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venerdì 19 giugno 2015

LA PROSSIMA VOLTA


Un suono insistente, penetrante, mi sveglia all’improvviso. Mi scuoto e mi drizzo a sedere sul letto. Come un automa stampo i piedi sul pavimento, poi mi blocco. Merda! Oggi è domenica, non c’è alcun bisogno di alzarsi così presto. Poi comprendo e l’ira mi assale. È stata lei, quella donna che sta ancora ronfando beata sul letto. Mia moglie. Mi ributto come una furia sul talamo, mi metto a cavalcioni di quel corpo caldo e lo scuoto con violenza afferrandolo per le esili spalle.
“Eh? Che succede? Carlo, sei tu?” fa lei, frastornata. Il suo disorientamento tuttavia dura poco. Con un rapido gesto si asciuga con la mano un filo di bavetta che cola dall’angolo della bocca, poi sorride. Stronza.
“Grazie per avermi svegliato, non sento mai quella dannata sveglia” dice.
La mia rabbia si trasforma in irritazione.
“Era proprio necessario?” farfuglio lamentoso, ancora un po’ addormentato. “Sai che è l’unico giorno in cui posso dormire”.
“Mi dispiace, caro” dice lei balzando scattante dal letto e già perfettamente in sé.
“Vieni, ti preparo la colazione” aggiunge con tono mellifluo. ‘Fanculo!
“Non ho fame” brontolo, ma poi la seguo. Ci sediamo al tavolo della cucina. Lei è vitale, fresca, i suoi lunghi capelli hanno già ritrovato la giusta piega. Al contrario io mi sento un mostro: occhi cisposi, barba lunga, zazzera arruffata. Dal mio corpo proviene un afrore disgustoso, di cane malato.
Il caffè è già salito, lei ne prende una tazzina.
“Ne vuoi?” domanda.
“No, farò colazione più tardi”.
“D’accordo. Ti lascio fuori i cereali?”
I cereali! Roba da bestie. Col cazzo che li mangio!
“Allora, si può sapere dove devi andare a quest’ora? Perché hai intenzione di uscire, vero?” chiedo.
“Come, non ti ricordi? Devo andare a votare.”
La collera affiora di nuovo.
“Porca troia! C’è tutto il giorno di tempo e tu mi hai svegliato per questo motivo?” Batto un pugno sul tavolo, i cereali escono dalla ciotola e si spargono sul tavolo.
“Carlo, non ti devi arrabbiare. Preferisco fare subito il mio dovere, così poi non ci penso più. E dopo credo che andrò a messa.”
“Tutto il giorno di tempo…” ripeto, ma lei non c’è già più, è corsa in camera a prepararsi. Sfatto, incazzato, ancora in mutande, appoggio il capo sul piano del tavolo sperando di riaddormentarmi. Ma non ci riesco, allora vado a vestirmi anch’io. Lei è già pronta, veloce come suo solito. La scruto: camicetta attillata con ben due, e non uno, bottoni slacciati. Minigonna, calze velate e scarpe con il tacco. Non male per una quarantenne, ma questo non lo posso dire.
“Ti sei vestita così per Lombardo?” dico astioso mentre tento di infilarmi i jeans incrostati di sporco.
“Chi?” fa lei, con noncuranza.
“L’ingegner Lombardo, il presidente di seggio, quel cretino metrosexual”.
“Metrosexual” ripete lei, scandendo bene le lettere. “Dove hai imparato questa parola?” poi squittisce come un topo.
“Per chi mi hai preso?” ribatto, offeso.
“Come fai a sapere che il presidente di seggio è l’affascinante ingegner Lombardo?” domanda lei, con fare da zoccola.
“Come lo so? C’è sempre lui, quel brutto deficiente”.
“Ma smettila!”
“E che dirà don Ferdinando, a vederti così conciata?”
“Non lo so, farà un fischio. Ah! Ah!”
“Hai deciso per chi voterai, oppure ti limiterai a sfilare?”
“Certo che ho deciso!”
“Allora?”
“Mi dispiace, il voto è segreto.”
Quanto mi incazzo quando fa così! Perché ho sposato una tale stronzetta?
“Vado in garage. Ho dei lavori da fare. Ciao” dico.
