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domenica 29 aprile 2018

SORELLA



Cullata da dolci oscillazioni, seduta composta nello scompartimento, osservi la vita scorrere veloce.

Hai quarant’anni, non hai mai amato ma hai sempre servito. I tuoi capelli non hanno mai assaggiato il vento. Ti senti schiacciata, compressa in quella nera uniforme. Vorresti uscire e finalmente respirare. Il tuo spirito prigioniero reclama libertà e non santità.

Scacci pensieri torbidi, come ti hanno insegnato a fare, come hai imparato a fare in perfetta solitudine, e volgi lo sguardo. Non sei sola. Occhi curiosi ti reclamano. Tu, proprio tu. Un lieve sorriso, un impercettibile cenno del capo fasciato da strette bende. È questo tutto ciò che sai fare, nulla di più.

E invece, per una volta, una volta soltanto, osi. E poi mai più, dici nella tua mente, dove già affiora la colpa. Sostieni lo sguardo estraneo, uno sguardo d’uomo rapace, e ti sfili gli occhiali. Il tuo unico vezzo, il solo gesto civettuolo che ardisci concepire. Come tanto tempo prima, quando ancora avevi tutta la vita davanti. Una ragazzina, con i suoi tremori e i suoi rossori. Poi, tutto si è indurito, è divenuto solida scorza, dentro e fuori. Una corazza che per una volta, una volta soltanto e poi mai più, si scioglie in fretta, trafitta da occhi assetati. Riponi l’oggetto nella tua anonima borsa, che poi nascondi, perché la sua modesta semplicità ti provoca imbarazzo. Ti guardi intorno fingendo indifferenza, cerchi di sfuggire a quel richiamo dei sensi che credevi ormai sopito, come se fosse un ricordo lontano.

Stringi le gambe fino a provare dolore. Un riflesso condizionato che ti fa sentire ridicola, inadeguata. Ti senti scrutata, spogliata e violata. E ne provi segreto piacere. Nulla però traspare, il tuo intimo si maschera, si nasconde e si mortifica. Non emetti suono. Comprendi che le parole sarebbero leggere, prive di sostanza di fronte a gesti invece eloquenti. Non riesci a sfuggire a quelle pupille scure, magnetiche e insolenti. Non sei capace di ritrovare la tua dignità.

Ma lui non capisce il tuo debole messaggio, quell’impalpabile invito. Distoglie lo sguardo, forse sconfitto, oppure annoiato. La caccia è finita, e profonda è la tua delusione. Sei salva, ma ormai perduta. Il tuo cuore piange, i nervi si rilassano. Tuttavia il pentimento ancora non arriva, forse non arriverà mai a lenire il tuo dolore. Il disagio è grande, straziante.

Con la tua bella mano, dalla pelle liscia e dalle dita sottili, ti sistemi il crocifisso sul petto piatto. Poi spiani all’infinito le pieghe di quella veste che ti opprime e ti protegge dal male e dall’estasi del mondo.


