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domenica 25 novembre 2018

L'ORCO



Mi guardo allo specchio e cerco di capire se sono cambiato.
Osservo con estrema attenzione il mio viso riflesso. Noto la pelle smorta, gli occhi arrossati, i capelli arruffati e un impercettibile tic nervoso che mi deforma, a intermittenza, l’angolo sinistro della bocca, dove le labbra si congiungono. Sempre stando immobile, mi sforzo di percepire segnali insoliti che possano provenire da dentro il mio corpo, perché qualcosa in me deve essere di sicuro mutato. Allora mi rendo conto che il mio respiro è strano, corto e affannoso. E il cuore picchia con forza. Gli echi delle secche contrazioni mi rimbalzano alle tempie e mi stordiscono. Ho l’impressione che a volte, nella sua corsa sfrenata, il muscolo che porto racchiuso nel petto inciampi e salti un passo.
Contemplo le mie mani, grandi e scarne e dalle dita affusolate, come quelle di un pianista. Sono pulite. Le ho sfregate a lungo, sotto l’acqua, in maniera ossessiva, senza che ve ne fosse la reale necessità.
Tra poco più di un’ora torneranno i miei genitori. Rincasano sempre tardi perché i loro pensieri sono unicamente rivolti al lavoro. Per quel momento dovrò essere pronto, il profondo turbamento che ancora provo non dovrà trasparire e sarò il figlio modello di sempre.
Quella ragazzina mi piace. Mi piaceva.
Domani andrò all’università. Ho una lezione importante, che non posso perdere, e l’esame si avvicina. Nel fine settimana invece mi unirò a quelli che la staranno cercando, mi renderò utile e fornirò il mio contributo, doveroso, alla comunità.
Io la guardo ogni volta, quando esce, e lei ricambia il mio sguardo. Ricambiava.
Mi siedo perché sono molto stanco.
Non so bene che cosa volessi fare, e non capisco perché ho portato con me il coltello. Adesso l’ho gettato, in un posto dove nessuno lo troverà mai. E questo mi dispiace, ero molto affezionato a quel coltello. L’avevo comprato alcuni anni fa, quando ero poco più di un bambino, e per tutto questo tempo è rimasto chiuso nel mio comodino, infilato nel suo fodero di cuoio grezzo. Ogni tanto lo estraevo e lo ammiravo. Perché l’ho preso? Per quale ragione me lo sono messo in tasca? Queste domande mi assillano e mi tormentano, ma non riesco a dar loro una risposta. Penso che io sono una persona adulta mentre lei è ancora piccola. Era piccola. Che bisogno avevo di usare quell’arma? Sarebbe stato sufficiente parlare, se voglio so essere molto convincente e persuasivo.
Forse sono stati i suoi occhi. Sono molto belli i suoi occhi, di color blu cobalto, vivaci e brillanti. Erano belli ma pieni di paura, e questo non l’ho potuto sopportare. La paura è contagiosa e, poco alla volta, ha iniziato a invadere anche il mio corpo, si è trasformata in terrore.  
Non ricordo che cosa ho detto, non ricordo che cosa ho sentito. Le urla, le mie e le sue, si sono unite, si sono fuse, come provenienti da un’unica bocca.
Mi alzo dalla sedia in preda all’ansia. Sudo e tremo. No, non posso fare così, devo calmarmi.
Non ho più di fronte a me un corpo che desidero, che desideravo, ma un essere dalla forma indefinita, che si dibatte e strepita. Che grida. Che gridava. E allora colpisco, con forza, con il pugno, e quasi non mi avvedo che il mio pugno stringe il coltello. Mi pare impossibile che una lama tanto affilata possa produrre, su quell’esile figura, dei suoni così sordi. Una lama dovrebbe affondare, penetrare e lacerare in assoluto silenzio. Invece non è così, e inorridisco.
Mi scosto, mi sono scostato, in tutta fretta e i miei vestiti non si sono sporcati. Sono sorpreso.
E poi… poi non ricordo altro. All’improvviso mi sono ritrovato qui, a casa. Soltanto una parte dei miei ricordi è stata rimossa, e questo mi angoscia.
Perché prima o poi mi chiameranno mostro.
Prima o dopo diventerò l’orco, mentre io non volevo uccidere. Credo proprio di no...