“Va bene. E tu quando andrai a votare?”
“Eh? Più tardi, ci andrò più tardi. C’è un sacco di tempo”.
“Ciao Carlo. Ah! Dimenticavo di dirti una cosa. Oggi a pranzo ci sarà mia madre”.
Dalla mia bocca esce una sequela di bestemmie terribili. No! Quella strega no!
“Carlo, mi raccomando, cerca di comportarti bene. Ricordati che mamma ci ha prestato i soldi per la casa.”
“Prestato? Se ci fossimo rivolti a un usuraio pagheremmo meno interessi!”
“Ma smettila! Ciao, ci vediamo dopo.” Afferra la borsetta ed esce.
Esco pure io, vado in garage, ormai l’ho detto e lo faccio, anche se in verità non ho nessun lavoro da fare. Dovrei sostituire l’olio alla macchina, ma non ne ho voglia. Domani porterò l’auto da Gigi e dirò a mia moglie che il lavoro l’ho fatto io. Rimetto un po’ in ordine gli attrezzi ma mi scazzo subito, sono irrequieto. Forse è il pensiero della suocera che mi turba, chissà. D’un tratto mi si scatena un appetito bestiale. Mollo tutto e torno di corsa in cucina. Butto nella spazzatura gli stupidi cereali, quel cibo insulso non degno di un cristiano, e ci do dentro con pane e spesse fette di salame. Annego il tutto con un bicchiere di vino. Mi siedo sul divano, pensieroso. Che ci faccio qui? Decido di andare a cercare un po’ di compagnia. Prendo il giubbotto e mi dirigo al bar.
Le vie del paese sono piene di gente. Qualcuno sta tornando dalla messa domenicale, altri forse stanno andando a votare, molti girano semplicemente a vuoto. Scorgo l’insegna familiare: Bar Blu.
Mi dirigo subito alla cassa e cambio un po’ di soldi, poi vado verso l’angolo più appartato, quello delle slot. Qui sono solo. Abbraccio la mia macchina preferita e comincio a pompare come un dannato sulla leva ma quelle maledette pin-up non ne vogliono sapere di allinearsi. Non importa: il mio piacere consiste nel giocare, non nel vincere. E si tratta di un vero e proprio godimento fisico, tanto che quando ho finito i gettoni mi sento pervaso da una gradevole eccitazione. Sono sudato. Allora mi avvicino all’affollato bancone, dove si trovano riuniti tutti i perdigiorno. È quasi l’ora dell’aperitivo, dunque senza indugiare comando un vino chinato e mi sforzo di socializzare un po’. Gli argomenti di cui di solito si discute in questi paraggi sono, naturalmente, calcio e donne. A volte si parla di automobili. Ma oggi no, a tener bancone è invece la politica in tutte le sue, come dire, sfaccettature. È chiaro, i seggi sono aperti e tutti, dal primo all’ultimo ubriacone, compreso tra un po’ il sottoscritto, sbraitano cercando di sparare la stronzata più grossa. Il fatto è che la politica, e in particolare chi la rappresenta, non risulta essere molto popolare di questi tempi: di conseguenza le varie opinioni tendono a prendere la stessa direzione. Oltretutto, quando si è in branco, e pure alquanto alterati, ci si incoraggia sempre di più l’uno con l’altro. In ogni caso non riesco a intervenite per dire la mia e quindi mi limito a farmi riempire di nuovo il bicchiere.
“Col cazzo che ci vado, a votare, questa volta” strilla Beppe il salumiere con il suo vocione. “Mi devono venire a prendere con la limusina e poi mi devono pure pagare se vogliono che alzi il culo!”
“Bravo! Ben detto!”
“Quelli sono tutti dei ladri. Si ricordano di noi solo quando ci sono le votazioni. Fanno tante moine ma poi il giorno dopo ci alzano le tasse” rincara Alfio, un camionista tutto pancia.
Marione irrompe con la sua agghiacciante risata alcolica, prima di parlare.
“Sapete… sapete che cosa gli faccio io? Io ci vado, ci vado eccome a votare, ma poi quando sono dentro la gabina ci disegno sopra la scheda un coso enorme e ci scrivo adesso ficcatevelo dove dico io! Ecco cosa ci faccio a quei cornutoni!” E giù un’altra risata che fa vibrare i bicchieri.
