Un suono insistente,
penetrante, mi sveglia all’improvviso. Mi scuoto e mi drizzo a sedere sul
letto. Come un automa stampo i piedi sul pavimento, poi mi blocco. Merda! Oggi
è domenica, non c’è alcun bisogno di alzarsi così presto. Poi comprendo e l’ira
mi assale. È stata lei, quella donna che sta ancora ronfando beata sul letto.
Mia moglie. Mi ributto come una furia sul talamo, mi metto a cavalcioni di quel
corpo caldo e lo scuoto con violenza afferrandolo per le esili spalle.
“Eh? Che succede?
Carlo, sei tu?” fa lei, frastornata. Il suo disorientamento tuttavia dura poco.
Con un rapido gesto si asciuga con la mano un filo di bavetta che cola dall’angolo
della bocca, poi sorride. Stronza.
“Grazie per avermi
svegliato, non sento mai quella dannata sveglia” dice.
La mia rabbia si
trasforma in irritazione.
“Era proprio
necessario?” farfuglio lamentoso, ancora un po’ addormentato. “Sai che è
l’unico giorno in cui posso dormire”.
“Mi dispiace, caro”
dice lei balzando scattante dal letto e già perfettamente in sé.
“Vieni, ti preparo la
colazione” aggiunge con tono mellifluo. ‘Fanculo!
“Non ho fame” brontolo,
ma poi la seguo. Ci sediamo al tavolo della cucina. Lei è vitale, fresca, i
suoi lunghi capelli hanno già ritrovato la giusta piega. Al contrario io mi
sento un mostro: occhi cisposi, barba lunga, zazzera arruffata. Dal mio corpo
proviene un afrore disgustoso, di cane malato.
Il caffè è già salito,
lei ne prende una tazzina.
“Ne vuoi?” domanda.
“No, farò colazione più
tardi”.
“D’accordo. Ti lascio
fuori i cereali?”
I cereali! Roba da
bestie. Col cazzo che li mangio!
“Allora, si può sapere
dove devi andare a quest’ora? Perché hai intenzione di uscire, vero?” chiedo.
“Come, non ti ricordi?
Devo andare a votare.”
La collera affiora di
nuovo.
“Porca troia! C’è tutto
il giorno di tempo e tu mi hai svegliato per questo motivo?” Batto un pugno sul
tavolo, i cereali escono dalla ciotola e si spargono sul tavolo.
“Carlo, non ti devi
arrabbiare. Preferisco fare subito il mio dovere, così poi non ci penso più. E
dopo credo che andrò a messa.”
“Tutto il giorno di
tempo…” ripeto, ma lei non c’è già più, è corsa in camera a prepararsi. Sfatto,
incazzato, ancora in mutande, appoggio il capo sul piano del tavolo sperando di
riaddormentarmi. Ma non ci riesco, allora vado a vestirmi anch’io. Lei è già
pronta, veloce come suo solito. La scruto: camicetta attillata con ben due, e
non uno, bottoni slacciati. Minigonna, calze velate e scarpe con il tacco. Non
male per una quarantenne, ma questo non lo posso dire.
“Ti sei vestita così
per Lombardo?” dico astioso mentre tento di infilarmi i jeans incrostati di
sporco.
“Chi?” fa lei, con
noncuranza.
“L’ingegner Lombardo,
il presidente di seggio, quel cretino metrosexual”.
“Metrosexual” ripete
lei, scandendo bene le lettere. “Dove hai imparato questa parola?” poi
squittisce come un topo.
“Per chi mi hai preso?”
ribatto, offeso.
“Come fai a sapere che
il presidente di seggio è l’affascinante ingegner Lombardo?” domanda lei, con
fare da zoccola.
“Come lo so? C’è sempre
lui, quel brutto deficiente”.
“Ma smettila!”
“E che dirà don
Ferdinando, a vederti così conciata?”
“Non lo so, farà un
fischio. Ah! Ah!”
“Hai deciso per chi
voterai, oppure ti limiterai a sfilare?”
“Certo che ho deciso!”
“Allora?”
“Mi dispiace, il voto è
segreto.”
Quanto mi incazzo
quando fa così! Perché ho sposato una tale stronzetta?
“Vado in garage. Ho dei
lavori da fare. Ciao” dico.
“Va bene. E tu quando
andrai a votare?”