martedì 18 settembre 2018

LA CAVIA



“Prepara la cavia” ordinò l’anziano medico affacciandosi alla porta del laboratorio.
Il suo assistente chiuse il giornale. Si alzò. Controllò che il tavolo da dissezione fosse in ordine, verificò che tutti gli strumenti fossero al loro posto e poi si diresse verso le celle. Si fece accompagnare da una guardia in divisa. Il giovane assistente la riteneva una precauzione del tutto inutile, tuttavia era quanto previsto dal protocollo e lui risolse di attenersi alle regole.
La guardia inserì una tessera magnetica in una fessura e la pesante porta si aprì. All’interno del piccolo locale c’era odore di chiuso. E di sudore stantio. Fu accesa la luce.
La ragazza si destò all’improvviso. Seduta sulla misera branda, sbatté più volte gli occhi, abbagliata dal violento chiarore.
“In piedi! Sbrigati!” intimò la guardia.
“Che succede?” domandò lei, con aria smarrita. Ma ubbidì. L’uomo la guardò e rinunciò ad ammanettarle i polsi.
A quel punto si fece avanti il giovane che indossava il camice bianco.
“Devi venire con noi, subito. È arrivato il tuo turno” disse, con tono impersonale. Poi si voltò.
“Perché non sono stata avvisata?” domandò la ragazza. Faticava a trattenere le lacrime.
Il ragazzo girò su se stesso e fece un passo.
“Il dottor Pain preferisce che le cavie siano rilassate e non intossicate dalla paura. Spogliati.”
Sotto gli occhi indifferenti dei due uomini, la giovane si sfilò il camicione grigio e poi si fermò.
“Tutto” ribadì l’assistente. In lui si percepiva impazienza.
“È proprio necessario? Perché volete umiliarmi?” gridò la donna.
La guardia sogghignò mentre il giovane emise un sospiro.
“Non ricordo di avere mai visto dei topi con le mutande…” disse quest’ultimo. L’altro scoppiò a ridere.
“Bastardi!” urlò la ragazza. Piangendo si tolse gli slip e li gettò a terra. Erano logori e sporchi.
La robusta guardia l’afferrò per un braccio e la trascinò attraverso un lungo corridoio. Giunsero infine al laboratorio. La giovane fu sistemata sul lettino. Le mani furono bloccate con delle robuste cinghie. E anche i piedi.
Il giovane assistente fece un cenno alla guardia.
“Posso andare?” L’altro annuì.
Rimasto solo con la ragazza, l'assistente iniziò la preparazione. Nessuno dei due disse una parola. La giovane aveva lo sguardo spento, rassegnato. L’uomo procedette rapido, con grande professionalità. La vista del corpo nudo della ragazza non suscitava in lui alcuna reazione. Era abituato. Notò soltanto che il soggetto appariva alquanto debilitato. Braccia e gambe erano molto esili, e il tronco di una magrezza spaventosa. Scosse il capo.
