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domenica 27 maggio 2018

PANE E FORMAGGIO


L’uomo socchiude l’uscio della sua misera abitazione e si affaccia. Sposta lo sguardo prima da un lato e poi dall’altro, come un animale timoroso di uscire dalla propria tana. Infine spalanca la porta ed esce. Si sistema la cintura dei pantaloni, si aggiusta una spallina della canottiera blu e si avvia verso il cortile. Lo oltrepassa e raggiunge la strada, la attraversa e si arresta al margine di un campo di grano. Le piante di frumento non ci sono più, sono state tagliate il giorno prima. Durante la notte, perché fa molto caldo, e il contadino e i suoi occasionali aiutanti hanno deciso di sfruttare le ore più fresche. L’operazione di mietitura è avvenuta sotto la luce della luna, e dei potenti fanali della trebbiatrice meccanica.
L’uomo impugna un piccolo coltello a serramanico, nell’altra mano ha del pane e del formaggio, la sua cena. Ma non inizia il pasto, bensì sta immobile e osserva. Contempla assorto. Non sappiamo che cosa stia pensando, quali pensieri gravi, tristi o faceti attraversino la sua mente. Oppure, se il suo distacco sia totale, se si trovi in una condizione di sospensione assoluta dalla realtà, o soltanto da ciò che lo circonda.
L’uomo ha le spalle molto abbronzate, quasi bruciate dall’impietoso sole estivo. Il suo viso, al contrario, ha una tonalità marrone, una tinta sporca e malsana. Spicca, in quel volto sconfitto, un appariscente naso rubizzo, che ne allieta in parte l’insieme e lo rende meno malinconico. I capelli, scuri e fissi, sono lisciati all’indietro sul capo e impregnati di una qualche sostanza unta.
L’uomo, all’improvviso, si riscuote. In un istante il suo corpo si rianima, riprende vita. Con gesti precisi e meccanici muove il coltello, affetta con precisione il pane e, subito dopo, stacca una scaglia di formaggio. Li porta insieme alla bocca. Dopo un po’ ripete la stessa azione. Coltello, pane, formaggio, bocca. Nel mentre aguzza lo sguardo, prima in direzione dell’orizzonte, poi più vicino, a pochi metri dai suoi piedi. Guarda con attenzione alcuni uccellini che si sono avvicinati, dapprima paurosi, poi sempre più sfacciati. Alcuni di loro zampettano sul campo, e becchettano con finta indifferenza i chicchi di grano che sono rimasti a terra. Altri ancora spasimano per un cibo più insolito, e per questo ancora più appetibile: le briciole di pane, che l’uomo dispensa loro con generosità.
L’uomo ha terminato il suo sobrio pasto, lo stesso di tutte le sere estive. Sfrega più volte il coltello sui pantaloni e lo pulisce, lo richiude e lo mette in tasca. Strofina poi le mani sulla canotta, prima di impugnare il grosso binocolo che porta appeso al collo. Senza staccare gli occhi dallo strumento, avanza nel campo, incurante delle stoppie che potrebbero farlo inciampare. Non sappiamo che cosa stia osservando attraverso quelle potenti lenti. Forse uccelli che si librano in cielo, oppure la scia di un aereo. Dopo pochi minuti l’uomo adagia il binocolo sul petto, si volta e torna verso casa. Dove troverà sua moglie, fiacca per il gran caldo e con i capelli in disordine, con addosso il vecchio grembiule a fiori. A casa dove, dopo aver bevuto due o tre bicchieri di vino, troverà il solito muto sguardo di rimprovero. Lo stesso di tutta una vita. E dove troverà, soprattutto, il sofà sfondato sul quale si appisolerà.     



sabato 12 maggio 2018

LAMA DI LUCE


Salgo sull’ascensore e lui è dietro di me e tace. Tre piani, sempre senza dire nulla. Poi, con le mani tremanti, cerco le chiavi e apro. Odore di chiuso. Perché stamattina, prima di uscire, non ho aperto le finestre? Lo faccio adesso, iniziando dal soggiorno. Subito entra aria, ma è rovente, da alcuni giorni fa molto caldo, un caldo umido e soffocante che mozza il respiro. Mi guardo attorno, smarrita, e quasi non mi sembra di essere a casa mia. È come se la mia vista fosse annebbiata. Non riesco a mettere bene a fuoco i mobili, gli oggetti, tutto.
