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sabato 28 dicembre 2019

SELVAGGIO WEST


Il saloon era molto affollato. Era arrivato in città un nutrito gruppo di vaqueros al seguito di una grande mandria, provenienti dal nord. Assetati, i cowboy si erano installati nel locale e non si erano più mossi. Alcuni di loro, già completamente sbronzi, erano scivolati sotto i tavoli. In qualche modo mi feci strada e raggiunsi il bancone. Attirai l'attenzione del barista.
"Un espresso!" ordinai.
"Normale o macchiato?" domandò il vecchio Sam. Poi, sghignazzando, mi servì un bicchiere di whisky colmo fino all'orlo.
"Che cosa sarebbe l'espresso?" mi chiese un uomo. Non l'avevo notato, ma era proprio accanto a me. Era tutto vestito di nero, compreso il cappello. Non ebbi dubbi, si trattava di un fuorilegge. D'altra parte il confine con il Messico non era lontano.
"È un tipo di preparazione del caffè" spiegai.
"Come quello che mi faccio quando mi accampo?"
"Non proprio. L'espresso si fa con una macchina, una macchina a vapore".
"E in questo schifo di saloon questa macchina non c'è" concluse l'uomo.
"Esatto. Si può trovare solo all'est, a Boston, Baltimora o Filadelfia per esempio".
"E allora perché l'hai chiesto?" domandò il fuorilegge, avvicinando la mano alla pistola. Temeva lo stessi prendendo in giro. I banditi sono sempre un po' troppo permalosi.
"È un gioco che facciamo io e Sam" dissi.
All'improvviso l'attenzione del malfattore fu attirata da qualcosa che stava accadendo all'esterno del saloon. Alcuni cowboy erano appena arrivati e stavano legando i loro cavalli. Un vecchio indiano stava chiedendo loro dei soldi in cambio della custodia dei quadrupedi. Un cowboy diede al pellerossa un gran calcio nel didietro e lo spedì a mangiare la polvere. Un altro gli buttò un paio di centesimi sulla schiena.
"Porca puttana!" sbraitò il fuorilegge. "Un parcheggiatore abusivo! Se non gli dai qualche moneta quelli sono capaci di rovinarti il cavallo! Adesso lo sistemo io!" Poi uscì di corsa dal saloon. Dopo qualche istante si udirono due colpi di pistola. L'uomo in nero rientrò, con calma.
"Bastardo di un muso rosso, mi ha fatto sprecare una pallottola". Poi comandò da bere.
Dopo aver scolato tre bicchieri di whisky, uno dietro l'altro, il fuorilegge rivolse la sua attenzione ai mandriani. E in particolare a uno di loro, l'unico negro.
"Ehi! Faccia di carbone! Si può sapere da dove arrivi?"
"Noi arriviamo dal Montana, ma io sono nato in Alabama" rispose il ragazzo.
"E voi vi siete portati dietro questo muso nero per centinaia di miglia?" domandò il fuorilegge ai vaqueros. Nessuno di loro rispose. Tutti finsero di non conoscere il negro.
"Allora, da dove arrivi? Guarda che è l'ultima volta che te lo chiedo".
"L'ho detto. Arrivo dal Montana, ma sono nato nel sud".
Il fuorilegge lo squadrò per bene, poi sputò a terra.
"Secondo me arrivi dall'Africa" disse.
"I miei antenati arrivarono dall'Africa" disse il ragazzo, a bassa voce.
"In che modo?" lo incalzò il fuorilegge.
"Sulla nave" rispose l'altro.
"Lo sapevo! Sono arrivati con i barconi! E tu sei come loro, uno sporco clandestino!"
"Io non sono clandestino!" gridò il giovane negro.
"Dov'è il permesso di soggiorno?"
"Eh? Quale permesso di soggiorno?"
"Eh, tu!" disse il fuorilegge, rivolgendosi a un uomo grande e grosso, il maniscalco del paese, che stava giocando a carte.
"Aiutami a impiccare questo sacco di merda!"
Il maniscalco, riluttante, si alzò dal tavolo. Aveva in mano un tris d'assi e rischiava di non poterlo sfruttare. Dannata sfiga!
Il bandito e il ferracavalli trascinarono fuori il negro, che sembrava non avere nessuna voglia di finire appeso. Nemmeno uno dei presenti mosse un dito. Quell'uomo vestito di nero era piuttosto cattivo e di sicuro pure veloce di mano.
Tutto si risolse in poco più di dieci minuti. Poi il fuorilegge riprese a bere e il maniscalco continuò la sua partita a carte. Il tris d'assi tuttavia era andato.
All'improvviso gli sguardi di tutti furono attirati da una giovane donna che si era affacciata alla balaustra in cima alle scale che portavano al piano superiore del saloon, dove c'erano le stanze. La donna, piuttosto graziosa anche se un po' troppo imbellettata, fissava i bevitori e sorrideva.
"Chi è quella?" mi domandò il fuorilegge.
"È la nuova puttana" risposi. "Non male, vero?"
"Costa due dollari" disse un vecchio.
"Due dollari? Cos'è? Ce l'ha d'oro?" Poi il bandito imboccò di corsa le scale, raggiunse la donna e cominciò a prenderla a schiaffoni. Quindi ridiscese. La poveretta aveva entrambi gli occhi neri, e non per il trucco, e perdeva sangue dal naso.
"Così la prossima volta non riderai più. E adesso sparisci altrimenti ritorno e ti concio davvero per le feste!" La donna, piangente, scappò nella sua stanza.
"Due dollari! Puah!" Il fuorilegge sputò e lo scaracchio atterrò proprio sulla punta dello stivale di Johnny Ford, il becchino.
"Ci sarebbe davvero bisogno di un tipo energico come te" disse il buon Johnny, facendo finta di nulla. "Perché non fai lo sceriffo?" aggiunse.
"Paparino, se non lo hai ancora capito io sto sull'altra sponda" disse il fuorilegge, e proprio mentre lo stava dicendo entrò lo sceriffo. Stava imprecando.
"Ma porca puttana! Quante volte ve lo devo dire di non lasciare i cadaveri per strada? Chi è che ha fatto secco quell'indiano? Vada subito a pulire! È inutile che vi lamentiate sempre che la città è sporca se poi non collaborate! Ma porca zozza!"
"Calma, sceriffo. Il muso rosso l'ho seccato io. Stava taglieggiando degli onesti cowboy. Adesso provvedo". Il fuorilegge fece un cenno al maniscalco che, sbuffando, si alzò dal tavolo. Aveva in mano una scala reale ma sarebbe andata persa. Non era proprio giornata.
"Vai a seppellire il pellerossa. Già che ci sei butta nella fossa pure il negro" ordinò il fuorilegge.
"Quale negro?" domandò lo sceriffo, stupito.
"Quello appeso alla trave del granaio" spiegò il bandito.
"Merda! Non l'ho visto. Sto proprio invecchiando. La prossima volta non mi presento alle elezioni".
Estrassi l'orologio dal taschino. La mia pausa-caffè, come amavo chiamarla, era finita. Mi toccava ritornare al lavoro, all'ufficio postale. Un lavoro noioso, come noioso era tutto il resto. Altro che selvaggio west, in questo postaccio non accadeva mai nulla.