Decido di passare al vermouth proprio quando entra nel bar il cavalier Serventi, uno dei più noti politici locali e, manco a dirlo, candidato. Fosse un giorno normale quel loffio nemmeno ci cagherebbe, invece oggi si dirige verso di noi con l’aria più affabile del mondo.
“Salve ragazzi, come va?” esordisce il bastardo con la sua vocetta acuta.
“Forza, che vi offro un giro” aggiunge estraendo il portafoglio gonfio da commerciante di bestiame.
Ne approfitto per scroccare un anice. Di colpo tutti stanno zitti. I vigliacchi.
“Allora, siete già andati a votare?” dice il cavaliere, che sorride a tutta dentiera.
Tutti scuotono il capoccione, ma subito si affrettano ad aggiungere che ci andranno, che ci stanno per andare, sicuro. I bugiardi.
Basta, non ne posso più. Sarà perché non ci sto a farmi pisciare in faccia da questo borioso, oppure perché sono già pieno, comunque sbotto.
“Ci siamo stufati di questa politica di merda, e dei politici corrotti, è ora di cambiare, di non dare il voto sempre ai soliti, ci vogliono facce nuove, gente finalmente onesta! Gli altri, tutti a casa!” urlo.
Intorno a me si fa il vuoto. Soltanto Serventi non perde la sua consueta padronanza. Beve un sorso e poi mi fissa con i suoi occhi bovini. A forza di frequentare le bestie, un po’ a loro ci assomiglia.
“Su, non dire così. Lo so che in fondo sei un bravo ragazzo, capisco il tuo sfogo ma so che quando sarai là dentro farai il tuo dovere. Vorrai mica votare per quelli? Sai chi intendo, vero? Non bisogna sprecare il voto”.
Prima che io possa replicare si volta e rivolge a tutti un cenno di saluto. Poi si allontana con la sua andatura da papera grassa non senza elargire l’ultimo monito.
“Ricordatevi: è meglio disperdere il seme che il voto!” dice ridacchiando, di spalle.
Nel locale scende il gelo. Tutti appaiono imbarazzati, ma la maggior parte di quei gradassi da quattro soldi non trova di meglio da fare che osservare con interesse il fondo del proprio bicchiere.
Ne ho davvero abbastanza. Finisco in un solo sorso il secondo anice ed esco dal bar. I raggi impietosi del sole di mezzogiorno mi feriscono gli occhi. Mi sento annebbiato Marcio, sbando, barcollo. Vomitare o non vomitare, questo è il dilemma. Infine chiedo pietoso ricovero a un misero cespuglio impolverato che soffre sul bordo della strada e mi svuoto con alcuni fiotti violenti. Mi libero sputacchiando degli ultimi rigurgiti acidi e riprendo il cammino verso casa. Con un po’ di fatica riesco ad aprire l’uscio.
Subito me la trovo davanti, orrenda apparizione. Già accomodata al tavolo, il tovagliolo annodato al collo grinzoso, la forchetta stretta tra le dita adunche. Ha i capelli cotonati e di color violetto, rossetto vermiglio sulle non-labbra e molteplici strati di cerone a spianarle le rughe del viso. È lei, la megera, il mostro. La suocera.
“Carlo, sei in ritardo. È da un po’ che ti stavamo aspettando” gracchia. “Sei pallido, ti senti bene?” rinforza da autentica stronza.
“Sto benissimo” dico, e la voce quasi non mi esce. Sono ancora parecchio stordito.
“Mi sembri piuttosto sciupato”. Ancora lei!
“Sto facendo la dieta”.
“Davvero?”
“Certo, la dieta Dukan”.
“Ah! Che cosa sarebbe? La dieta del cane?”
“Sì, me l’ha prescritta un veterinario francese”.
“Carlo!” interviene mia moglie, i nervi già tesi. Non sopporta quando prendo per il culo la madre. “Su, mangiamo. Si sta raffreddando tutto”.
Mi siedo e continuo a stuzzicare la befana. Voglio che il pranzo le vada di traverso.
“Allora suocera, sei andata a votare? Scommetto che alle sei eri già al seggio elettorale” butto lì.