“Eh? Più tardi, ci
andrò più tardi. C’è un sacco di tempo”.
“Ciao Carlo. Ah!
Dimenticavo di dirti una cosa. Oggi a pranzo ci sarà mia madre”.
Dalla mia bocca esce
una sequela di bestemmie terribili. No! Quella strega no!
“Carlo, mi raccomando,
cerca di comportarti bene. Ricordati che mamma ci ha prestato i soldi per la
casa.”
“Prestato? Se ci
fossimo rivolti a un usuraio pagheremmo meno interessi!”
“Ma smettila! Ciao, ci
vediamo dopo.” Afferra la borsetta ed esce.
Esco pure io, vado in
garage, ormai l’ho detto e lo faccio, anche se in verità non ho nessun lavoro
da fare. Dovrei sostituire l’olio alla macchina, ma non ne ho voglia. Domani
porterò l’auto da Gigi e dirò a mia moglie che il lavoro l’ho fatto io. Rimetto
un po’ in ordine gli attrezzi ma mi scazzo subito, sono irrequieto. Forse è il
pensiero della suocera che mi turba, chissà. D’un tratto mi si scatena un
appetito bestiale. Mollo tutto e torno di corsa in cucina. Butto nella
spazzatura gli stupidi cereali, quel cibo insulso non degno di un cristiano, e
ci do dentro con pane e spesse fette di salame. Annego il tutto con un
bicchiere di vino. Mi siedo sul divano, pensieroso. Che ci faccio qui? Decido
di andare a cercare un po’ di compagnia. Prendo il giubbotto e mi dirigo al
bar.
Le vie del paese sono
piene di gente. Qualcuno sta tornando dalla messa domenicale, altri forse
stanno andando a votare, molti girano semplicemente a vuoto. Scorgo l’insegna
familiare: Bar Blu.
Mi dirigo subito alla cassa
e cambio un po’ di soldi, poi vado verso l’angolo più appartato, quello delle
slot. Qui sono solo. Abbraccio la mia macchina preferita e comincio a pompare
come un dannato sulla leva ma quelle maledette pin-up non ne vogliono sapere di
allinearsi. Non importa: il mio piacere consiste nel giocare, non nel vincere.
E si tratta di un vero e proprio godimento fisico, tanto che quando ho finito i
gettoni mi sento pervaso da una gradevole eccitazione. Sono sudato. Allora mi
avvicino all’affollato bancone, dove si trovano riuniti tutti i perdigiorno. È
quasi l’ora dell’aperitivo, dunque senza indugiare comando un vino chinato e mi
sforzo di socializzare un po’. Gli argomenti di cui di solito si discute in
questi paraggi sono, naturalmente, calcio e donne. A volte si parla di
automobili. Ma oggi no, a tener bancone è invece la politica in tutte le sue,
come dire, sfaccettature. È chiaro, i seggi sono aperti e tutti, dal primo
all’ultimo ubriacone, compreso tra un po’ il sottoscritto, sbraitano cercando
di sparare la stronzata più grossa. Il fatto è che la politica, e in
particolare chi la rappresenta, non risulta essere molto popolare di questi
tempi: di conseguenza le varie opinioni tendono a prendere la stessa direzione.
Oltretutto, quando si è in branco, e pure alquanto alterati, ci si incoraggia
sempre di più l’uno con l’altro. In ogni caso non riesco a intervenite per dire
la mia e quindi mi limito a farmi riempire di nuovo il bicchiere.
“Col cazzo che ci vado,
a votare, questa volta” strilla Beppe il salumiere con il suo vocione. “Mi
devono venire a prendere con la limusina e
poi mi devono pure pagare se vogliono che alzi il culo!”
“Bravo! Ben detto!”
“Quelli sono tutti dei
ladri. Si ricordano di noi solo quando ci sono le votazioni. Fanno tante moine
ma poi il giorno dopo ci alzano le tasse” rincara Alfio, un camionista tutto
pancia.
Marione irrompe con la
sua agghiacciante risata alcolica, prima di parlare.
“Sapete… sapete che
cosa gli faccio io? Io ci vado, ci vado eccome a votare, ma poi quando sono
dentro la gabina ci disegno sopra la
scheda un coso enorme e ci scrivo adesso ficcatevelo dove dico io! Ecco cosa ci
faccio a quei cornutoni!” E giù un’altra risata che fa vibrare i bicchieri.