giovedì 26 dicembre 2019

COMING OUT



Mia sorella, qualche giorno fa, ha fatto coming out. Mi ha confessato che le piacciono le donne.
"Sei sicura?" le ho domandato. Ero un po' in imbarazzo e non sapevo che cosa dire. Lei mi ha guardato brutto, ma davvero brutto, e non ha detto niente.
"Lo hai già detto a mamma?" ho chiesto, dopo un lungo silenzio.
"No, ma adesso glielo dico". E così ha fatto, quel giorno stesso.
Ho poi saputo che nostra madre, dapprima, si è come pietrificata, ed è diventata tutta grigia in faccia. Ma poi si è ripresa e, dopo aver esaminato mia sorella dalla testa a i piedi per un minuto buono, per essere sicura che oltre a quello appena appreso non esistessero altri difetti nascosti dei quali non si era mai accorta, ha detto che l'importante era volersi bene, e che per lei non cambiava niente. Più tardi è andata a messa.
Noi viviamo in un piccolo paese, e tutti sanno tutto. Mia sorella, tra l'altro, ha quasi venticinque anni e non ha mai avuto un fidanzato. In non ci avevo mai fatto caso, ma pare che qualcuno avesse iniziato a mormorare. Io sono più giovane, ma pure io non ho mai avuto un ragazzo. Tempo qualche mese e cominceranno pure a mormorare su di me. Devo darmi da fare, ma non è così semplice.
"Come farai a trovare una fidanzata?" ho chiesto a mia sorella.
Lei non ha risposto, ha soltanto fatto una brutta smorfia con la bocca, accompagnata da un gesto ancora più brutto rivolto a me.
Pensavo: l'unica maniera per farsi un fidanzato (o una fidanzata per quelle come mia sorella) qui in paese è quella di frequentare la messa, oppure di partecipare agli esercizi spirituali in parrocchia, o ancora di andare alle proiezioni di film nel salone dell'oratorio. Nient'altro.
"E a papà, lo hai detto a papà?" ho domandato a mia sorella. Lei mi ha guardato come a dire: "Ma sei scema?".
"Ha detto mamma che glielo dirà lei" ha risposto alla fine.
"Quando?"
"Non lo so. Appena troverà il momento buono".
"Mentre saranno nel letto? È l'unica occasione in cui nostro padre sta tranquillo".
"Perché non stai un po' zitta?"
Chissà se la mia vita cambierà quando tutto il paese saprà che a mia sorella piacciono le donne. Perché prima o poi accadrà. Per me sarà dura, ma le cose saranno difficili soprattutto per lei. Forse sarà costretta a emigrare, ad andare in una grande città, dove non ci si conosce neppure tra vicini di pianerottolo, dove ognuno si fa gli affari propri. E speriamo che nostro padre la prenda bene, mia sorella è sempre stata la sua figlia preferita. Per lui sarà un brutto colpo, speriamo non siano brutti colpi sulla schiena anche per mia sorella...
Da quando ho saputo quella cosa (che a me in realtà non ha fatto né caldo né freddo) mi domando se pure a me non piacciano le donne. Devo dire che per tanti motivi le apprezzo molto: sono più gentili ed educate, si vestono meglio degli uomini, sono più curate e soprattutto non puzzano. Tuttavia non mi sento attratta da loro. In quel senso, ecco. In quel senso preferisco di più i ragazzi. Quelli del paese mi piacciono quasi tutti. Anzi, togliamo pure il quasi. E poi mi piacciono anche i cantanti e gli attori. Tutti.


mercoledì 25 dicembre 2019

LA CAVERNA



Il giorno prima era venuto un grosso camion e aveva scaricato il mucchio di sabbia proprio in mezzo al cortile. Il bambino lo guardava, estasiato.
"Ci posso giocare?" domandò al padre, anche lui intento ad ammirare il cumulo.
L'uomo alzò le spalle.
"Finché c'è" rispose, poi si allontanò. Era un tipo di poche parole.
La sabbia era ancora umida, e quindi modellabile. Il bambino progettò di costruire un castello, come aveva visto fare in televisione, ma si rese conto di non esserne capace. E poi quella sabbia era grigia, scura, non dorata come quella delle spiagge, come quella del mare, che lui non aveva mai visto.
Pensò allora di tracciare una strada. E lo fece, tutto attorno all'accumulo, usando un'assicella. Era una strada di montagna, stretta e tortuosa, e la fece percorrere più volte, su e giù, dal suo camioncino di plastica. Dopo un po' si stufò. Spianò ciò che aveva fatto e disegnò sulla sabbia una pista per le bilie. Le piccole sfere di vetro però scorrevano con difficoltà, si bloccavano. Quel gioco non era affatto divertente. Rinunciò. Utilizzando la mano come fosse una pala meccanica scavò una profonda caverna nella sabbia. Un'autentica grotta, dove avrebbe potuto riporre un tesoro. Con un po' di fatica riuscì a slacciare il minuscolo braccialetto d'oro che portava al polso e lo posò all'interno della caverna di sabbia. Sarebbe stato al sicuro? Oppure qualcuno avrebbe potuto rubarlo?
"È ora di cenare! Sbrigati!" La voce impetuosa e imperiosa di sua madre. Non potendo più indugiare, il bambino afferrò un minuscolo soldatino di plastica e lo sistemò all'imboccatura della caverna.
"Mi raccomando, fai buona guardia" disse il bambino, poi se ne andò, di corsa.
Al soldatino quella missione non piaceva per nulla. Gli ricordava troppo quella del suo sergente, avvenuta da poco. Il disgraziato era stato messa di guardia sopra un davanzale esterno, proprio da quello stesso bambino. Durante la notte il vento l'aveva scaraventato nel cortile. La sua presenza non era sfuggita al grosso cane, che lo aveva catturato e masticato orrendamente. Il giorno dopo avevano visto tutti il corpo, o almeno quel che ne restava, del povero sergente, abbandonato tra la ghiaia. Il bambino non aveva battuto ciglio. E adesso toccava a lui, anche se quello non era di sicuro un lavoro per un ufficiale. Fare la guardia a una caverna di sabbia era compito di un soldato semplice, ma quel bambino ignorava del tutto la gerarchia militare. Per lui ogni soldatino era uguale all'altro. Il tenente si sistemò meglio il fucile in spalla e si preparò per la notte.
Il mattino dopo il  bambino non si ricordò più né del braccialetto né del soldatino. Trascorse tutta la giornata scorrazzando in bicicletta e giocando a guardie e ladri con un amichetto. L'implacabile sole estivo asciugò la sabbia e la caverna crollò, seppellendo per sempre il povero tenente. Qualche tempo dopo il padre del bambino, dovendo costruire un muretto, iniziò a smantellare il mucchio di sabbia e trovò il braccialetto d'oro. Il corpo del soldatino, invece, non fu mai più ritrovato. Ancora oggi, forse, si trova dentro il muretto.