Siediti, dico, io arrivo subito, e gli indico il divano. Lui si siede, rigido e impacciato.
Vado in bagno, mi lavo le mani, mi rinfresco il viso. Evito lo specchio, di proposito. Non posso rimanere qui dentro a lungo, devo uscire, lui aspetta e aspetta me.
Bevi qualcosa, domando, con scarsa convinzione. E infatti lui mi fa cenno di no, non voglio niente, sto bene così. Perché l’ho chiesto? So bene di non avere niente in casa, non ho mai niente perché non viene mai nessuno e io bevo soltanto acqua, quella del rubinetto che neppure mi piace. Che cosa avrei detto se lui avesse risposto di sì? Devo calmarmi, devo assolutamente cercare di rilassarmi. In fondo non sta accadendo nulla. Per ora.
Ci siamo conosciuti da poco e questa è soltanto la seconda volta che ci vediamo. Vuoi un caffè, mi ha chiesto l’altro giorno, arrossendo e balbettando, però ha avuto coraggio perché non mi conosceva, ha abbordato una sconosciuta che forse aveva già incontrato altre volte alla fermata del tram e quella sconosciuta sono io, e forse mi stava tenendo d’occhio da un po’, forse ogni tanto pensava a me, comunque è stato coraggioso ma anche molto gentile e siccome mi ha fatto tenerezza non so perché ma ho accettato. Di solito non lo faccio mai, non quando vengo abbordata in quel modo però era tanto tempo che nessuno lo faceva più. Ho accettato perché sono fragile.
Siamo andati al bar, proprio lì, a due passi dalla fermata. Abbiamo bevuto il caffè ed eravamo noi due soli, gli unici clienti in quel momento nel locale e il proprietario, un uomo grosso con la barba non rasata e una macchia di non so cosa sul ridicolo grembiule rosso ci guardava, e io ho avuto l’impressione che lui sapesse che ci eravamo appena incontrati e che a causa del nostro impaccio avessimo scelto il suo bar a caso. Cioè, non il frutto di una scelta meditata, ma all’opposto del tutto fortuita, e sembrava quasi che fosse colpa nostra per questa situazione e mi sono sentita molto in imbarazzo e quasi non stavo a sentire ciò che mi diceva lui, il mio occasionale accompagnatore che pure si sforzava di essere gentile e mi raccontava del suo lavoro ma io non riuscivo a seguirlo, le sue parole scivolavano e non riuscivo ad afferrarle, non riuscivo a trattenerle e a coglierne il senso.
Andiamo via, avevo detto a un certo punto, e forse erano trascorsi non più di dieci minuti ma ormai avevamo bevuto i nostri caffè e potevamo uscire senza che quel tipo si offendesse, il proprietario dico, perché avevo pure paura che se la prendesse con noi, gli unici suoi clienti di quel momento, ma clienti particolari, che erano entrati per caso, senza convinzione, senza avere scelto, senza avere manifestato una preferenza e lui se n’era accorto e a me era parso ostile nei nostri confronti.
Allora lui ha pagato e siamo usciti e io mi sono diretta, impettita, alla fermata del tram, con la mia andatura caracollante perché indossavo scarpe dal tacco alto anche se non so camminare con simili scarpe e la mia andatura diventa goffa e proprio non mi piaccio. Ma lui non ci ha fatto caso, almeno così mi è parso, così ho voluto credere che fosse, e quando ha compreso le mie intenzioni, cioè che me ne stavo andando si è di nuovo fatto coraggio, gli è dovuto costare molto immagino, e mi ha chiesto il numero di telefono. Senza pensare l’ho pronunciato, due volte di seguito molto in fretta, e lui ha sorriso e ha detto aspetta e ha sfilato dalla tasca il suo cellulare e ha digitato quelle cifre. Non so perché l’ho fatto, io non do mai il numero di telefono, non mi piace farlo, tantomeno a sconosciuti, a persone che incontro per la prima volta, eppure l’ho fatto. Poi è arrivato il tram e io sono salita, lui ha salutato ma io non ho risposto, almeno non ricordo d’averlo fatto ma quando sono stata sul mezzo ho guardato attraverso il finestrino sporco e l’ho visto e lui mi ha fatto un cenno e a quel punto finalmente ho risposto, ma credo con un attimo di ritardo e chissà se lui ha colto quel tardivo saluto, prodotto dal pentimento. Sì, perché mi sono subito pentita per il mio comportamento, un modo di fare che non mi appartiene ma mi sono consolata pensando che era semplicemente la conseguenza del mio enorme disagio. Tuttavia sono stata colta da un senso di depressione e di scoramento e mi sono resa conto, una volta di più, della mia inadeguatezza, della mia incapacità di affrontare situazioni che per la maggior parte delle persone sono invece del tutto normali.