L’altra non si scompone. O possiede una freddezza glaciale oppure è del tutto imbecille. Credo sia buona la seconda.
“Ti sbagli Carlo, erano quasi le sette” risponde.
“Fatto il tuo dovere? Quante schede hai dovuto utilizzare prima di azzeccare lo scarabocchio giusto?”
“Carlo!” ancora mia moglie, che ormai sta friggendo.
“Zitta, lasciami parlare con la mamma” dico, untuoso.
La vecchiaccia sogghigna, compiaciuta per la mia attenzione.
“Alla fine però non ho votato e sono tornata a casa” dice.
Il boccone prende una cattiva strada e inizio a tossire come un disperato.
“Come? Non hai votato? Si può sapere perché?” chiedo appena mi riprendo un po’.
La stagionata arpia si pulisce la bocca, sbavando il rossetto, poi incrocia le braccia sul petto vizzo e si appoggia comoda allo schienale della sedia. Gode a farmi aspettare prima di rispondere.
“Sai, ho pensato di cavalcare anch’io l’onda dell’antipolitica, come dicono nei talco sciò in televisione, e per protesta ho deciso di non votare. Dovranno ben tenere conto di tutti quelli che, come me, si sono astenuti. Si dice astenuti quando non si vota, vero?”
Cavalcare l’antipolitica! So io che cosa dovresti invece cavalcare, povera rincoglionita: una bella scopa, per esempio.
“Porca troia!” mi scappa.
“Carlo, per favore…”
Guardo mia moglie.
“Ma ti rendi conto di ciò che ha fatto tua madre?”
“Beh… ha deciso di non votare. Si tratta di una sua libera scelta, no?” dice lei, titubante.
Alzo la voce.
“Ha rinunciato a esercitare un suo diritto! Ha abdicato all’esercizio della sovranità popolare che compete ai cittadini! Ha fatto in modo che saranno gli altri a decidere per lei, e pure per me e per te!”
La strega finalmente sbianca sotto il multistrato di cipria.
“È grave? Ci saranno delle conseguenze?” chiede, ansiosa. Proprio quello che volevo.
“Ma no mamma, stai tranquilla. Non succederà nulla. Non c’è l’obbligo di votare. E poi Carlo sta scherzando, vero?” dice mia moglie rivolgendomi uno sguardo di supplica.
“Col cazzo che sto scherzando! Mai stato così serio” sparo l’ultima cartuccia, quella del colpo di grazia.
La vecchiaccia si sgonfia e si chiude in un angustiato silenzio. Centro!
“Carlo, sei orribile. E smettila di bere!”
“Bevo finché mi pare, cara moglie. Cazzo! Non vanno a votare perché i politici sono tutti ladri, sono tutti corrotti, e non si rendono conto che proprio quei politici che tanto odiano non sono altro che la rappresentazione di loro stessi, vale a dire delle merde. E inoltre qualcuno di loro non si fa scrupolo di taglieggiare due poveracci che hanno avuto la malsana idea di comprare una miserevole catapecchia. Sai a chi mi riferisco”.  
“Carlo, adesso stai proprio esagerando. Mia madre è libera di fare ciò che vuole, anche di non votare”.
“E tu? Sei andata a votare? Oppure hai soltanto esibito le tue grazie?” Accidenti, sono di nuovo pieno, devo darmi una calmata con i beveraggi.
Mia moglie è rossa in volto, i tendini del collo allungati a dismisura. Pare un tacchino.
“Certo che ho votato!” grida. “E tu invece?”
“Io? Non ancora, ci andrò oggi, dopo la partita.”
Mi alzo da tavola, un po’ instabile sulle gambe, e vado a vestirmi elegante.