lunedì 23 dicembre 2019

INVASIONE



Li vedeva in strada, sui marciapiedi, sotto i portici. Dapprima isolati, poi a gruppi di due o tre. A volte invece erano ancora più numerosi e spesso tutti allineati, come in formazione militare. Da subito ne ebbe paura. Temeva soprattutto quelli isolati, quelli che intralciavano il suo cammino, quelli che la costringevano, suo malgrado, a cedere il passo. Eppure lei abitava in città da oltre mezzo secolo, mentre loro erano arrivati da poco. Erano arrivati all'improvviso, chissà da dove e in quale modo. In ogni caso qualcuno doveva averli aiutati, qualcuno di sicuro aveva favorito il loro arrivo. Trafficanti, si diceva, mentre altri addirittura sussurravano che la colpa era del sindaco, che non aveva fatto nulla per fermarli. Anzi, aveva fatto di tutto per averli in città. Loro sembravano tutti uguali, ma non era così. Lei li vedeva in quel modo, ma in realtà c'erano delle differenze. Minime, ma c'erano. Qualcuno di loro era più alto, altri erano più tozzi, e pure i loro colori erano diversi. All'inizio alcuni cittadini davano loro dei soldi. Poi smisero, perché la cosa non aveva più alcun senso. Li temeva soprattutto di notte, quando la città era deserta. Quelle sagome sottili che si trovavano dappertutto suscitavano inquietudine e timore, perché ormai erano in troppi, e in ogni caso la gente, quando faceva buio, preferiva rimanere chiusa in casa. La mattina, tuttavia, quando usciva per recarsi al lavoro, erano loro a darle un tetro benvenuto non appena metteva i piedi fuori dall'androne. E se fossero entrati nel palazzo? Sapeva che prima o dopo sarebbe accaduto. Occorreva fare qualcosa, bisognava mandarli via, finché si era ancora in tempo. Ancora poco e sarebbe stato troppo tardi. Quell'invasione, perché si trattava ormai di una autentica invasione, doveva essere fronteggiata in qualche modo. Lei si chiedeva quando tutti avrebbero finalmente reagito, quando tutti si fossero resi conto del grave pericolo che stavano correndo. Il rischio, per lei e per tutti gli altri cittadini, un azzardo ormai prossimo, ben concreto, era quello di non potere più essere padroni nella loro città, nelle loro case, e di soccombere agli invasori, quegli invasori sempre più temibili: i monopattini elettrici.

domenica 1 dicembre 2019

IL DONO



Mario mi invita a salire sulla sua vecchia auto. Mi piace andare in macchina, allora accolgo con gioia il suo invito e balzo sul sedile anteriore e mi siedo. Partiamo, e lui non dice una sola parola. È teso, concentrato sulla guida. Fa molto caldo, per fortuna i finestrini sono abbassati e all’interno dell’abitacolo penetra un po’ d’aria fresca. Percorriamo una strada che non conosco. Dopo un po’ imbocchiamo una via grande, a più carreggiate, che prima d’ora non avevo mai visto. Ci sono tante altre auto, molti camion, e Mario guida veloce. All’inizio ho paura, il vento mi sferza il naso, ma poi mi rilasso. Dopo più di mezz’ora l’autovettura rallenta e poi si arresta in un ampio spiazzo. Intorno a noi c’è molta confusione, anche se da un piccolo edificio che sembra molto affollato proviene un buon odore di cibo, misto però a vapori di benzina. Per me è tutto nuovo, non sono mai stato prima in questo posto. Mario scende lasciando la portiera aperta e, quando vedo che si accende una sigaretta, esco anch’io. So di avere almeno cinque minuti di tempo, conosco molto bene le sue abitudini, e allora inizio a gironzolare un po’. Mi domando ancora una volta dove siamo diretti, ma poi non ci penso più e mi concentro su ciò che mi circonda. L’ambiente è interessante, tuttavia ho molto caldo, e soprattutto tanta sete, quindi dopo un paio di minuti decido di tornare verso l’auto. La macchina, però, non c’è più. Disorientato, attonito, spaventato, guardo verso la strada trafficata, e intravedo la sua, la nostra, automobile che si sta allontanando. Vorrei correre, come so fare molto bene, e inseguirla, farmi sentire, ma non ci riesco. I miei muscoli sono come di pietra, una sensazione di freddo invade il mio corpo. Non mi muovo, disperato. Poi una mano mi tocca e mi fa sussultare. Una ragazza, dai lunghi capelli neri, che ha assistito a tutta la scena, mi incita a salire sulla sua auto. Subito oppongo resistenza, cerco di stare incollato a terra, mi rifiuto con tutte le mie forze. Poi cedo all’improvviso, rassegnato. Sono confuso, privo di energia e di volontà. Cedo. Non mi è mai accaduta prima d’ora una cosa del genere, non sono mai stato solo, e non so come affrontare una tale tremenda situazione. La ragazza si avvia nella stessa direzione di Mario. All’interno della macchina c’è un odore nuovo per me, diverso dal solito, dolce ma gradevole. Non so che cosa fare, non so come comportarmi, non riesco a controllare il tremito di paura che mi sta assalendo. Chiudo gli occhi, e li riapro soltanto quando ci fermiamo. Con mia grande meraviglia, vedo che siamo nel cortile di casa mia. In fondo c’è Mario, che sta trafficando con la porta del garage. La ragazza scende, con piglio deciso, e va verso di lui. Sembra molto arrabbiata, lo capisco dall’odore penetrante del suo sudore. Il mio sesto senso mi dice che non devo uscire, anche perché vedo negli occhi di Mario una luce strana, insolita, che mi fa paura. Mentre discute in maniera animata con la ragazza, i suoi lineamenti sono stravolti, accompagna le sue parole con gesti vivaci, ma a me non sfugge il pallore del suo volto. Riesco a carpire alcuni frammenti di conversazione. La ragazza lo accusa di qualcosa, ne sono certo. Immobile, punta il dito indice contro di lui e pronuncia parole come bastardo, vergognati, delinquente. Non so quale sia esattamente il loro significato, ma di sicuro sono termini brutti. Lui scuote il capo, in un atteggiamento difensivo che non riconosco e continua a ripetere: “Si sbaglia, non è mio. Non è mio! Se ne vada!” Non sembra più lui, è come se si fosse trasformato in un’altra persona. Non l’avevo mai visto così. Oppure, rifletto, qualcosa mi ha sempre impedito di vederlo? Il mio amore per lui, ad esempio? In ogni caso, io non scendo.
Le mie amare considerazioni sono interrotte di colpo. La ragazza sta tornando. Prima di salire in macchina, si volta ancora una volta in direzione di Mario.
“Grazie per il dono!” grida. Lui abbassa il capo.
Lei, ancora furiosa, mette in moto e riparte sgommando. Dopo un po’ si volta verso di me. Non sembra più adirata. Sorride, stacca una mano dal volante e comincia ad accarezzarmi. Io la guardo. Comprendo che per me sta per cambiare tutto e che dovrò abituarmi a tante cose nuove. Soltanto una cosa rimarrà uguale: continuerò a dispensare amore, affetto, attaccamento e riconoscenza. Non posso farne a meno.
Adesso non ho più paura.
Appoggio il muso sulla sua coscia e memorizzo bene il suo odore.