Quella tremenda sensazione di frustrazione mi ha accompagnata per alcuni giorni, fino ad oggi, quando ho ricevuto la sua chiamata, che ormai non aspettavo più.
Non ho riconosciuto subito la sua voce, e mi è spiaciuto, perché lui è stato costretto a presentarsi e mi è sembrato in difficoltà.
Quando usciamo dal lavoro verresti con me a prendere un gelato, è riuscito infine a domandarmi, e io per un lungo momento sono rimasta zitta, tanto che lui ha pensato che avessi chiuso il telefono e si è allarmato. L’ho capito dal tremito della sua voce quando, esitante, ha rinnovato la sua richiesta. A quel punto non potevo dire di no e allora ho accettato, anche se quella situazione mi ha colmata d’ansia, tuttavia quell’invito mi ha fatto piacere e mi sono accorta con sorpresa che in fondo era ciò che desideravo, lo aspettavo da giorni ma non sarei mai stata in grado di fare il primo passo, oltretutto non lo potevo fare perché il numero di telefono, a lui, non lo avevo chiesto.
Abbiamo camminato senza parlare lungo la via pedonale gremita di gente, gente che rideva e scherzava, che entrava e usciva dai negozi eleganti, gente solitaria e gente imbronciata, giovani e vecchi, imbonitori e accattoni, gente malinconica e gente indifferente.
Mentre eravamo in fila alla gelateria, lui davanti e io dietro, l’ho osservato a lungo, ho notato i capelli diradati e un poco unti sulla sommità del suo capo, la sua giacca dal tessuto troppo pesante per una giornata estiva, un po’ logora e spiegazzata. Ho provato per lui una inaspettata dolcezza e ho pensato che forse l’aveva indossata per me, quella giacca inappropriata, per apparire più elegante, e probabilmente era pure l’unica che possedeva, non ne aveva un’altra più leggera e, stoico, soffriva il caldo, pativa per me.
Buono, ha detto leccando il gelato e io ho soltanto annuito e non ho detto niente. Ero concentrata su quell’operazione che, in alcune circostanze, diventa molto difficile da eseguire, mangiare il gelato intendo. Prestavo molta attenzione perché non volevo sporcarmi, sarebbe stato piuttosto imbarazzante farlo, e poi provavo vergogna nell’esporre troppo la lingua nel gesto di lambire il cono e mi limitavo a sfiorare il gelato con piccoli ed estenuanti tocchi.
Alla fine ho preso dalla borsetta dei fazzoletti di carta, ne ho dato uno anche a lui che mi ha ringraziato, e ci siamo pulito le mani e poi abbiamo proseguito la camminata, così, senza una meta precisa, commentando le vetrine ma era chiaro che ognuno di noi due era perso nei propri pensieri, che entrambi faticavamo a rimettere ordine nelle nostre menti ingarbugliate.
E poi faceva caldo, sempre più caldo, questa almeno era la mia impressione, ed io sbirciavo con preoccupazione, quasi con angoscia, le chiazze di sudore che si stavano allargando sempre più sulla mia camicetta in corrispondenza delle ascelle. Nella fretta di uscire dall’ufficio mi ero scordata di rimettere il deodorante ed ora temevo, anzi ne ero sicura, che dal mio corpo bagnato di sudore esalasse un cattivo odore e che lui lo percepisse.
Ti posso accompagnare a casa, aveva proposto lui con un filo di voce perché paventava un rifiuto, perché credeva di avere osato troppo o chissà cosa, e inoltre non sapeva dove abitassi, non ne avevamo parlato, avevamo parlato poco in verità, e invece io ho risposto di sì, perché no, in fondo non c’è nulla di male. Gli ho spiegato, forse in maniera troppo dettagliata perché ero sempre più nervosa, dov’era la mia casa e lui ha annuito e poi ha detto che era vicina, ma questo lo sapevo anch’io. E così abbiamo proseguito il nostro cammino, adesso non più senza una precisa destinazione, e in pochi minuti siamo arrivati di fronte al mio palazzo, quell’orrendo palazzo grigio che io odio, e che non so se odio perché sia brutto, e lo è, oppure perché rappresenti il solido simbolo della mia solitudine.