Arrivo al campo che l’incontro sta quasi per iniziare. Osservo il terreno di gioco: soltanto terra, sabbia e polvere. Ma non ci dovrebbe essere l’erba? Le linee, tracciate con la calce, sono tutte storte. Eppure quella di oggi è una partita importante: se vinciamo saremo primi in classifica, nessuna altra squadra potrà più raggiungerci e saremo promossi nella categoria superiore. Almeno, così mi hanno spiegato, perché in verità io di pallone ci capisco ben poco. Certo, so che per battere gli avversari bisogna buttare il pallone, in un modo o nell’altro, nella loro porta. Tuttavia le mie conoscenze si fermano qui. Da bambino e poi da ragazzo non ho mai giocato, non ho mai seguito il campionato di serie A e tantomeno quelli esteri o gli incontri della nazionale. Malgrado ciò sono il vicepresidente della squadra del paese. È accaduto tutto una sera al bar, un po’ di tempo fa. In quel momento avevo già due tre bicchieri di troppo in corpo e quando Angelo il macellaio, il presidente e principale sponsor dei pedatori nostrani, pure lui parecchio alticcio, mi aveva chiesto: “Carlo, ti andrebbe di fare il dirigente, il mio vice?” la mia risposta era stata troppo rapida e accompagnata da eccessivo e immotivato entusiasmo.
“Pronti, al tuo servizio!” avevo blaterato da vero idiota. Gli impegni presi, in ogni caso, devono essere rispettati. Pacta sunt servandi, come diceva il mio vecchio professore di latino.
Mi dirigo verso gli spogliatoi, una brutta costruzione di latta. Vedo un ometto baffuto con una borsa sportiva arrivare di corsa e infilarsi in una porticina e chiudere a chiave.
“È l’arbitro” dice Oreste, un altro dei dirigenti, appena mi scorge. “Se fa il furbo oggi da qui non esce vivo” aggiunge, passandosi un dito sulla gola. Oreste, che di lavoro fa l’assicuratore, per la cronaca è un gran fanfarone. Finalmente vedo Angelo. Sta parlando con i nostri giocatori, che sono già in mezzo al campo in maglietta e mutande, e li sta incitando alla sua maniera.
“Andiamo eh! Su, forza! Se fate bella figura vi offro una bella cena. Su… su…”
Angelo mi nota e mi fa segno di seguirlo in un angolo appartato del campetto.
“Guarda i nostri, non vedi qualcosa di strano?” dice, tutto affannato.
Ciò che subito mi salta all’occhio è che la maglia numero nove è indossata da un ragazzino smilzo che mai avevo visto prima.
“E Pallavicini, dov’è Pallavicini?” chiedo.
Pallavicini è il nostro mitico centravanti. Grande, grosso e cattivo. Un vero stupra-reti. Picchia come un dannato e, anche se la sua tecnica è alquanto approssimativa, riuscire a fermarlo è quasi impossibile per qualsiasi difensore.
Angelo mi indica il nostro attaccante.
“È là, ma oggi non gioca” dice sconsolato. Eccolo, è proprio lui, non l’avevo riconosciuto. Il bestione indossa giacca e cravatta ed è scuro in volto. Finora lo avevo sempre e soltanto visto in braghette. Anzi, pensavo addirittura che non svestisse mai la divisa da gioco, neppure a casa o sul lavoro.
“È ammalato?” domando.
“Macché, è tutta colpa di Mimmo. Oggi l’ha fatta davvero grossa”.
Mimmo è il nostro allenatore. È un vecchietto di quasi ottant’anni e, siccome presta gratuitamente la sua opera da innumerevoli lustri, nessuno ha mai avuto il coraggio di esonerarlo. Le uniche passioni della sua vita sono il calcio e la politica.
“Su, racconta” incoraggio Angelo.
“Quell’imbecille ha deciso di portare i giocatori a votare prima della partita, in maniera che poi avessero la mente libera, ha detto. Il fatto è che Pallavicini si è rifiutato di votare e lui l’ha tolto di squadra. Merda! Oggi rischiamo di prenderle!”
“Perché non ha voluto votare?”
“Dice che ha deciso di cavalcare…”
“…l’onda dell’antipolitica” concludo io. Il povero Angelo strabuzza gli occhi.
“Lo sapevi?” dice.
“Ma no, però sembra che questa cosa vada molto di moda, tra vecchi e giovani.”
“Ah! Fatto sta che siamo messi male” aggiunge Angelo prima di andare a sedersi in panchina, proprio accanto a Mimmo, al quale non rivolge la parola per tutta la durata della partita. Partita che naturalmente perdiamo. Maledetto astensionismo!
