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sabato 28 dicembre 2019

SELVAGGIO WEST


Il saloon era molto affollato. Era arrivato in città un nutrito gruppo di vaqueros al seguito di una grande mandria, provenienti dal nord. Assetati, i cowboy si erano installati nel locale e non si erano più mossi. Alcuni di loro, già completamente sbronzi, erano scivolati sotto i tavoli. In qualche modo mi feci strada e raggiunsi il bancone. Attirai l'attenzione del barista.
"Un espresso!" ordinai.
"Normale o macchiato?" domandò il vecchio Sam. Poi, sghignazzando, mi servì un bicchiere di whisky colmo fino all'orlo.
"Che cosa sarebbe l'espresso?" mi chiese un uomo. Non l'avevo notato, ma era proprio accanto a me. Era tutto vestito di nero, compreso il cappello. Non ebbi dubbi, si trattava di un fuorilegge. D'altra parte il confine con il Messico non era lontano.
"È un tipo di preparazione del caffè" spiegai.
"Come quello che mi faccio quando mi accampo?"
"Non proprio. L'espresso si fa con una macchina, una macchina a vapore".
"E in questo schifo di saloon questa macchina non c'è" concluse l'uomo.
"Esatto. Si può trovare solo all'est, a Boston, Baltimora o Filadelfia per esempio".
"E allora perché l'hai chiesto?" domandò il fuorilegge, avvicinando la mano alla pistola. Temeva lo stessi prendendo in giro. I banditi sono sempre un po' troppo permalosi.
"È un gioco che facciamo io e Sam" dissi.
All'improvviso l'attenzione del malfattore fu attirata da qualcosa che stava accadendo all'esterno del saloon. Alcuni cowboy erano appena arrivati e stavano legando i loro cavalli. Un vecchio indiano stava chiedendo loro dei soldi in cambio della custodia dei quadrupedi. Un cowboy diede al pellerossa un gran calcio nel didietro e lo spedì a mangiare la polvere. Un altro gli buttò un paio di centesimi sulla schiena.
"Porca puttana!" sbraitò il fuorilegge. "Un parcheggiatore abusivo! Se non gli dai qualche moneta quelli sono capaci di rovinarti il cavallo! Adesso lo sistemo io!" Poi uscì di corsa dal saloon. Dopo qualche istante si udirono due colpi di pistola. L'uomo in nero rientrò, con calma.
"Bastardo di un muso rosso, mi ha fatto sprecare una pallottola". Poi comandò da bere.
Dopo aver scolato tre bicchieri di whisky, uno dietro l'altro, il fuorilegge rivolse la sua attenzione ai mandriani. E in particolare a uno di loro, l'unico negro.
"Ehi! Faccia di carbone! Si può sapere da dove arrivi?"
"Noi arriviamo dal Montana, ma io sono nato in Alabama" rispose il ragazzo.
"E voi vi siete portati dietro questo muso nero per centinaia di miglia?" domandò il fuorilegge ai vaqueros. Nessuno di loro rispose. Tutti finsero di non conoscere il negro.
"Allora, da dove arrivi? Guarda che è l'ultima volta che te lo chiedo".
"L'ho detto. Arrivo dal Montana, ma sono nato nel sud".
Il fuorilegge lo squadrò per bene, poi sputò a terra.
"Secondo me arrivi dall'Africa" disse.
"I miei antenati arrivarono dall'Africa" disse il ragazzo, a bassa voce.
"In che modo?" lo incalzò il fuorilegge.
"Sulla nave" rispose l'altro.
"Lo sapevo! Sono arrivati con i barconi! E tu sei come loro, uno sporco clandestino!"