domenica 15 aprile 2018

LA TRADUTTRICE




Il suono penetrante del campanello mi causa sempre un certo fastidio, soprattutto quando sono solo in casa. Non oggi, però. Deve essere lei, la donna che sto aspettando, la traduttrice.
Sono stato fortunato ad averla trovata. Ieri, proprio a quest’ora, ero molto sconfortato.
Per vivere traduco opuscoli di istruzioni, in particolare per una azienda di piccoli elettrodomestici che esporta i suoi prodotti soprattutto in Nord Europa. Come mi è già accaduto altre volte, ho sopravvalutato la mia conoscenza della lingua svedese. Possibile che uno stupido spremi-aglio elettrico richieda così tante e dettagliate informazioni? Ho provato e riprovato ma alla fine mi sono dovuto arrendere. Mi sono reso conto di avere bisogno di aiuto. Ho scorso, in maniera febbrile, una serie di annunci finché non ho scovato la persona che mi poteva essere utile. L’ho contattata e lei ha subito accettato. È probabile che anche lei abbia la necessità impellente di lavorare. Certo, la dovrò pagare, e il mio guadagno in pratica si ridurrà a zero. Non importa, almeno conserverò la speranza di avere, in futuro, altre commissioni. Conversando con lei al telefono, ho avuto l’impressione che si trattasse di una signora di mezz’età, molto timida e riservata. L’ho dedotto dalla sua voce sommessa, dalle sue iniziali esitazioni.
Invece, quando apro la porta, mi trovo di fronte una donna giovane. Avrà al massimo trent’anni, ed è molto bella. Oggi fa piuttosto caldo, e lei indossa un vestito leggero, completamente bianco e con una profonda scollatura.
Dopo alcuni imbarazzati convenevoli, la faccio accomodare accanto a me, di fronte al computer già acceso, sul cui schermo c’è il testo dell’opuscolo, tradotto in malo modo.
La ragazza prende subito in mano la situazione e dimostra grande professionalità e ottima competenza. Mi fa notare gli errori, li corregge, mi offre dei suggerimenti.
Non posso fare a meno di sbirciare, quando credo di non essere visto, le sue gambe abbronzate. Durante uno di questi maldestri movimenti, i nostri sguardi per un attimo si incrociano. Confuso, rivolgo subito gli occhi al video, ma scorgo sulle sue labbra un lieve sorriso.
Il lavoro procede spedito. A un certo punto, nell’impeto di una spiegazione, lei appoggia la sua mano sulla mia, e guida le mie dita sul mouse. L’intero mio corpo è percorso da una scarica elettrica. La ragazza non se ne avvede e si avvicina ancora di più a me. Osservo i nostri avambracci nudi aderire, uno sull’altro, e ciò mi provoca un indicibile turbamento. Quasi trattengo il respiro. Vorrei che questo momento durasse per l’eternità. Confesso che in tutta la mia vita non ho mai assistito a un gesto di tale sensualità. Lei non si scosta. Sento il suo corpo aderire sempre di più al mio. Coscia contro coscia, fianco contro fianco, spalla contro spalla. La visione ravvicinata della sua spalla, nuda, bruna e rotonda, accelera i battiti del mio cuore. Ormai percepisco il suo profumo, il suo odore, e non so dire quale dei due effluvi sia più inebriante. Non riesco più a distinguere le parole che lei continua ad articolare, in apparenza del tutto indifferente alla mia profonda e visibile agitazione.
Mi rendo conto che devo fare qualcosa, devo almeno dire qualcosa. Che cosa mi sta accadendo?
“Scusa, non ti ho neppure chiesto come ti chiami, conosco soltanto il tuo cognome” pronuncio con un filo di voce. Una voce che non riconosco, tanto è diversa dalla mia.
Lei ritira il braccio, la sua pelle dorata mi sfiora le narici ed io aspiro, estasiato. Poi mi guarda, senza parlare.
“Giovanna? Ti chiami forse Giovanna?” azzardo a caso, in preda a un crescente nervosismo. O all’angoscia?
Ancora un leggero sorriso da parte sua, dolce e invitante. Poi scrolla le spalle.
“È un bel nome, ma non è il mio” dice.
Non oso insistere, perché temo che l’attimo magico svanisca. Ma ormai non riesco più a controllarmi. Non sono più me stesso. Con un sospiro inconsapevole, abbandono la mia fronte accaldata sull’incavo del suo collo. Un gesto inspiegabile, lo so, non da me, e che esprime tutta la mia disperazione. Attendo rassegnato la sua brusca replica, che invece non c’è. Lei non si muove, e non dice nulla. Soltanto il suo respiro accelera, in maniera impercettibile.
Colto da un accesso di autentica follia, chiudo gli occhi e infilo una mano nella scollatura del suo vestito. Accarezzo delicatamente la sua pelle liscia e calda, sempre più calda. Avverto un fremito da parte sua. Il suo corpo che reagisce.