Decido di passare al
vermouth proprio quando entra nel bar il cavalier Serventi, uno dei più noti
politici locali e, manco a dirlo, candidato. Fosse un giorno normale quel
loffio nemmeno ci cagherebbe, invece oggi si dirige verso di noi con l’aria più
affabile del mondo.
“Salve ragazzi, come
va?” esordisce il bastardo con la sua vocetta acuta.
“Forza, che vi offro un
giro” aggiunge estraendo il portafoglio gonfio da commerciante di bestiame.
Ne approfitto per
scroccare un anice. Di colpo tutti stanno zitti. I vigliacchi.
“Allora, siete già
andati a votare?” dice il cavaliere, che sorride a tutta dentiera.
Tutti scuotono il
capoccione, ma subito si affrettano ad aggiungere che ci andranno, che ci
stanno per andare, sicuro. I bugiardi.
Basta, non ne posso
più. Sarà perché non ci sto a farmi pisciare in faccia da questo borioso,
oppure perché sono già pieno, comunque sbotto.
“Ci siamo stufati di
questa politica di merda, e dei politici corrotti, è ora di cambiare, di non
dare il voto sempre ai soliti, ci vogliono facce nuove, gente finalmente onesta!
Gli altri, tutti a casa!” urlo.
Intorno a me si fa il
vuoto. Soltanto Serventi non perde la sua consueta padronanza. Beve un sorso e
poi mi fissa con i suoi occhi bovini. A forza di frequentare le bestie, un po’ a
loro ci assomiglia.
“Su, non dire così. Lo
so che in fondo sei un bravo ragazzo, capisco il tuo sfogo ma so che quando
sarai là dentro farai il tuo dovere. Vorrai mica votare per quelli? Sai chi
intendo, vero? Non bisogna sprecare il voto”.
Prima che io possa
replicare si volta e rivolge a tutti un cenno di saluto. Poi si allontana con
la sua andatura da papera grassa non senza elargire l’ultimo monito.
“Ricordatevi: è meglio
disperdere il seme che il voto!” dice ridacchiando, di spalle.
Nel locale scende il
gelo. Tutti appaiono imbarazzati, ma la maggior parte di quei gradassi da
quattro soldi non trova di meglio da fare che osservare con interesse il fondo
del proprio bicchiere.
Ne ho davvero
abbastanza. Finisco in un solo sorso il secondo anice ed esco dal bar. I raggi
impietosi del sole di mezzogiorno mi feriscono gli occhi. Mi sento annebbiato
Marcio, sbando, barcollo. Vomitare o non vomitare, questo è il dilemma. Infine
chiedo pietoso ricovero a un misero cespuglio impolverato che soffre sul bordo
della strada e mi svuoto con alcuni fiotti violenti. Mi libero sputacchiando
degli ultimi rigurgiti acidi e riprendo il cammino verso casa. Con un po’ di
fatica riesco ad aprire l’uscio.
Subito me la trovo
davanti, orrenda apparizione. Già accomodata al tavolo, il tovagliolo annodato
al collo grinzoso, la forchetta stretta tra le dita adunche. Ha i capelli
cotonati e di color violetto, rossetto vermiglio sulle non-labbra e molteplici
strati di cerone a spianarle le rughe del viso. È lei, la megera, il mostro. La
suocera.
“Carlo, sei in ritardo.
È da un po’ che ti stavamo aspettando” gracchia. “Sei pallido, ti senti bene?”
rinforza da autentica stronza.
“Sto benissimo” dico, e
la voce quasi non mi esce. Sono ancora parecchio stordito.
“Mi sembri piuttosto
sciupato”. Ancora lei!
“Sto facendo la dieta”.
“Davvero?”
“Certo, la dieta
Dukan”.
“Ah! Che cosa sarebbe?
La dieta del cane?”
“Sì, me l’ha prescritta
un veterinario francese”.
“Carlo!” interviene mia
moglie, i nervi già tesi. Non sopporta quando prendo per il culo la madre. “Su,
mangiamo. Si sta raffreddando tutto”.
Mi siedo e continuo a
stuzzicare la befana. Voglio che il pranzo le vada di traverso.
“Allora suocera, sei
andata a votare? Scommetto che alle sei eri già al seggio elettorale” butto lì.
L’altra non si
scompone. O possiede una freddezza glaciale oppure è del tutto imbecille. Credo
sia buona la seconda.