“È da tempo che non mangiò più” disse lei con un filo di voce, intuendo i pensieri dell'uomo.
“Avevo suggerito al dottor Pain l’alimentazione forzata. Non mi ha dato ascolto.”
L’assistente sistemò con cura alcuni elettrodi, verificò un’ultima volta tutti gli strumenti poi, soddisfatto, si scostò dal tavolo operatorio.
“Perché?” disse la ragazza. Sembrava ormai rassegnata alla sua triste sorte. L’altro non rispose.
“Tu non sai che cosa ho fatto, immagino. Lascia che ti spieghi e forse avrai un po’ di pietà” aggiunse lei.
“Non mi interessa, non lo  voglio sapere” disse il giovane medico. “Se sei stata condannata alla vivisezione un motivo ci sarà. Qualcuno lo ha deciso, e non tocca certamente a me mettere in discussione tale scelta. Mi limito a fare il mio lavoro.”
“Che cosa mi farete?” domandò lei. Lui fece una smorfia, poi la osservò con attenzione.
“Che importanza ha saperlo? Tanto lo vedrai. Eseguiremo soltanto delle anestesie parziali. Non proverai dolore, non tanto, credo…”
“Dimmelo, ti prego!”
L’uomo prima sbuffò, poi rispose.
“D’accordo. Ti estrarremo i polmoni, proveremo a farli vivere in ambiente esterno. È questo il campo di specializzazione del dottor Pain, la respirazione.”
“E poi?” chiese la ragazza. Il suo volto, un tempo grazioso, si era trasformato in una maschera di terrore.
“Vuoi che sia sincero? Non credo molto negli esperimenti del mio capo. A volte ho l’impressione che creda di essere la reincarnazione del dottor Mengele!” Il ragazzo sorrise compiaciuto per la battuta. Poi tornò serio.
“Come finirà? Non lo so come finirà. Temo che alla fine ci tocchi buttare via tutto, come è successo tante altre volte.”
“Buttare via tutto?” soffiò la ragazza. Era trasfigurata, non sembrava più un essere umano.
“Lasciamo stare.”
La giovane iniziò ad urlare. Un urlo che si trasformò presto in un gemito sommesso. Poi, di colpo, si calmò. Cercò lo sguardo del giovane assistente.
“Guardami” disse. “Davvero non vedi in me una persona ma soltanto una cavia da laboratorio? Lo voglio sapere…”
Lui la squadrò a lungo. Notò, chissà perché soltanto in quel momento, che la ragazza aveva un piccolo tatuaggio ormai sbiadito sul seno sinistro. Poi scrollò le spalle.
“Vedo un organismo vivente. Per il momento.”
Si voltò di schiena e allineò alcuni strumenti chirurgici su un piano.

