Powered By Blogger

martedì 10 luglio 2018

SENZA CASA

Homeless. Mi è sempre piaciuto il suono di questa parola perché, tutto sommato, possiede una certa soavità, una specifica leggiadria. Non è come pronunciare termini quali barbone, emarginato oppure clochard. No, è tutta un’altra cosa, completamente diversa. Ricordo con piacere quando, appena ragazzo, mi immergevo nella lettura di quei romanzi americani dove spesso i protagonisti erano proprio loro, gli homeless. Fantasticavo a occhi aperti su quei simpatici vagabondi, sempre pieni di risorse, che si spostavano da un capo all’altro di quello sconfinato paese accucciandosi nello spazio tra le ruote dei treni, interminabili convogli trainati da sbuffanti locomotive a carbone. E quei tipi me li immaginavo scanzonati, sempre sorridenti, intenti a sgranocchiare con autentico gusto tozzi di pane nero e raffermo, nonché di continuo avvolti da spesse nubi di vapore. Figure romantiche, per me quasi leggendarie, intrise di una peculiare dolcezza, e alle quali non mancavano di certo sia il coraggio che un selvaggio spirito di avventura. L’unica loro brama, la sola aspirazione, era la libertà. L’affrancarsi, attraverso una scelta audace, tale da sfiorare l’insolenza, da legami, obblighi e limitazioni di tutti i generi, da imposizioni e costrizioni in grado di annientare la voglia di vivere di un essere umano. E allora partiva per loro la rincorsa verso una differente condizione, quella di uomo libero, un’ambizione che permetteva di rimuovere o almeno di attenuare la sofferenza e i patimenti, e quei treni che sfrecciavano attraverso le sconfinate pianure, che superavano i fragili ponti gettati con ardimento tra le rocce, che sostavano nelle vivaci e pittoresche cittadine, ne rappresentavano l’eloquente rappresentazione. Rapide fermate, con appena il tempo di sgranchire le gambe indolenzite dalla lunga immobilità, di stirare le braccia intorpidite, e di immergere il viso impolverato e annerito in un secchio d’acqua fresca. Oppure, a preferenza, ma sempre in nome dell’assoluta libertà, una pausa più lunga, forse un lavoro avventizio in qualche fattoria, per racimolare alcuni spiccioli da sperperare subito in una colossale bevuta, in un lauto e occasionale pasto, prima di riprendere quella folle e spensierata corsa senza lacci. Su un altro lungo treno, per scoprire altri posti, per conoscere nuova gente, e per rinnovare la meravigliosa emozione di essere completamente padroni di se stessi, di poter assumere qualsiasi decisione, immuni da influenze e dipendenze di ogni sorta.
Da allora, da quando mi smarrivo in quelle affascinanti visioni, provenienti direttamente dalle pagine ingiallite di quei libri imbevuti di intensa fragranza, di un aroma di antico, è trascorso molto tempo. È passata una vita intera. Un’esistenza che ho facilmente scordato, che ho rimosso quasi del tutto. Tuttavia, per cercare di rinnovare quei lontani e gradevoli ricordi, tutto ciò che è stato prima del nulla che è seguito, e che non desidero invece rammentare, qualche giorno fa sono andato alla stazione. La stazione di questa immensa e crudele città. Sono entrato, con un po’ di timore, benché noncurante degli sguardi curiosi e insensibili delle persone, dei frettolosi viaggiatori, ai quali sono avvezzo, e ho camminato a lungo sulla banchina, lentamente.
Adesso i treni non sono più come quelli di una volta, sono del tutto differenti. È quasi impossibile distinguere la locomotiva dai vagoni, perché tra loro sono uguali. Ed è inutile cercare il fumaiolo, poiché non c’é. I treni sono affusolati, quasi altezzosi, e sono verniciati con colori brillanti. Le loro lamiere sono fredde, ne sono quasi certo, anche se non ho osato toccarle.
A un certo punto mi sono accostato a un vagone, uno qualsiasi dei tanti, e mi sono disteso a terra, per vedere meglio. Tutti guardavano me, ma io ho seguitato a osservare ciò che realmente mi interessava. L’ho fatto con attenzione, per lungo tempo, finché un ferroviere non mi ha costretto a rialzarmi e ad andarmene. Ma ormai avevo visto tutto, ed è stata enorme la mia delusione, doloroso il mio disappunto. Mi ero reso conto che lo spazio non c’è più! È diventato impossibile, per un uomo, seppure intrepido, riuscire a sistemarsi sotto ai vagoni per farsi trasportare sulle ali di una libertà senza confini. Alla fine, pieno di amarezza, sono uscito dalla stazione, che stava diventando sempre più rumorosa e affollata. Fuori era già quasi buio, il freddo iniziava a mordere la mia carne stanca, ed io dovevo ancora trovare una sistemazione adatta per trascorrere la notte. Chissà se il mattino dopo mi sarei risvegliato?