domenica 27 ottobre 2019

LA LIBRAIA


Capitai in quel piccolo paese quasi per caso. Da giorni stavo vagabondando lungo la costa, ero stanco del rumore e della confusione, allora decisi di spostarmi verso l’interno, alla ricerca di una maggiore tranquillità. Scelsi una direzione qualsiasi, guidai per circa un’ora e infine mi fermai in quella graziosa località, accolto da pace, silenzio e fiori multicolori appena sbocciati posti in tutti gli angoli dell’abitato. Consultai la guida turistica, alla ricerca di notizie e di una sistemazione per la notte. Poi scesi dall’auto. Avevo parcheggiato sulla piazza principale e, appena mi avviai, notai con sorpresa che tutti i negozi presenti sull’ampio spiazzo trattavano le stesso articolo: libri e fumenti usati. Anche le numerose bancarelle presenti esponevano soltanto libri. Piacevolmente compiaciuto – perché io adoro i libri – mi diressi verso il negozio più vicino, intenzionato a esplorarlo con attenzione, per poi passare al successivo.
“Ciao.”  
Mi voltai. A parlare era stata una ragazza. Minuta, bionda e graziosa. Indossava una maglietta bianca e una corta gonna di jeans. Ai piedi portava dei sandali con il tacco alto. Notai le sue gambe abbronzate.
Prima ancora che potessi rispondere al saluto, lei mi strinse la mano.
“Mi chiamo Natalie” disse con voce profonda, quasi roca, che mi sembrò inadatta a quel corpo minuscolo, ma che trovai molto sensuale.
“Giorgio” risposi.
Sempre tenendo la mia mano nella sua, lei appoggiò l’altra mano sulla mia nuca afferrando dolcemente i miei capelli tra le dita.
Sorpreso da quell’atteggiamento che considerai troppo confidenziale tra sconosciuti, non ebbi alcuna reazione. La ragazza mi accarezzò a lungo i capelli, mentre io continuavo a rimanere immobile. Poi si staccò.
“Ti piacciono i libri?” domandò, con quella voce che produceva in me piacevoli brividi.
“Sì, molto”.
“Vieni con me, ti porto nel posto migliore” disse, suadente.
Accennai di sì con il capo. Lei mi prese per mano e mi trascinò via dalla piazza, e mi guidò attraverso vie strette e sinuose, piccole e ripide scalinate, vicoli coperti, finché arrivammo a una bottega posta in un piccolo slargo di forma circolare. Vidi che di fronte a quel negozio ce n’era un altro, quasi uguale. Lei me lo indicò.
“Lo vedi quello? Non devi andarci. Mai. Me lo prometti?”
Imbambolato, risposi nuovamente di sì. Ero come soggiogato da quella ragazzina che di sicuro aveva meno della metà dei miei anni. Lei mi afferrò le braccia.
“Ascolta, adesso io devo andare, ma mi piacerebbe rivederti. Ti va?”
“Certo, perché no?” risposi, sempre in stato confusionale.
“Bene. Stasera, alle otto, vicino alla tua macchina.”
“D’accordo, ci sarò”.
La ragazza, che fino a quel momento aveva sempre mantenuto un’espressione seria, finalmente sorrise. Poi si sollevò sulla punta dei piedi e appoggiò le sue labbra sulle mie, in un rapido bacio. Quindi si voltò e si allontanò a passo veloce. Rimasi per un attimo ad ascoltare il suono dei suoi sandali sull’acciottolato irregolare del vicolo, ancora turbato. Alla fine mi ripresi ed entrai nel negozio che lei mi aveva indicato.
Il locale era molto buio e polveroso. Dietro a un enorme bancone di legno sedeva un vecchio che pareva assopito. Invece, al mio ingresso, schiuse gli occhi e, con un gesto plateale del braccio, mi invitò a esaminare la sua merce. Gli scaffali traboccavano di libri di tutti i generi, i piani piegati dal peso dei volumi. Notai edizioni rare di alcuni romanzi, che stavo cercando da molto tempo. Iniziai a frugare, in maniera frenetica, tra le pile di testi ammassati ovunque, tanto che per un po’ scordai la strana ragazza che mi aveva accompagnato in quel posto magico. Dopo un paio d’ore di fruttuose ricerche, avevo ammucchiato sul bancone del negoziante una ventina di volumi. Le dita delle mie mani erano nere, impolverate, ma ero molto soddisfatto. Pagai – poco, per la verità – e dissi al vecchio che sarei passato a ritirare i libri la mattina dopo. Lui annuì con solennità. Durante tutto il tempo della mia permanenza in negozio, non aveva pronunciato una sola parola. Né erano entrati altri clienti.
Uscii, e fui quasi abbagliato dalla luce del sole. Mi fermai, e notai che mi trovavo proprio di fronte all’altra bottega, quella che la ragazza bionda mi aveva pregato di non visitare. Quale poteva esserne il motivo? Ormai mi sentivo liberato dalla strana suggestione che aveva esercitato su di me, allora decisi di non rispettare la promessa. Tanto, pensai, lei non l’avrebbe mai saputo.
Risoluto, entrai nel negozio. Era completamento diverso dal precedente. Pulito, ordinato, luminoso. I libri erano sistemati sui ripiani in perfetto ordine, nulla era fuori posto. Tuttavia, nonostante il mio impegno nella ricerca, non trovai nulla di interessante.
“Posso essere utile?” disse una voce di donna. Si trattava della proprietaria che, entrando, non avevo quasi notato. Adesso la osservai meglio. Era di mezz’età, con i capelli biondi tagliati corti, gli occhi espressivi e un fisico ancora gradevole. Le gambe, generosamente esibite, erano molto abbronzate.
“No, grazie. Ho già visto ciò che mi poteva interessare” risposi. Però continuai a fissarla, il suo sguardo magnetico mi aveva catturato.
“Ha conosciuto mia figlia?” disse, tranquilla.
Sobbalzai.
“Come?”
“Eravate insieme. Prima, intendo. Vi ho visto.”
“Non sapevo che Natalie fosse sua figlia.”
“Non poteva saperlo”.
“No.”
“Le ha detto di non entrare qui, vero?”
“Sì, è vero. Come lo sa?”
Lei scrollò le spalle.
“Lo dice a tutti.”
“A tutti chi?”
“A tutti gli uomini, tutti quelli che abborda. Lo fa di continuo, quasi nessun turista riesce a sottrarsi al suo fascino. Pensi, neppure quelli accompagnati dalle mogli.”
Le sfuggì un risolino, poi ridivenne all’improvviso seria.
“Non capisco…” dissi. Ero imbarazzato.
“È malata, molto malata” spiegò. Il tono della sua voce divenne sempre più profondo.
“Natalie?” esclamai, in maniera stupida.
“Sì, e ormai avrà capito di che malattia si tratta. Lei però è stato più determinato di altri, non le ha obbedito”.
“No, sono una persona curiosa e che odia i divieti. Comunque, abbiamo un appuntamento per stasera.”
“Già, alle otto. Dove? In fondo al viale centrale oppure vicino alla sua macchina?”
Arrossii leggermente.
“Ci andrà?” aggiunse la donna.
“No, non ci andrò. Adesso capisco perché Natalie non vuole che nessuno parli con lei.”
“La ringrazio” disse lei. Poi uscì da dietro al bancone e mi si avvicinò.
“Grazie” ribadì, con voce sempre più roca.
Mi porse la mano destra, appoggiò l’altra sulla mia nuca, e iniziò ad accarezzarmi i capelli...