“Ti sbagli Carlo, erano
quasi le sette” risponde.
“Fatto il tuo dovere?
Quante schede hai dovuto utilizzare prima di azzeccare lo scarabocchio giusto?”
“Carlo!” ancora mia
moglie, che ormai sta friggendo.
“Zitta, lasciami
parlare con la mamma” dico, untuoso.
La vecchiaccia
sogghigna, compiaciuta per la mia attenzione.
“Alla fine però non ho
votato e sono tornata a casa” dice.
Il boccone prende una
cattiva strada e inizio a tossire come un disperato.
“Come? Non hai votato?
Si può sapere perché?” chiedo appena mi riprendo un po’.
La stagionata arpia si
pulisce la bocca, sbavando il rossetto, poi incrocia le braccia sul petto vizzo
e si appoggia comoda allo schienale della sedia. Gode a farmi aspettare prima
di rispondere.
“Sai, ho pensato di
cavalcare anch’io l’onda dell’antipolitica, come dicono nei talco sciò in televisione, e per
protesta ho deciso di non votare. Dovranno ben tenere conto di tutti quelli
che, come me, si sono astenuti. Si dice astenuti quando non si vota, vero?”
Cavalcare
l’antipolitica! So io che cosa dovresti invece cavalcare, povera rincoglionita:
una bella scopa, per esempio.
“Porca troia!” mi scappa.
“Carlo, per favore…”
Guardo mia moglie.
“Ma ti rendi conto di
ciò che ha fatto tua madre?”
“Beh… ha deciso di non
votare. Si tratta di una sua libera scelta, no?” dice lei, titubante.
Alzo la voce.
“Ha rinunciato a
esercitare un suo diritto! Ha abdicato all’esercizio della sovranità popolare
che compete ai cittadini! Ha fatto in modo che saranno gli altri a decidere per
lei, e pure per me e per te!”
La strega finalmente
sbianca sotto il multistrato di cipria.
“È grave? Ci saranno
delle conseguenze?” chiede, ansiosa. Proprio quello che volevo.
“Ma no mamma, stai
tranquilla. Non succederà nulla. Non c’è l’obbligo di votare. E poi Carlo sta
scherzando, vero?” dice mia moglie rivolgendomi uno sguardo di supplica.
“Col cazzo che sto
scherzando! Mai stato così serio” sparo l’ultima cartuccia, quella del colpo di
grazia.
La vecchiaccia si
sgonfia e si chiude in un angustiato silenzio. Centro!
“Carlo, sei orribile. E
smettila di bere!”
“Bevo finché mi pare,
cara moglie. Cazzo! Non vanno a votare perché i politici sono tutti ladri, sono
tutti corrotti, e non si rendono conto che proprio quei politici che tanto
odiano non sono altro che la rappresentazione di loro stessi, vale a dire delle
merde. E inoltre qualcuno di loro non si fa scrupolo di taglieggiare due poveracci
che hanno avuto la malsana idea di comprare una miserevole catapecchia. Sai a
chi mi riferisco”.
“Carlo, adesso stai
proprio esagerando. Mia madre è libera di fare ciò che vuole, anche di non
votare”.
“E tu? Sei andata a
votare? Oppure hai soltanto esibito le tue grazie?” Accidenti, sono di nuovo
pieno, devo darmi una calmata con i beveraggi.
Mia moglie è rossa in
volto, i tendini del collo allungati a dismisura. Pare un tacchino.
“Certo che ho votato!”
grida. “E tu invece?”
“Io? Non ancora, ci
andrò oggi, dopo la partita.”
Mi alzo da tavola, un
po’ instabile sulle gambe, e vado a vestirmi elegante.