Deluso e amareggiato mi avvio verso casa, dove per buona sorte non c’è mia moglie. Avrà accompagnato alla sua tana la vecchia demente e la starà ancora consolando. Tanto meglio. Mi stendo sul divano in perfetta posizione Andy Capp e accendo la televisione, che mi stende in un batter d’occhio. Prima di addormentarmi riesco ancora a pensare: “Soltanto un breve pisolino, perché poi devo andare a votare. E in culo a quell’imbecille di Pallavicini!”
Suonano alla porta. Vado ad aprire e mi trovo di fronte il sindaco. È accompagnato dall’impresario delle pompe funebri e dal suo patibolare scagnozzo. I due reggono una specie di catafalco.
“Carlo” esordisce il sindaco mettendomi le zampe sulle spalle. “Sappiamo che sei sempre stato un fedele e assiduo elettore e dunque l’amministrazione ha deciso di farti un regalo”.
“A me?”
“Sì, proprio a te. Ti diamo la possibilità di votare qui, a casa tua, invece di doverti recare al seggio. Vogliamo eliminare qualsiasi tuo disagio” spiega il sindaco. Poi fa segno ai suoi due funerei assistenti di entrare.
“Ascolta, Carlo. Dove possiamo installare la cabina affinché tu ti senta il più possibile comodo nell’esercizio del voto?”
Non so che dire. Sono ancora sorpreso per ciò che sta accadendo, anche se non riesco a nascondere un certo compiacimento. Un onore così grande! A me, umile elettore. Rifletto un attimo prima di rispondere.
“Sentite, potreste metterla in bagno. È il solo luogo in tutta la casa dove riesco a stare in pace, dove posso pensare senza essere disturbato”.
“D’accordo, come vuoi tu. Su, ragazzi, fate il vostro lavoro” ordina il sindaco.
I due sgherri, rapidissimi, montano la cabina proprio attorno alla tazza del cesso. Il sindaco mi consegna una scheda elettorale e una matita copiativa, poi mi impartisce le ultime istruzioni.
“Esprimi il tuo voto, poi butta la scheda nella tazza e tira lo sciacquone. Capito?”
“Come?”
“Carlo! Carlo! Svegliati!”
Non è più la voce accattivante del sindaco, bensì quella stridula di mia moglie.
“Eh? Dove sono?” riesco appena a biascicare.
“Non hai neppure cenato! Arrivo e ti vedo lì a ronfare come un disgraziato! Che pena di uomo, scommetto che non sei neppure andato a votare”.
“A votare? Cazzo! Che ore sono?” chiedo, disperato. Adesso sono del tutto sveglio.
“Sono quasi le dieci” dice mia moglie con un sogghigno. Fetente!
Mi butto giù dal divano, afferro la tessera elettorale dal tavolino dell’ingresso e la accartoccio nel pugno. Così come sono mi precipito in strada. In quell’attimo realizzo in rapida sequenza: che mia moglie è rincasata piuttosto tardi, che indossa una gonna ancora più corta di quella che portava stamattina, che di sicuro mi ha fatto becco. Non importa, a questo ci penserò dopo, quando avrò finalmente espresso il mio voto. Quando avrò compiuto il mio dovere.
È ormai buio e le vie del paese sono deserte. L’orologio del campanile scocca dieci rintocchi. Mi assale un senso di panico e inizio a correre, anche se le ciabatte che ho ai piedi non mi sono d’aiuto. Arrivo finalmente alla scuola elementare, la sede di seggio. L’edificio è scuro e silenzioso, da una unica finestra filtra una luce. Entro nel cortile e mi trovo di fronte un giovane carabiniere che mi impedisce di proseguire.
“Mi dispiace ma la sezione è chiusa. È già iniziato lo spoglio” dice e, allo stesso tempo, osserva con curiosità e pure con un po’ di apprensione la mia camicia spiegazzata, i jeans sporchi, le pantofole con il pelo lungo.
“Ma…”
“Non può più entrare” scandisce. “Deve andare via, mi dispiace” ordina in tono perentorio.
“D’accordo, me ne vado”.
“Non se la prenda” cerca infine di consolarmi, scorgendo la mia espressione afflitta. “Vuol dire che voterà la prossima volta.”
“Sì, certo. Sarà per la prossima volta” dico, guardando la mia tessera elettorale, ancora stretta in pugno, umida di sudore e tutta accartocciata.