"Io non sono clandestino!" gridò il giovane negro.
"Dov'è il permesso di soggiorno?"
"Eh? Quale permesso di soggiorno?"
"Eh, tu!" disse il fuorilegge, rivolgendosi a un uomo grande e grosso, il maniscalco del paese, che stava giocando a carte.
"Aiutami a impiccare questo sacco di merda!"
Il maniscalco, riluttante, si alzò dal tavolo. Aveva in mano un tris d'assi e rischiava di non poterlo sfruttare. Dannata sfiga!
Il bandito e il ferracavalli trascinarono fuori il negro, che sembrava non avere nessuna voglia di finire appeso. Nemmeno uno dei presenti mosse un dito. Quell'uomo vestito di nero era piuttosto cattivo e di sicuro pure veloce di mano.
Tutto si risolse in poco più di dieci minuti. Poi il fuorilegge riprese a bere e il maniscalco continuò la sua partita a carte. Il tris d'assi tuttavia era andato.
All'improvviso gli sguardi di tutti furono attirati da una giovane donna che si era affacciata alla balaustra in cima alle scale che portavano al piano superiore del saloon, dove c'erano le stanze. La donna, piuttosto graziosa anche se un po' troppo imbellettata, fissava i bevitori e sorrideva.
"Chi è quella?" mi domandò il fuorilegge.
"È la nuova puttana" risposi. "Non male, vero?"
"Costa due dollari" disse un vecchio.
"Due dollari? Cos'è? Ce l'ha d'oro?" Poi il bandito imboccò di corsa le scale, raggiunse la donna e cominciò a prenderla a schiaffoni. Quindi ridiscese. La poveretta aveva entrambi gli occhi neri, e non per il trucco, e perdeva sangue dal naso.
"Così la prossima volta non riderai più. E adesso sparisci altrimenti ritorno e ti concio davvero per le feste!" La donna, piangente, scappò nella sua stanza.
"Due dollari! Puah!" Il fuorilegge sputò e lo scaracchio atterrò proprio sulla punta dello stivale di Johnny Ford, il becchino.
"Ci sarebbe davvero bisogno di un tipo energico come te" disse il buon Johnny, facendo finta di nulla. "Perché non fai lo sceriffo?" aggiunse.
"Paparino, se non lo hai ancora capito io sto sull'altra sponda" disse il fuorilegge, e proprio mentre lo stava dicendo entrò lo sceriffo. Stava imprecando.
"Ma porca puttana! Quante volte ve lo devo dire di non lasciare i cadaveri per strada? Chi è che ha fatto secco quell'indiano? Vada subito a pulire! È inutile che vi lamentiate sempre che la città è sporca se poi non collaborate! Ma porca zozza!"
"Calma, sceriffo. Il muso rosso l'ho seccato io. Stava taglieggiando degli onesti cowboy. Adesso provvedo". Il fuorilegge fece un cenno al maniscalco che, sbuffando, si alzò dal tavolo. Aveva in mano una scala reale ma sarebbe andata persa. Non era proprio giornata.
"Vai a seppellire il pellerossa. Già che ci sei butta nella fossa pure il negro" ordinò il fuorilegge.
"Quale negro?" domandò lo sceriffo, stupito.
"Quello appeso alla trave del granaio" spiegò il bandito.
"Merda! Non l'ho visto. Sto proprio invecchiando. La prossima volta non mi presento alle elezioni".
Estrassi l'orologio dal taschino. La mia pausa-caffè, come amavo chiamarla, era finita. Mi toccava ritornare al lavoro, all'ufficio postale. Un lavoro noioso, come noioso era tutto il resto. Altro che selvaggio west, in questo postaccio non accadeva mai nulla.