domenica 5 agosto 2018

CHE SI FA?



"Che si fa?" dice Saverio, l'aria annoiata.
"Boh" risponde Giovanni, lanciando la cartella sotto la scalinata.
Il bus, come tutti i giorni, ci ha depositato alla stessa ora di fronte al cancello della scuola. Ma il mercoledì la prima ora è buca.
"Facciamo due tiri" propongo. Non lontano c'è uno spiazzo erboso soffocato tra le case. Il pallone sappiamo dove trovarlo.
"No, non ho nessuna intenzione di sporcarmi le braghe" dice Saverio.
"Mica devi stare in porta per forza" dico.
"Mi sporco lo stesso. Ti ricordi l'ultima volta?" dice lui.
"Pioveva, l'erba era era scivolosa".
"E tu mi hai steso".
"Affatto. Non era fallo, sono entrato sulla palla e tu ti sei sbilanciato e sei caduto".
"Ma vaffanculo. Ero ridotto da far schifo. Persino la Giorgi non sapeva se cazziarmi o mettersi a ridere.
"Alla fine però ti ha cazziato" dice Giovanni.
Un'ombra scorre accanto a noi. Mi volto di scatto e intravedo la figura slanciata di Simonetta, la nostra compagna, che cammina a passo spedito. Soffermo lo sguardo sui suoi capelli neri e boccoluti, gli stessi che, seduto al banco, mi trovo davanti agli occhi tutto il tempo. Gli stessi dove sogno e fantastico di tuffare il viso, per assaporarne il profumo. Faccio ancora in tempo ad ammirare le gambe lunghe e magre, dai polpacci pronunciati, poi Simonetta scompare dietro l'angolo.
Saverio ha notato la mia intensa attività d'occhi.
"Dove sta andando?" domanda, poi rimane a bocca aperta come un idiota.
"E che ne so?" rispondo, un po' seccato.
"Andiamole dietro" propone Giovanni.
"Che cosa?"
"La seguiamo, così vediamo dove va. E passiamo il tempo".
Ad andatura apparentemente svogliata imbocchiamo anche noi i portici, come ha fatto un attimo prima Simonetta, e iniziamo il pedinamento.
"Dobbiamo fare attenzione" dico. "Se ci scorge facciamo la figura dei cretini".
"Tu in particolare" mi punzecchia Saverio.
"Io cosa?" rispondo, aggressivo.
"È a te che piace" dice il coglione.
"Ma smettila" lo liquido, poi sputo per terra.
"A me piace per davvero" dice Giovanni, quasi in un sussurro.
"Sono contento per te" lo liquido acido, in piena crisi di gelosia. Perché non ho ammesso davanti ai miei amici che Simonetta mi piace? Mi sembra quasi di averla rinnegata. Ma poi penso che lei non mi degna mai del minimo sguardo, quindi chi se ne frega. O forse no.
"È entrata dentro" dice Saverio.
"Dove?"
"Nel bar".
"E adesso?"
"Adesso torniamo indietro" dice Saverio.
"Oppure entriamo anche noi nel bar" propone Giovanni.
"Assolutamente no" dico, e proprio in quell'istante Simonetta esce e prosegue il cammino.
"Occhio, è uscita" dico.
"Che cosa avrà fatto?" chiede Saverio, curioso come una biscia.
"Ha bevuto un cicchetto" dico.
"Avrà comprato le caramelle" dice Giovanni.
"Vedrai, poi se stai buono te le regala" lo canzona Saverio.
"Vaffanculo".
"Attenti, se si volta ci vede" dico.
"Si sta allontanando parecchio" dice Saverio.
"Che c'è? Sei stanco?" lo rintuzza Giovanni.
"Smettila, coglione".
"Merda! Si è fermata" dice Saverio arrestandosi all'improvviso. Quasi lo tampono.
Simonetta è ferma all'incrocio, scruta a destra poi a sinistra poi guarda l'orologio.
"Nascondiamoci dietro quel muretto" dico.
"Sta aspettando qualcuno" dice Saverio.
"Ma guarda!" dico, fingendo spavalderia che non ho.
"Chi sarà?" domanda Giovanni, la voce tremolante.
"Di sicuro non sei tu" dice Saverio.
"Fottiti".
All'improvviso sentiamo un rombo in lontananza. Pochi secondi e si materializza un bolide di moto. Il centauro è un ragazzo con barba e capelli lunghi. Spegne il motore e, sempre restando a cavallo, si sporge e bacia Simonetta sulla bocca.
"Cristo, avrà almeno trent'anni!" esclama Saverio.
"No, la barba inganna. Secondo me non supera i venticinque".
"Che cosa vi importa quanti anni ha?" dico, con voce stridula.
"Cazzo gridi? Vuoi che ci sentano?" dice Saverio.
Il capellone barbuto riaccende la moto, subito dopo Simonetta balza in sella e si aggrappa stretta al suo giubbotto di pelle. Un'accelerata e i due spariscono in un istante. Ho appena il tempo di scorgere la coscia scoperta della mia compagna. È bella.
"E adesso che si fa?" dice Saverio, l'aria stranita.
"Uh?" bofonchia Giovanni, che sta pensando a chissà che. Forse i suoi sono gli stessi pensieri che tormentano anche me.
"Adesso torniamo" dico, e sono davvero triste, per quanto si può essere tristi a quattordici anni.