Arrivo al campo che
l’incontro sta quasi per iniziare. Osservo il terreno di gioco: soltanto terra,
sabbia e polvere. Ma non ci dovrebbe essere l’erba? Le linee, tracciate con la
calce, sono tutte storte. Eppure quella di oggi è una partita importante: se
vinciamo saremo primi in classifica, nessuna altra squadra potrà più
raggiungerci e saremo promossi nella categoria superiore. Almeno, così mi hanno
spiegato, perché in verità io di pallone ci capisco ben poco. Certo, so che per
battere gli avversari bisogna buttare il pallone, in un modo o nell’altro, nella
loro porta. Tuttavia le mie conoscenze si fermano qui. Da bambino e poi da
ragazzo non ho mai giocato, non ho mai seguito il campionato di serie A e
tantomeno quelli esteri o gli incontri della nazionale. Malgrado ciò sono il
vicepresidente della squadra del paese. È accaduto tutto una sera al bar, un
po’ di tempo fa. In quel momento avevo già due tre bicchieri di troppo in corpo
e quando Angelo il macellaio, il presidente e principale sponsor dei pedatori
nostrani, pure lui parecchio alticcio, mi aveva chiesto: “Carlo, ti andrebbe di
fare il dirigente, il mio vice?” la mia risposta era stata troppo rapida e
accompagnata da eccessivo e immotivato entusiasmo.
“Pronti, al tuo
servizio!” avevo blaterato da vero idiota. Gli impegni presi, in ogni caso,
devono essere rispettati. Pacta sunt
servandi, come diceva il mio vecchio professore di latino.
Mi dirigo verso gli
spogliatoi, una brutta costruzione di latta. Vedo un ometto baffuto con una
borsa sportiva arrivare di corsa e infilarsi in una porticina e chiudere a
chiave.
“È l’arbitro” dice
Oreste, un altro dei dirigenti, appena mi scorge. “Se fa il furbo oggi da qui
non esce vivo” aggiunge, passandosi un dito sulla gola. Oreste, che di lavoro
fa l’assicuratore, per la cronaca è un gran fanfarone. Finalmente vedo Angelo.
Sta parlando con i nostri giocatori, che sono già in mezzo al campo in
maglietta e mutande, e li sta incitando alla sua maniera.
“Andiamo eh! Su, forza!
Se fate bella figura vi offro una bella cena. Su… su…”
Angelo mi nota e mi fa
segno di seguirlo in un angolo appartato del campetto.
“Guarda i nostri, non
vedi qualcosa di strano?” dice, tutto affannato.
Ciò che subito mi salta
all’occhio è che la maglia numero nove è indossata da un ragazzino smilzo che
mai avevo visto prima.
“E Pallavicini, dov’è
Pallavicini?” chiedo.
Pallavicini è il nostro
mitico centravanti. Grande, grosso e cattivo. Un vero stupra-reti. Picchia come
un dannato e, anche se la sua tecnica è alquanto approssimativa, riuscire a
fermarlo è quasi impossibile per qualsiasi difensore.
Angelo mi indica il
nostro attaccante.
“È là, ma oggi non
gioca” dice sconsolato. Eccolo, è proprio lui, non l’avevo riconosciuto. Il
bestione indossa giacca e cravatta ed è scuro in volto. Finora lo avevo sempre
e soltanto visto in braghette. Anzi, pensavo addirittura che non svestisse mai
la divisa da gioco, neppure a casa o sul lavoro.
“È ammalato?” domando.
“Macché, è tutta colpa
di Mimmo. Oggi l’ha fatta davvero grossa”.
Mimmo è il nostro
allenatore. È un vecchietto di quasi ottant’anni e, siccome presta
gratuitamente la sua opera da innumerevoli lustri, nessuno ha mai avuto il
coraggio di esonerarlo. Le uniche passioni della sua vita sono il calcio e la
politica.
“Su, racconta”
incoraggio Angelo.
“Quell’imbecille ha
deciso di portare i giocatori a votare prima della partita, in maniera che poi
avessero la mente libera, ha detto. Il fatto è che Pallavicini si è rifiutato
di votare e lui l’ha tolto di squadra. Merda! Oggi rischiamo di prenderle!”
“Perché non ha voluto
votare?”
“Dice che ha deciso di
cavalcare…”
“…l’onda
dell’antipolitica” concludo io. Il povero Angelo strabuzza gli occhi.
“Lo sapevi?” dice.
“Ma no, però sembra che
questa cosa vada molto di moda, tra vecchi e giovani.”
“Ah! Fatto sta che
siamo messi male” aggiunge Angelo prima di andare a sedersi in panchina,
proprio accanto a Mimmo, al quale non rivolge la parola per tutta la durata
della partita. Partita che naturalmente perdiamo. Maledetto astensionismo!