giovedì 26 dicembre 2019

COMING OUT



Mia sorella, qualche giorno fa, ha fatto coming out. Mi ha confessato che le piacciono le donne.
"Sei sicura?" le ho domandato. Ero un po' in imbarazzo e non sapevo che cosa dire. Lei mi ha guardato brutto, ma davvero brutto, e non ha detto niente.
"Lo hai già detto a mamma?" ho chiesto, dopo un lungo silenzio.
"No, ma adesso glielo dico". E così ha fatto, quel giorno stesso.
Ho poi saputo che nostra madre, dapprima, si è come pietrificata, ed è diventata tutta grigia in faccia. Ma poi si è ripresa e, dopo aver esaminato mia sorella dalla testa a i piedi per un minuto buono, per essere sicura che oltre a quello appena appreso non esistessero altri difetti nascosti dei quali non si era mai accorta, ha detto che l'importante era volersi bene, e che per lei non cambiava niente. Più tardi è andata a messa.
Noi viviamo in un piccolo paese, e tutti sanno tutto. Mia sorella, tra l'altro, ha quasi venticinque anni e non ha mai avuto un fidanzato. In non ci avevo mai fatto caso, ma pare che qualcuno avesse iniziato a mormorare. Io sono più giovane, ma pure io non ho mai avuto un ragazzo. Tempo qualche mese e cominceranno pure a mormorare su di me. Devo darmi da fare, ma non è così semplice.
"Come farai a trovare una fidanzata?" ho chiesto a mia sorella.
Lei non ha risposto, ha soltanto fatto una brutta smorfia con la bocca, accompagnata da un gesto ancora più brutto rivolto a me.
Pensavo: l'unica maniera per farsi un fidanzato (o una fidanzata per quelle come mia sorella) qui in paese è quella di frequentare la messa, oppure di partecipare agli esercizi spirituali in parrocchia, o ancora di andare alle proiezioni di film nel salone dell'oratorio. Nient'altro.
"E a papà, lo hai detto a papà?" ho domandato a mia sorella. Lei mi ha guardato come a dire: "Ma sei scema?".
"Ha detto mamma che glielo dirà lei" ha risposto alla fine.
"Quando?"
"Non lo so. Appena troverà il momento buono".
"Mentre saranno nel letto? È l'unica occasione in cui nostro padre sta tranquillo".
"Perché non stai un po' zitta?"
Chissà se la mia vita cambierà quando tutto il paese saprà che a mia sorella piacciono le donne. Perché prima o poi accadrà. Per me sarà dura, ma le cose saranno difficili soprattutto per lei. Forse sarà costretta a emigrare, ad andare in una grande città, dove non ci si conosce neppure tra vicini di pianerottolo, dove ognuno si fa gli affari propri. E speriamo che nostro padre la prenda bene, mia sorella è sempre stata la sua figlia preferita. Per lui sarà un brutto colpo, speriamo non siano brutti colpi sulla schiena anche per mia sorella...
Da quando ho saputo quella cosa (che a me in realtà non ha fatto né caldo né freddo) mi domando se pure a me non piacciano le donne. Devo dire che per tanti motivi le apprezzo molto: sono più gentili ed educate, si vestono meglio degli uomini, sono più curate e soprattutto non puzzano. Tuttavia non mi sento attratta da loro. In quel senso, ecco. In quel senso preferisco di più i ragazzi. Quelli del paese mi piacciono quasi tutti. Anzi, togliamo pure il quasi. E poi mi piacciono anche i cantanti e gli attori. Tutti.


mercoledì 25 dicembre 2019

LA CAVERNA



Il giorno prima era venuto un grosso camion e aveva scaricato il mucchio di sabbia proprio in mezzo al cortile. Il bambino lo guardava, estasiato.
"Ci posso giocare?" domandò al padre, anche lui intento ad ammirare il cumulo.
L'uomo alzò le spalle.
"Finché c'è" rispose, poi si allontanò. Era un tipo di poche parole.
La sabbia era ancora umida, e quindi modellabile. Il bambino progettò di costruire un castello, come aveva visto fare in televisione, ma si rese conto di non esserne capace. E poi quella sabbia era grigia, scura, non dorata come quella delle spiagge, come quella del mare, che lui non aveva mai visto.
Pensò allora di tracciare una strada. E lo fece, tutto attorno all'accumulo, usando un'assicella. Era una strada di montagna, stretta e tortuosa, e la fece percorrere più volte, su e giù, dal suo camioncino di plastica. Dopo un po' si stufò. Spianò ciò che aveva fatto e disegnò sulla sabbia una pista per le bilie. Le piccole sfere di vetro però scorrevano con difficoltà, si bloccavano. Quel gioco non era affatto divertente. Rinunciò. Utilizzando la mano come fosse una pala meccanica scavò una profonda caverna nella sabbia. Un'autentica grotta, dove avrebbe potuto riporre un tesoro. Con un po' di fatica riuscì a slacciare il minuscolo braccialetto d'oro che portava al polso e lo posò all'interno della caverna di sabbia. Sarebbe stato al sicuro? Oppure qualcuno avrebbe potuto rubarlo?
"È ora di cenare! Sbrigati!" La voce impetuosa e imperiosa di sua madre. Non potendo più indugiare, il bambino afferrò un minuscolo soldatino di plastica e lo sistemò all'imboccatura della caverna.
"Mi raccomando, fai buona guardia" disse il bambino, poi se ne andò, di corsa.
Al soldatino quella missione non piaceva per nulla. Gli ricordava troppo quella del suo sergente, avvenuta da poco. Il disgraziato era stato messa di guardia sopra un davanzale esterno, proprio da quello stesso bambino. Durante la notte il vento l'aveva scaraventato nel cortile. La sua presenza non era sfuggita al grosso cane, che lo aveva catturato e masticato orrendamente. Il giorno dopo avevano visto tutti il corpo, o almeno quel che ne restava, del povero sergente, abbandonato tra la ghiaia. Il bambino non aveva battuto ciglio. E adesso toccava a lui, anche se quello non era di sicuro un lavoro per un ufficiale. Fare la guardia a una caverna di sabbia era compito di un soldato semplice, ma quel bambino ignorava del tutto la gerarchia militare. Per lui ogni soldatino era uguale all'altro. Il tenente si sistemò meglio il fucile in spalla e si preparò per la notte.
Il mattino dopo il  bambino non si ricordò più né del braccialetto né del soldatino. Trascorse tutta la giornata scorrazzando in bicicletta e giocando a guardie e ladri con un amichetto. L'implacabile sole estivo asciugò la sabbia e la caverna crollò, seppellendo per sempre il povero tenente. Qualche tempo dopo il padre del bambino, dovendo costruire un muretto, iniziò a smantellare il mucchio di sabbia e trovò il braccialetto d'oro. Il corpo del soldatino, invece, non fu mai più ritrovato. Ancora oggi, forse, si trova dentro il muretto.