Vuoi salire, ho proposto, anche se non ero del tutto sicura che fossi stata veramente io a dire una cosa simile. Ma l’ho detto e lui ha fatto cenno di sì con il capo, alcune volte, e poi ha deglutito. Siamo entrati e ci siamo diretti verso l’ascensore. Ho appoggiato un dito tremante sul pulsante e l’ho chiamato.
E adesso siamo qui, nel soggiorno del mio appartamento, seduti sul divano, ognuno accomodato a una estremità, entrambi rigidi e impalati, separati da uno spazio vuoto che è una terra di nessuno. E rimaniamo così finché lui non inizia a parlare. Inizia a raccontare di sé, della sua vita che ormai è lunga, come la mia, esistenze segnate da dolore, sofferenza e rimpianti.  Vissuti allietati da rari momenti felici, ormai scordati, ormai rimossi. La gioia non lascia impronte, l’afflizione elargisce invece profonde cicatrici.
Lo ascolto con attenzione, mi piace il suo modo di parlare, la minuziosa scelta dei termini, il vezzo di non ripetere mai, a distanza di poco tempo, lo stesso vocabolo ma di ricorrere a svariati sinonimi. Un vezzo, o forse una mania. Una delle tante, magari, perché di lui so ben poco.
Dovrei dire qualcosa anch’io, parlare di me, ma non saprei da dove iniziare, che cosa riferire, non c’è nulla di veramente importante, e poi mi sento confusa e sconnessa, non in grado di articolare un discorso sensato. Lui si accorge del mio turbamento e smette di parlare. Mi osserva con attenzione, mi scruta a lungo e, proprio quando sta per domandarmi qualcosa, mi decido a intervenire.
Andiamo di là, dico, e nello stesso istante mi alzo e mi dirigo verso la stanza da letto. Sono voltata, perché il mio viso è infuocato, e non posso vedere la sua reazione. Ma nello stesso tempo lui non può vedere me, e non può cogliere il mio stato di agitazione. Lui, docile, mi segue, senza dire nulla, percepisco i suoi passi dietro di me.
Entro in camera e mi siedo sul letto, che per fortuna questa mattina ho rifatto, non sempre lo faccio, mentre lui rimane in piedi e si guarda intorno.
Togliti la giacca, dico, e mi accorgo che la mia voce ha un timbro strano, basso e roco.
Lui la sfila e, sorprendendomi, la lascia cadere a terra. Poi, quasi si vergognasse per quel suo gesto audace, prosegue con lo sguardo la sua ispezione. Posa gli occhi, che sono marroni, sui miei libri, sui miei cd, sui miei tanti oggetti disposti su tutte le superfici disponibili, su alcuni vestiti ammucchiati in modo disordinato su una sedia.
È molto luminosa questa stanza, dice, tornando a guardare me. A quelle parole, scatto e mi precipito verso la finestra, impugno a due mani la cinghia della tapparella e la abbasso. Lui trasale, per il rumore.
Fa molto caldo, dico. È meglio tenerla abbassata, mormoro, prima di tornare sul letto. Poi, senza incrociare i suoi occhi, gli indico di accomodarsi accanto a me, con un semplice ed eloquente gesto. Lui imbroncia le labbra, perplesso, quindi si toglie le scarpe, così, senza slegarle. Quindi fissa per un attimo i calzini, umidi e stropicciati, ma non li sfila. Sorrido tra me, per la prima volta, di fronte al suo evidente e tenero disagio.
Si siede accanto a me, e io chiudo gli occhi, e aspetto che mi baci. Invece, con delicatezza, scosta un lembo della mia camicetta e appoggia la sua mano, calda e sudata, sulla mia pelle nuda e sensibile. Poi le sue dita un po’ maldestre affrontano i minuscoli bottoni. Mi abbandono, ma subito mi rendo conto del mio errore, del mio tragico errore. Guardo sgomenta la finestra, e la tapparella, che nella fretta non ho abbassato completamente. Una lama di luce filtra attraverso una minuscola fessura. Mi investe, pronta a illuminare il mio corpo che tra poco sarà esposto, completamente esposto a quell’impietoso chiarore, e ne rivelerà il malato candore, i difetti e le imperfezioni, tutti i segni della vita. Scuoto il capo con violenza e dico no, no, no. Lui, attonito, si blocca, poi si alza e raccoglie la giacca da terra. E le scarpe.