sabato 21 settembre 2019

SECONDA VOLTA



Era tutto come l'altra volta.
La piccola località montana, mio luogo di vacanza da tanti anni, era gremita di gente. Quel giorno c'era la festa del paese. In piazza c'erano numerose bancarelle di prodotti tipici, soprattutto alimentari, come pane, salumi e formaggi. Su un lato era stato allestito un ballo a palchetto, dall'altra parte erano state disposte alcune file di sedie: stava per iniziare il concerto del coro degli alpini.
Proprio come l'altra volta.
Mi avvicinai a una panca dove era seduta una ragazza. L'avevo riconosciuta. Antonella portava gli occhiali, e tutto in lei era sottile: i tratti del viso, i capelli, l'intero corpo. Ogni estate mi innamoravo di lei, poi la dimenticavo. L'anno successivo, appena la rivedevo, qualcosa scattava dentro di me, e riprendevo a desiderarla. E così accadde anche quell'anno ma, soprattutto, anche quella volta.
"Ciao Antonella, ti ricordi di me?"
"Oh, certamente. Come stai? Perché non mi hai mai telefonato? L'avevi promesso."
Antonella era una ragazza che non amava i giri di parole. Nelle sue espressioni era netta, decisa.
"Ti chiedo scusa" risposi, un po' mortificato.
"Sei un vero balordo" disse sorridendo. Poi prese la mia mano tra le sue. Antonella non serbava mai rancore.
"Ehi! Le tue mani sono caldissime. Scottano!"
"E sono anche morbide?"
"Morbidissime!"
"Sei un gran bugiardo. Guarda" disse, indicando la spalla nuda.
"Che cos'è?" domandai.
"Scemo. Non vedi? Un tatuaggio".
"Oh! Bello! Che cosa c'è scritto? Il mio nome?"
"No, il mio" rispose lei.
"Il tuo? Fammi vedere."
Guardai, le accarezzai la spalla. Lei lasciò fare.
"Nessuno ti chiederà più come ti chiami" commentai.
"Perché? Pochi sanno che quello è il mio nome. Potrebbe essere quella della mia amata..."
"Vero" risposi, un po' rabbuiato. Senza conoscerne la ragione.
"Vuoi ballare?" domandò all'improvviso. In lontananza i musici stavano suonando gli ultimi pezzi, in attesa del coro.
"No" risposi. Poi notai che le dita della mia mano destra erano macchiate di nero.
"Devo andarmi a lavare" dissi.
"È il mio tatuaggio" disse lei, sogghignando.
"Che cosa?"
"L'avevo appena fatto. Sai, non è di quelli che durano..." poi scoppiò a ridere. Accidenti, come mi piaceva quella sua risata squillante.
"Torno subito" dissi. Non scappare.
"Chissà..." disse Antonella, passandosi la lingua sulle labbra... sottili.
Mi diressi verso l'osteria, alla ricerca dei servizi.
Come l'altra volta.
Entrai nell'antibagno e vidi che c'era una persona, accovacciata accanto al lavandino. Stava trafficando con una presa elettrica, che in parte aveva smontato. Quando si voltò la riconobbi.
"Viviana!"
"Ciao" rispose lei con una voce strana. Tra le labbra aveva una vite.
"Quando sei arrivata?"
"Ieri sera".
Viviana era l'altro mio grande platonico amore. La conoscevo da tanto tempo, eravamo amici, forse anche qualcosa di più, ma un vero e proprio rapporto sentimentale tra noi non era mai decollato. Probabilmente perché mi piaceva troppo, cercavo di giustificarmi (o forse perché io non le piacevo abbastanza).
"Ehi, fai attenzione con quei fili" dissi.
"Stai zitto. Lo sai che sono laureata in ingegneria, vero?"
"Sì, ma non da molto. E poi fare l'elettricista è un'altra cosa".
Viviana, più di ogni altra cosa, amava studiare.
"Uomo di poca fede" disse risistemando la presa e accendendo la luce. "Funziona".
"Brava. Allora ne approfitto per lavarmi le mani".
"Dopo vieni con me ad ascoltare il coro?"
"D'accordo. Fuori c'è anche Antonella che aspetta" dissi.
"Antonella? E chi è?" domandò Viviana, di colpo scura in viso.
Merda! Non doveva andare così. L'altra volta le due ragazze si conoscevano! Erano ottime amiche. E adesso? Adesso ero disorientato. A tutti dovrebbe essere consentito di rivivere un episodio della propria vita, e a me assurdamente stava capitando. Ma i fatti dovrebbero svolgersi esattamente come la volta precedente, affinché il ricordo possa essere rinnovato. E nient'altro.
Mi asciugai le mani. Viviana adesso era in piedi, e accanto a lei si era materializzata Antonella. Le due si guardavano in cagnesco. Sembrava si odiassero, che fossero nemiche. Rivali!
"Devi scegliere" disse Antonella.
"Subito" ribadì Viviana.
"Scegliere?" dissi.
"Tra noi due, adesso".
"Ma io non posso scegliere così, su due piedi. Lo sapete, mi piacete entrambe, e ho bisogno di tempo per riflettere."
"Riflettere?" dissero le due ragazze, quasi in coro, con tono sprezzante. "Questa è la seconda volta, e tu in realtà sei vecchio, e hai avuto tutta la vita per riflettere!"
Poi mi sputarono addosso.