lunedì 23 dicembre 2019

INVASIONE



Li vedeva in strada, sui marciapiedi, sotto i portici. Dapprima isolati, poi a gruppi di due o tre. A volte invece erano ancora più numerosi e spesso tutti allineati, come in formazione militare. Da subito ne ebbe paura. Temeva soprattutto quelli isolati, quelli che intralciavano il suo cammino, quelli che la costringevano, suo malgrado, a cedere il passo. Eppure lei abitava in città da oltre mezzo secolo, mentre loro erano arrivati da poco. Erano arrivati all'improvviso, chissà da dove e in quale modo. In ogni caso qualcuno doveva averli aiutati, qualcuno di sicuro aveva favorito il loro arrivo. Trafficanti, si diceva, mentre altri addirittura sussurravano che la colpa era del sindaco, che non aveva fatto nulla per fermarli. Anzi, aveva fatto di tutto per averli in città. Loro sembravano tutti uguali, ma non era così. Lei li vedeva in quel modo, ma in realtà c'erano delle differenze. Minime, ma c'erano. Qualcuno di loro era più alto, altri erano più tozzi, e pure i loro colori erano diversi. All'inizio alcuni cittadini davano loro dei soldi. Poi smisero, perché la cosa non aveva più alcun senso. Li temeva soprattutto di notte, quando la città era deserta. Quelle sagome sottili che si trovavano dappertutto suscitavano inquietudine e timore, perché ormai erano in troppi, e in ogni caso la gente, quando faceva buio, preferiva rimanere chiusa in casa. La mattina, tuttavia, quando usciva per recarsi al lavoro, erano loro a darle un tetro benvenuto non appena metteva i piedi fuori dall'androne. E se fossero entrati nel palazzo? Sapeva che prima o dopo sarebbe accaduto. Occorreva fare qualcosa, bisognava mandarli via, finché si era ancora in tempo. Ancora poco e sarebbe stato troppo tardi. Quell'invasione, perché si trattava ormai di una autentica invasione, doveva essere fronteggiata in qualche modo. Lei si chiedeva quando tutti avrebbero finalmente reagito, quando tutti si fossero resi conto del grave pericolo che stavano correndo. Il rischio, per lei e per tutti gli altri cittadini, un azzardo ormai prossimo, ben concreto, era quello di non potere più essere padroni nella loro città, nelle loro case, e di soccombere agli invasori, quegli invasori sempre più temibili: i monopattini elettrici.