Dopo usciamo. Il cielo è grigio, l’afa è aumentata. Sta per piovere, e sarà una pioggia tiepida.
Non ha voluto rivelarmi il suo nome. Ha detto che non devo più chiamarla. Nel caso, lo farà lei, al momento opportuno. Mi ha invitato a casa sua, in montagna, alla fine dell’estate. Fra tre mesi. Ho acconsentito a tutte le sue richieste. Sono ancora intontito e confuso, completamente disorientato.
Mi ha permesso di accompagnarla per un tratto di strada. Camminiamo senza parlare, affiancati, nella città deserta. A un certo punto mi fa cenno di fermarmi. Ubbidisco senza domandare nulla. Senza più voltarsi, lei attraversa la strada e raggiunge una vecchia Vespa celeste. Indossa il casco, avvia il motore e parte. Senza più voltarsi, senza più un saluto.
Rimango immobile sul marciapiede per lungo tempo. Poi ritorno sui miei passi, verso casa.
Una casa che adesso è piena di gente. Si tratta di amici di mio fratello. Scorgo lui, gli vorrei raccontare ciò che mi è accaduto. Ma lo vedo distratto, completamente immerso nell’adempimento dei suoi doveri di ospitalità, e allora rinuncio.
Mi chiudo nella mia stanza e mi stendo sul letto sfatto. Ho bisogno di pensare, ho la necessità di riflettere. E di ricordare.     

domenica 8 aprile 2018

PALLONCINI



Fu svegliato da una carezza sulla guancia. L'uomo allontanò il palloncino con una manata, poi si alzò.
Anche il bagno, come la stanza da letto, era pieno di palloncini di tutti i colori. La maggior parte di loro stava adagiata sul pavimento. Alcuni, al passaggio dell'uomo, si scostavano eseguendo volteggi in aria e poi ricadevano più avanti, tanto che un paio si infilarono nella tazza quando lui alzò il coperchio. Non vi badò. Sbarbato e ripulito l'uomo andò in cucina, con l'intenzione di consumare la colazione. La sua attenzione fu attratta da un palloncino, dal colore blu smorto, posato sul tavolo. Era sgonfio e in parte raggrinzito. Era vecchio. Sta per morire, considerò l'uomo, osservandolo senza toccarlo. Ma guarda! Proprio come noi, che quando diventiamo anziani ci rimpiccioliamo e la nostra pelle si riempie di rughe, pensò. Proprio come me, concluse. Poi afferrò un coltello e ne appoggiò la punta sul palloncino. Lo scoppio fu quasi impercettibile quando il palloncino esalò l'ultimo fiato. L'uomo prese la carcassa e la gettò nell'immondizia. La vita continua, disse l'uomo ad alta voce. Mise la caffettiera sul fuoco e, mentre aspettava, gonfiò non uno - come avrebbe dovuto fare nel rispetto delle regole che si era imposto - bensì due palloncini. Lasciate che i palloncini vengano a me, disse l'uomo sempre a voce alta, mentre sorseggiava il caffè e guardava commosso i due giovani palloncini azzurri che svolazzavano in cucina. Poi si preparò per uscire, sempre alla stessa ora, come faceva ogni giorno da quando era in pensione. Ben dieci anni, ormai.
Che cosa farai in pensione? Sei sicuro che non ti annoierai? Non hai interessi, come trascorrerai il tuo tempo? Andrai a fare volontariato? Queste erano state le odiose domande che amici e conoscenti gli avevano rivolto quando aveva deciso di ritirarsi dal lavoro. Lui, all'epoca, non aveva saputo che cosa rispondere, e allora aveva detto quella che gli era sembrata una sciocchezza. Se proprio non saprò che cosa fare mi metterò a gonfiare palloncini, aveva annunciato, faticando a nascondere l'imbarazzo. Ormai di amici non ne aveva più, tutti lo avevano abbandonato, alcuni erano persino morti, e tanto meno aveva dei conoscenti, dunque era inutile parlare di rivincita. In ogni caso, nel suo intimo, l'uomo era comunque soddisfatto: aveva trascorso gli ultimi dieci anni della sua esistenza proprio gonfiando palloncini!
Rinvigorito da tali pensieri, di buon passo nonostante l'età, l'uomo si diresse al suo negozio preferito.
Il cartolaio lo salutò con un gran sorriso. "Signor Mario, che piacere vederla! Ho delle cose per lei!" Gli porse un sacchetto che conteneva alcuni palloncini sgonfi. "Guardi che bei colori! Sono tutte tinte pastello! Una novità!" aggiunse entusiasta il negoziante.
L'uomo prese la busta e se la strinse al petto. Chiuse gli occhi. Non vedeva l'ora di tornare a casa e di gonfiarne qualcuno. E al diavolo la sovrappopolazione!