sabato 17 agosto 2019

LA VERSIONE DEL TORO


Il mio nome è Guglielmo, oppure Mino, come mi chiamava mia madre quando ero piccolo, quando ancora non mi erano spuntate le corna. Di cognome faccio Tauro, perché mio padre è un toro, un enorme toro da monta con il mantello bianco. Il mio patrigno, il crudele marito di mia madre, è cornuto pur senza essere un toro, ed è un re. È lui che mi ha rinchiuso qui dentro e che mi ha sottratto per sempre all'affetto della donna che mi ha generato, che io continuo ad amare al di là delle sue singolari e discutibili preferenze sessuali. Il mio vero padre, il toro bianco, non si è mai occupato di me.
Vivo da solo, in una enorme casa con centinaia di stanze, un vero labirinto. Se decido di andare in soggiorno (uno dei tanti) vago per ore finché mi ritrovo in camera da letto (una delle tante) e ciò mi addolora e mi deprime. Il vero problema è quando ho necessità di utilizzare il bagno (uno dei tanti). Finché si tratta di provvedere a un bisogno piccolo, in qualche modo me la cavo, perché i corridoi sono tanti e interminabili. Ma se il bisogno è di quelli grandi e urgenti ci potete scommettere che la stanza da bagno (una delle tante) risulta introvabile e quasi sempre finisce che me la faccio addosso.
Di me dicono che sono selvaggio e violento, che mi nutro di carne umana. Assolutamente falso. Mi sono inselvatichito a causa della solitudine. Se avessi la possibilità di frequentare amici, andare al cinema e a teatro, viaggiare, sarei l'essere più buono del mondo. Le uniche persone che vedo, ogni tanto, sono purtroppo anche il mio cibo. E voi, voi che state a criticare, che cosa fareste al mio posto? Morireste di fame? In realtà io odio cibarmi di carne, di sola carne. Offrirei senza alcun rimpianto un trancio di tenera fanciulla ateniese in cambio di una bella insalata fresca. O di una mela.
È da tanto tempo, ormai, che trascorro tutte le mie giornate in questa enorme casa senza uscita. Sono stanco, molto stanco. La prossima volta che incontrerò lungo questi corridoi senza fine l'ennesimo fanciullo con gli occhi sbarrati dal terrore, invece di massacrarlo e di trasformarlo in cibo lo lascerò vivere. A quel punto sarà lui a uccidere me, e io lo lascerò fare, perché morire è quello che voglio. E non mi importa se quel fanciullo un po' vanesio andrà a dire alla morosa (che magari lo aiuterà a ritrovare l'uscita grazie a un trucchetto da quattro soldi) e al mondo intero: "Ho ucciso il Minotauro!"
Io avrò finalmente trovato la pace, alla faccia sua e a quella degli déi!



