti. La conseguenza è che tra qualche tempo
impareremo a dire tutto utilizzando non più di duecento parole. Ma questa è
soltanto la premessa della mia teoria. Io mi sono concentrato anche sugli
aspetti fisiologici della questione e mi sono domandato dove può risiedere
questa piccola memoria aggiuntiva, l'unica adoperata da quasi tutti gli
individui."
"La
risposta?" Ormai sono un po' confuso.
"Nella bocca, si
trova nella bocca. La maggior parte delle persone non soltanto parla con la
bocca, ma pensa anche con la bocca!"
"Ma..."
"So che cosa stai
per chiedermi. La mia ipotesi principale prevede che - nella lingua, nella
laringe oppure in un altro organo della fonazione - si siano sviluppate oltre
misura delle terminazioni nervose in grado di archiviare una seppur minima quantità
di informazioni, le famose quattrocento parole. La risposta definitiva la dovrà
dare il team di fisiologi che collabora alle mie ricerche".
"Ma..."
"Lo so che cosa
stai pensando, e credo tu abbia ragione. La maggior parte degli esseri umani
vive con il cervello spento, non lo usa, ha imparato a farne a meno".
"Però!" La
mia confusione ormai è totale.
"Allora? Che ne
dici della mia teoria?"
"Come?"
"Ti sto chiedendo
che cosa pensi dei miei studi".
"Eh? Non lo so,
proprio non lo so".
Il viso di Bill si accende
all'improvviso.
"Non lo so! Non lo
so! Non sai dire altro! Non puoi esprimere i tuoi pensieri in maniera un po'
più complessa? Non dirmi che sei diventato uno di quelli!"
"Eh? Uno di
quelli? Dici?"
Poi Bill si calma e
inizia a osservarmi con un certo interesse.
"Senti, perché
domani non passi a trovarmi in laboratorio?" dice.