Deluso e amareggiato mi
avvio verso casa, dove per buona sorte non c’è mia moglie. Avrà accompagnato alla
sua tana la vecchia demente e la starà ancora consolando. Tanto meglio. Mi stendo
sul divano in perfetta posizione Andy
Capp e accendo la televisione, che mi stende in un batter d’occhio. Prima
di addormentarmi riesco ancora a pensare: “Soltanto un breve pisolino, perché
poi devo andare a votare. E in culo a quell’imbecille di Pallavicini!”
Suonano alla porta. Vado
ad aprire e mi trovo di fronte il sindaco. È accompagnato dall’impresario delle
pompe funebri e dal suo patibolare scagnozzo. I due reggono una specie di
catafalco.
“Carlo” esordisce il
sindaco mettendomi le zampe sulle spalle. “Sappiamo che sei sempre stato un
fedele e assiduo elettore e dunque l’amministrazione ha deciso di farti un
regalo”.
“A me?”
“Sì, proprio a te. Ti
diamo la possibilità di votare qui, a casa tua, invece di doverti recare al
seggio. Vogliamo eliminare qualsiasi tuo disagio” spiega il sindaco. Poi fa
segno ai suoi due funerei assistenti di entrare.
“Ascolta, Carlo. Dove
possiamo installare la cabina affinché tu ti senta il più possibile comodo
nell’esercizio del voto?”
Non so che dire. Sono
ancora sorpreso per ciò che sta accadendo, anche se non riesco a nascondere un
certo compiacimento. Un onore così grande! A me, umile elettore. Rifletto un
attimo prima di rispondere.
“Sentite, potreste
metterla in bagno. È il solo luogo in tutta la casa dove riesco a stare in
pace, dove posso pensare senza essere disturbato”.
“D’accordo, come vuoi
tu. Su, ragazzi, fate il vostro lavoro” ordina il sindaco.
I due sgherri,
rapidissimi, montano la cabina proprio attorno alla tazza del cesso. Il sindaco
mi consegna una scheda elettorale e una matita copiativa, poi mi impartisce le
ultime istruzioni.
“Esprimi il tuo voto,
poi butta la scheda nella tazza e tira lo sciacquone. Capito?”
“Come?”
“Carlo! Carlo!
Svegliati!”
Non è più la voce
accattivante del sindaco, bensì quella stridula di mia moglie.
“Eh? Dove sono?” riesco
appena a biascicare.
“Non hai neppure
cenato! Arrivo e ti vedo lì a ronfare come un disgraziato! Che pena di uomo,
scommetto che non sei neppure andato a votare”.
“A votare? Cazzo! Che
ore sono?” chiedo, disperato. Adesso sono del tutto sveglio.
“Sono quasi le dieci”
dice mia moglie con un sogghigno. Fetente!
Mi butto giù dal
divano, afferro la tessera elettorale dal tavolino dell’ingresso e la
accartoccio nel pugno. Così come sono mi precipito in strada. In quell’attimo
realizzo in rapida sequenza: che mia moglie è rincasata piuttosto tardi, che
indossa una gonna ancora più corta di quella che portava stamattina, che di
sicuro mi ha fatto becco. Non importa, a questo ci penserò dopo, quando avrò
finalmente espresso il mio voto. Quando avrò compiuto il mio dovere.
È ormai buio e le vie
del paese sono deserte. L’orologio del campanile scocca dieci rintocchi. Mi
assale un senso di panico e inizio a correre, anche se le ciabatte che ho ai
piedi non mi sono d’aiuto. Arrivo finalmente alla scuola elementare, la sede di
seggio. L’edificio è scuro e silenzioso, da una unica finestra filtra una luce.
Entro nel cortile e mi trovo di fronte un giovane carabiniere che mi impedisce
di proseguire.
“Mi dispiace ma la
sezione è chiusa. È già iniziato lo spoglio” dice e, allo stesso tempo, osserva
con curiosità e pure con un po’ di apprensione la mia camicia spiegazzata, i
jeans sporchi, le pantofole con il pelo lungo.
“Ma…”
“Non può più entrare”
scandisce. “Deve andare via, mi dispiace” ordina in tono perentorio.
“D’accordo, me ne
vado”.
“Non se la prenda”
cerca infine di consolarmi, scorgendo la mia espressione afflitta. “Vuol dire
che voterà la prossima volta.”
“Sì, certo. Sarà per la
prossima volta” dico, guardando la mia tessera elettorale, ancora stretta in
pugno, umida di sudore e tutta accartocciata.