sabato 10 agosto 2019

CONIGLIO BIANCO



La prima volta che lo vide aveva otto anni. Quel giorno si era svegliato presto, ben prima che sua madre, come faceva ogni giorno, venisse a scuoterlo per costringerlo ad alzarsi. Saltò giù dal letto, completamente desto, pregustando l’abbondante colazione, quando la sua attenzione fu attirata da qualcosa che si trovava a terra, vicino alla porta della stanza. Era un coniglio, un grosso coniglio bianco. Incredulo, si avvicinò con cautela, e anche con un po’ di timore, alla bestiola. Il coniglio era immobile, anche se respirava, e muoveva in maniera quasi impercettibile il naso. Lui non aveva mai visto prima un vero coniglio, dunque rimase a osservarlo per almeno un minuto, interessato e impaurito, con il piccolo cuore che aveva accelerato i battiti. Poi, all’improvviso, tornò alla realtà. Aggirò l’animale e si precipitò in cucina.
“Mamma! In camera c’è un coniglio!” urlò irrompendo nel piccolo ambiente.
“Eh? Che cosa dici? Perché sei già alzato?” disse la donna richiudendo il frigorifero.
“C’è un coniglio! Nella stanza!” ribadì il bambino. “Vai a vedere!” aggiunse, concitato.
“Che cosa stai dicendo? Stai sognando da sveglio? Perché non hai aspettato che ti venissi a chiamare?”
“Andiamo a vedere!” disse il ragazzino. Afferrò la mano della madre e la trascinò nella sua cameretta. Lei scosse il capo e lasciò fare. Entrarono nella stanza. Il coniglio non c’era più.
“Visto?” disse la donna. “Stavi ancora sognando”.
“Eppure c’era…” disse il bambino a voce bassa , quasi parlando a se stesso.
Chissà se il coniglio c’era o non c’era per davvero. Quel che è sicuro è che al termine di quella giornata iniziata in quello strano modo a non esserci più fu sua madre. Nel pomeriggio, mentre rientrava dopo avere fatto la spesa, un furgone la travolse e la uccise, proprio davanti casa. Il bambino, per ovvi motivi, non ripensò più al coniglio bianco per molto tempo.
Gli toccò farlo quasi vent’anni dopo. Quel giorno era uscito tardi dal lavoro. Le solite cose: il capo lo aveva pregato di fermarsi per ultimare un progetto urgente. Aveva acconsentito, nella segreta speranza che un giorno il suo impegno e la sua disponibilità sarebbero stati premiati con una promozione. Si era sposato da poco, da ancora meno era nato un figlio, e con la mogliettina aveva acquistato un appartamento gravato da un oneroso mutuo. Un aumento di stipendio sarebbe stato molto utile. Giunto nell’androne del palazzo, notò che in un angolo, sotto alle cassette della posta, c’era qualcosa. Si avvicinò ed ebbe un tuffo al cuore. Di nuovo il coniglio! La bestiola sembrava la stessa dell’altra volta. Stavolta non era più un bambino, e cercò di essere razionale. La volta scorsa, di certo, l’animale era stata una specie di visione scaturita dalla sua spiccata fantasia di fanciullo, adesso il coniglio invece era vero, probabilmente appartenente a qualche inquilino al quale era scappato. Stava per toccare la bestiola, che era rimasta immobile nonostante la sua presenza, quando si bloccò. Senza una ragione apparente. All’improvviso gli era tornato in mente che il giorno in cui aveva visto per la prima volta il grosso coniglio bianco era stato pure il giorno della morte di sua madre. Non badò più alla bestiola, e non prese neppure l’ascensore. Fece di corsa otto rampe di scale e irruppe come una furia nel suo appartamento.
“Marta! Marta! Ci sei?” urlò chiamando la moglie.
Sua moglie in effetti c’era, ma la povera Marta era appesa al gancio del lampadario del salotto, da molte ore ormai, a giudicare dal suo viso gonfio e dal colore bluastro. Da una stanza attigua si sentiva il pianto disperato di un bambino. Vai a sapere perché, la donna si era suicidata. Chissà, forse l’aveva fatto a causa del mutuo…
Non tentò di staccare la moglie dal lampadario (tanto era tardi) né chiamò la polizia, e neppure corse dal figlio, ma si precipitò all'opposto nell’androne, alla vana ricerca di un coniglio bianco che non c’era più.
E trascorsero altri vent’anni. La sua carriera era decollata eccome! Aveva continuato a impegnarsi molto a livello professionale per due principali ragioni: il lavoro lo obbligava a non pensare (non si era mai ripreso del tutto dopo la tragedia della moglie) e soprattutto dava la possibilità a suo figlio, quel povero orfano di madre, di vivere in piena agiatezza. Era diventato direttore generale di una grande filiale della società. Quel giorno uscì dal lussuoso ufficio per recarsi nell’ambiente open-space, dove operavano tutti i suoi numerosi collaboratori. Appena fu in mezzo alle scrivanie notò qualcosa di strano proprio in fondo al salone. Aguzzò gli occhi (avanzando d’età era diventato un po’ miope) e lo riconobbe. Era lui, era di nuovo lui, il maledetto coniglio bianco!
“Bastardo! Assassino!” urlò, poi iniziò a correre.
“Dice a me, dottore?” disse un timido impiegato, ma ormai il suo direttore aveva quasi raggiunto il coniglio. E questa volta non ebbe indugi. Sferrò alla bestiola un calcio potentissimo (ammaccandosi il piede, quella immonda bestiaccia, oltre che vera, era pure dura) che la scaraventò in aria. Appena il coniglio fu di nuovo a terra, il corpo sfatto, gli piombò addosso a piedi uniti, imponendogli tutti i suoi novanta chili di peso. Il coniglio esplose disperdendo frattaglie in tutto il salone. Lui immerse le mani in quei poveri resti sanguinolenti, poi strappò le orecchie alla bestia e iniziò a masticarle per poi sputarle subito dopo. Mentre si esibiva in tutto ciò non aveva mai smesso di imprecare, in quella che pareva essere una lingua sconosciuta tanto i suoni emessi erano gutturali e inarticolati.
Alla fine alcuni suoi collaboratori, tra quelli più forzuti e che non temevano provvedimenti disciplinari, riuscirono a bloccarlo. Furono chiamate le forze dell’ordine e soprattutto un’ambulanza. Il direttore aveva dato fuori di matto. In faccia gli era rimasto impresso un ghigno terrificante, dai bordi della bocca fuoriusciva bava sanguinolenta. Seduta a una scrivania una ragazza piangeva sommessamente, consolata da alcuni colleghi.
“Perché? Perché? Che cosa gli aveva fatto il povero Fuffy? Non lo volevo portare in ufficio, ma ci tenevo tanto a farvelo conoscere. Vero che era bravo? Era così tranquillo, non si muoveva quasi…” diceva tra le lacrime. “Oh! Il mio povero coniglietto bianco!”
Passarono altri vent’anni, tutti trascorsi in una struttura psichiatrica. Dopo l’assassinio del coniglio non era più tornato in quadro. La sua mente era precipitata per sempre in uno stato di confusione totale. Tutti i giorni si vantava di avere ucciso il coniglio bianco, e di avere così salvato suo figlio da una morte certa. Perché era lui che la maledetta bestia voleva, ne era sicuro, e se non lo avesse ammazzato se lo sarebbe preso, così come aveva già fatto prima con sua madre e dopo con sua moglie. Oh! Se fosse intervenuto in maniera decisa anche allora! Il fatto è che nella prima occasione era ancora un bambino e non aveva capito, e ciò era costato poi la vita alla cara Marta (fingendo di non sapere che quando lui aveva avvistato la bestia la mogliettina era un’appendice del lampadario da parecchie ore).
In ogni caso, ormai, tutte la sue giornate erano dedicate alla ricerca del coniglio bianco. Ispezionava con cura ogni posto della struttura in cui era ricoverato, ogni ripostiglio, ogni angolo più recondito. Era costantemente vigile. Se quella carogna fosse rispuntata da qualche parte, di sicuro non avrebbe di nuovo avuto scampo.