domenica 1 dicembre 2019

IL DONO



Mario mi invita a salire sulla sua vecchia auto. Mi piace andare in macchina, allora accolgo con gioia il suo invito e balzo sul sedile anteriore e mi siedo. Partiamo, e lui non dice una sola parola. È teso, concentrato sulla guida. Fa molto caldo, per fortuna i finestrini sono abbassati e all’interno dell’abitacolo penetra un po’ d’aria fresca. Percorriamo una strada che non conosco. Dopo un po’ imbocchiamo una via grande, a più carreggiate, che prima d’ora non avevo mai visto. Ci sono tante altre auto, molti camion, e Mario guida veloce. All’inizio ho paura, il vento mi sferza il naso, ma poi mi rilasso. Dopo più di mezz’ora l’autovettura rallenta e poi si arresta in un ampio spiazzo. Intorno a noi c’è molta confusione, anche se da un piccolo edificio che sembra molto affollato proviene un buon odore di cibo, misto però a vapori di benzina. Per me è tutto nuovo, non sono mai stato prima in questo posto. Mario scende lasciando la portiera aperta e, quando vedo che si accende una sigaretta, esco anch’io. So di avere almeno cinque minuti di tempo, conosco molto bene le sue abitudini, e allora inizio a gironzolare un po’. Mi domando ancora una volta dove siamo diretti, ma poi non ci penso più e mi concentro su ciò che mi circonda. L’ambiente è interessante, tuttavia ho molto caldo, e soprattutto tanta sete, quindi dopo un paio di minuti decido di tornare verso l’auto. La macchina, però, non c’è più. Disorientato, attonito, spaventato, guardo verso la strada trafficata, e intravedo la sua, la nostra, automobile che si sta allontanando. Vorrei correre, come so fare molto bene, e inseguirla, farmi sentire, ma non ci riesco. I miei muscoli sono come di pietra, una sensazione di freddo invade il mio corpo. Non mi muovo, disperato. Poi una mano mi tocca e mi fa sussultare. Una ragazza, dai lunghi capelli neri, che ha assistito a tutta la scena, mi incita a salire sulla sua auto. Subito oppongo resistenza, cerco di stare incollato a terra, mi rifiuto con tutte le mie forze. Poi cedo all’improvviso, rassegnato. Sono confuso, privo di energia e di volontà. Cedo. Non mi è mai accaduta prima d’ora una cosa del genere, non sono mai stato solo, e non so come affrontare una tale tremenda situazione. La ragazza si avvia nella stessa direzione di Mario. All’interno della macchina c’è un odore nuovo per me, diverso dal solito, dolce ma gradevole. Non so che cosa fare, non so come comportarmi, non riesco a controllare il tremito di paura che mi sta assalendo. Chiudo gli occhi, e li riapro soltanto quando ci fermiamo. Con mia grande meraviglia, vedo che siamo nel cortile di casa mia. In fondo c’è Mario, che sta trafficando con la porta del garage. La ragazza scende, con piglio deciso, e va verso di lui. Sembra molto arrabbiata, lo capisco dall’odore penetrante del suo sudore. Il mio sesto senso mi dice che non devo uscire, anche perché vedo negli occhi di Mario una luce strana, insolita, che mi fa paura. Mentre discute in maniera animata con la ragazza, i suoi lineamenti sono stravolti, accompagna le sue parole con gesti vivaci, ma a me non sfugge il pallore del suo volto. Riesco a carpire alcuni frammenti di conversazione. La ragazza lo accusa di qualcosa, ne sono certo. Immobile, punta il dito indice contro di lui e pronuncia parole come bastardo, vergognati, delinquente. Non so quale sia esattamente il loro significato, ma di sicuro sono termini brutti. Lui scuote il capo, in un atteggiamento difensivo che non riconosco e continua a ripetere: “Si sbaglia, non è mio. Non è mio! Se ne vada!” Non sembra più lui, è come se si fosse trasformato in un’altra persona. Non l’avevo mai visto così. Oppure, rifletto, qualcosa mi ha sempre impedito di vederlo? Il mio amore per lui, ad esempio? In ogni caso, io non scendo.
Le mie amare considerazioni sono interrotte di colpo. La ragazza sta tornando. Prima di salire in macchina, si volta ancora una volta in direzione di Mario.
“Grazie per il dono!” grida. Lui abbassa il capo.
Lei, ancora furiosa, mette in moto e riparte sgommando. Dopo un po’ si volta verso di me. Non sembra più adirata. Sorride, stacca una mano dal volante e comincia ad accarezzarmi. Io la guardo. Comprendo che per me sta per cambiare tutto e che dovrò abituarmi a tante cose nuove. Soltanto una cosa rimarrà uguale: continuerò a dispensare amore, affetto, attaccamento e riconoscenza. Non posso farne a meno.
Adesso non ho più paura.
Appoggio il muso sulla sua coscia e memorizzo bene il suo odore.