sabato 3 agosto 2019

TRICKY

Da quanto tempo? Tricky è con me da quasi un anno. No, non l'ho comprato, e neppure si tratta di un regalo. Avete presente quelle raccolte a punti, quelle dei supermercati? Ecco, l'ho avuto in quel modo. Quasi sempre riguardano piatti, posate, strofinacci o asciugamani. Insomma, roba per la casa. Stavolta invece no, con la raccolta si potevano avere... quelli come Tricky. Con pazienza ho collezionato i punti, spesa dopo spesa, e li ho appiccicati sull'apposita tesserina, finché non sono stati sufficienti per avere diritto al dono. Sapeste quanto ho faticato per incollare quei minuscoli quadratini adesivi in corrispondenza delle relative caselline. Quadratini, caselline, tutto troppo piccolo, mentre le mie mani sono enormi!
Tutto qua? Tutto così semplice? Affatto. Quel giorno, dopo avere pagato la spesa, mostro Tricky alla cassiera e le allungo la tesserina completa di punti.  Lei annuisce e dice: "Il contributo a carico del cliente è di cinque euro".
Boia falso! Allora non bastano i punti! Bisogna pure sganciare i dindi! C'è la fregatura!
La cassiera aspetta, io penso un attimo. Sono una persona ponderata, che preferisce prendere le sue decisioni dopo avere bene riflettuto.
Che fare? Che ci fosse un contributo da pagare non lo sapevo ma di sicuro era scritto da qualche parte. Scemo chi non legge! E poi non ho nessuna intenzione di fare brutta figura di fronte a una cassiera così graziosa, anche se il suo viso ha un qualcosa di duro che un po' mi fa paura.
Alla fine regolo i conti, ficco Tricky nella borsa, insieme alla spesa, e finalmente torno a casa.
Dove l'ho messo? In casa? In effetti non sapevo proprio dove metterlo. Non ne avevo mai avuti, in casa, di quelli come lui. E poi la mia abitazione è molto piccola, mentre io sono molto grosso. Comunque, di metterlo in cucina proprio non se ne parlava, non c'era uno spazio libero. In bagno non mi sembrava cosa, dunque non rimaneva che la stanza da letto. Ci vado a dare un'occhiata e vedo che l'unico posto possibile è su uno dei due comodini. Lo lascio lì, così mi terrà compagnia la notte, penso, dal momento che dormo solo.
E da allora, da quel giorno, il buon Tricky ha vegliato sul mio sonno. E soprattutto lo ha fatto sui miei sogni.
Perché dico questo? Adesso lo spiego. Dovete sapere che durante tutta la mia vita ho sempre sofferto di incubi. Una notte la trascorro tranquilla mentre la successiva è costellata da sogni angosciosi. Sempre così, con incredibile regolarità. Da quando Tricky è con me tuttavia le cose sono cambiate. Anche se continuo ad avere quei terribili incubi, a giorni alterni, il mio amico impedisce che il sogno oppressivo abbia il suo completo svolgimento. Insomma, lo interrompe sul nascere.
In quale modo? Che razza di domanda! Lui interviene direttamente nel sogno! Se sto per cadere in un burrone lui mi trattiene e lo impedisce, se un treno sta per travolgermi lui mi scosta dai binari, se sto per schiantarmi con l'automobile contro un muro lui frena, e così via. Stanotte, per esempio, stavo sognando che un uomo mascherato e armato di coltello era penetrato nella mia camera da letto. Proprio mentre l'energumeno stava per aggredirmi, Tricky gli è balzato addosso. L'uomo è caduto e io ho ripreso a dormire. L'incubo è stato annullato, anche se stavolta c'è stato qualcosa di diverso rispetto a tutte le altre.
Stamattina, quando mi sono alzato da letto, sono inciampato. Sono incespicato perché ho messo il piede su qualcosa di morbido. Guardo bene e vedo che è un corpo, un corpo di un uomo. Il suo volto è mascherato, sulla sua gola scoperta vedo due grossi buchi, dai quali sembra essere fuoriuscito molto sangue, dal momento che lo scendiletto ne è completamente intriso. Nella mano l'uomo impugna ancora...
Come? Sto descrivendo l'uomo, il morto, che cosa c'entra che animale è Tricky? Il mio fedele amico è un pupazzo. Quale? Un tricheco, un tricheco con due lunghe zanne.

venerdì 21 giugno 2019

CAN CHE DORME



Ho dovuto aspettare che calassero le tenebre. Se fosse giorno, il mio tentativo non avrebbe alcuna possibilità di riuscita. Avvolto dal silenzio, e dall'oscurità più assoluta che un essere umano possa immaginare, mi incammino nell'ampio cortile. So che tra pochi metri, di fronte a me, troverò una recinzione: una rete sbilenca tutta arrugginita. Devo individuare la porticina, che so essere sempre aperta, ed entrare. Poi, dopo avere superato quello, dovrò uscire dalla parte opposta. Ecco, in questo consiste la mia semplice missione. Semplice soltanto in apparenza.
(Appunto. Se è semplice non farla tanto lunga. Se semplice invece non è, ammetti che te la stai facendo addosso per la fifa).
Apro la porticina e sono all'interno del recinto. Sotto i miei piedi sento sfrigolare la ghiaia. Cerco di camminare con ancora maggiore cautela. Non devo produrre il minimo rumore. Se lui mi sentisse e si svegliasse, sarei un uomo morto. In lontananza, sulla strada, una lampada diffonde un po' di chiarore. Finalmente vedo che cosa ho davanti: uno spiazzo circondato da alberi scuri, e in fondo c'è la cuccia.
(Sei impazzito? E quella sarebbe un cuccia? Ma l'hai vista bene? È alta quasi due metri! Immagina chi ci può essere dentro una casetta di tali dimensioni, e dopo che l'hai fatto... tanti auguri!).
Procedo un passo dopo l'altro, con estrema attenzione, quasi al rallentatore. Subito dietro la cuccia, quell'enorme cuccia, scorgo l'altra porta, quella dalla quale dovrò uscire, e che sarà, dovrà essere, aperta.
(Ti hanno detto che è aperta, e forse sarà così, ma se non lo fosse rimarresti intrappolato nel recinto in bella compagnia!)
Devo per forza passare davanti alla cuccia. Ecco, ci sono. Lancio un'occhiata all'apertura, una enorme bocca nera. All'interno intravedo una massa pelosa che pulsa seguendo un ritmo regolare. Mi fermo e ne resto quasi ipnotizzato. Sento puzza, non un normale odore di cane, ma un forte afrore, lo stesso puzzo che potrebbe esserci all'inferno.
(E ti stupisci pure? Muovi in fretta quelle cazzo di gambette o sei spacciato!)
Riprendo a muovermi e raggiungo l'altra porticina. Ce l'ho quasi fatta. Tra pochi istanti sarò in salvo e avrò fatto ciò che dovevo fare, ciò che doveva essere fatto. Metto la mano sulla maniglia, che scatta, ma la porta non si apre. Guardo meglio e noto la presenza di una grossa catena che la tiene chiusa. Questo non mi era stato detto. Il panico mi invade. Non posso tornare indietro, perché non si può, e non posso uscire. Le mie viscere si sciolgono, inizio a sudare in maniera copiosa. Poi perdo il controllo e inizio a scuotere violentemente la porta facendo un baccano del diavolo.
(Complimenti! E adesso? Adesso se si sveglia il tuo amico sono proprio cazzi tuoi!)
Sento qualcosa che si muove nella cuccia. Qualcuno. Unghie, grosse unghie che grattano sul fondo di legno della casetta. Poi quello si affaccia.
(Ti avevo avvisato, bello mio! E adesso non venirmi a dire che ti ritrovi di fronte un cane più alto di te, che ringhia e sbava e che non vede l'ora di saltarti addosso e sbranarti! Adesso è troppo tardi!)
Esce, e me lo trovo davanti. È più alto di me, ed è mostruoso. Mai vista una belva simile. Ha le labbra arricciate, i denti, lunghi come sciabole, sono completamente snudati. Dalla sua gola proviene un ringhio sommesso. E poi la bava, quanta bava! Rimaniamo per qualche secondo immobili, a guardarci negli occhi. I suoi sono rossi. Poi la bestia immonda scatta e, con un solo balzo, mi agguanta il torace con le fauci possenti e inizia a sbranare. E io inizio a tossire e tossire. Sollevo di scatto la testa dal cuscino e, seduto sul letto, continuo a tossire tossire tossire...
Mai svegliare il can che dorme.