martedì 10 luglio 2018

SENZA CASA

Homeless. Mi è sempre piaciuto il suono di questa parola perché, tutto sommato, possiede una certa soavità, una specifica leggiadria. Non è come pronunciare termini quali barbone, emarginato oppure clochard. No, è tutta un’altra cosa, completamente diversa. Ricordo con piacere quando, appena ragazzo, mi immergevo nella lettura di quei romanzi americani dove spesso i protagonisti erano proprio loro, gli homeless. Fantasticavo a occhi aperti su quei simpatici vagabondi, sempre pieni di risorse, che si spostavano da un capo all’altro di quello sconfinato paese accucciandosi nello spazio tra le ruote dei treni, interminabili convogli trainati da sbuffanti locomotive a carbone. E quei tipi me li immaginavo scanzonati, sempre sorridenti, intenti a sgranocchiare con autentico gusto tozzi di pane nero e raffermo, nonché di continuo avvolti da spesse nubi di vapore. Figure romantiche, per me quasi leggendarie, intrise di una peculiare dolcezza, e alle quali non mancavano di certo sia il coraggio che un selvaggio spirito di avventura. L’unica loro brama, la sola aspirazione, era la libertà. L’affrancarsi, attraverso una scelta audace, tale da sfiorare l’insolenza, da legami, obblighi e limitazioni di tutti i generi, da imposizioni e costrizioni in grado di annientare la voglia di vivere di un essere umano. E allora partiva per loro la rincorsa verso una differente condizione, quella di uomo libero, un’ambizione che permetteva di rimuovere o almeno di attenuare la sofferenza e i patimenti, e quei treni che sfrecciavano attraverso le sconfinate pianure, che superavano i fragili ponti gettati con ardimento tra le rocce, che sostavano nelle vivaci e pittoresche cittadine, ne rappresentavano l’eloquente rappresentazione. Rapide fermate, con appena il tempo di sgranchire le gambe indolenzite dalla lunga immobilità, di stirare le braccia intorpidite, e di immergere il viso impolverato e annerito in un secchio d’acqua fresca. Oppure, a preferenza, ma sempre in nome dell’assoluta libertà, una pausa più lunga, forse un lavoro avventizio in qualche fattoria, per racimolare alcuni spiccioli da sperperare subito in una colossale bevuta, in un lauto e occasionale pasto, prima di riprendere quella folle e spensierata corsa senza lacci. Su un altro lungo treno, per scoprire altri posti, per conoscere nuova gente, e per rinnovare la meravigliosa emozione di essere completamente padroni di se stessi, di poter assumere qualsiasi decisione, immuni da influenze e dipendenze di ogni sorta.
Da allora, da quando mi smarrivo in quelle affascinanti visioni, provenienti direttamente dalle pagine ingiallite di quei libri imbevuti di intensa fragranza, di un aroma di antico, è trascorso molto tempo. È passata una vita intera. Un’esistenza che ho facilmente scordato, che ho rimosso quasi del tutto. Tuttavia, per cercare di rinnovare quei lontani e gradevoli ricordi, tutto ciò che è stato prima del nulla che è seguito, e che non desidero invece rammentare, qualche giorno fa sono andato alla stazione. La stazione di questa immensa e crudele città. Sono entrato, con un po’ di timore, benché noncurante degli sguardi curiosi e insensibili delle persone, dei frettolosi viaggiatori, ai quali sono avvezzo, e ho camminato a lungo sulla banchina, lentamente.
Adesso i treni non sono più come quelli di una volta, sono del tutto differenti. È quasi impossibile distinguere la locomotiva dai vagoni, perché tra loro sono uguali. Ed è inutile cercare il fumaiolo, poiché non c’é. I treni sono affusolati, quasi altezzosi, e sono verniciati con colori brillanti. Le loro lamiere sono fredde, ne sono quasi certo, anche se non ho osato toccarle.
A un certo punto mi sono accostato a un vagone, uno qualsiasi dei tanti, e mi sono disteso a terra, per vedere meglio. Tutti guardavano me, ma io ho seguitato a osservare ciò che realmente mi interessava. L’ho fatto con attenzione, per lungo tempo, finché un ferroviere non mi ha costretto a rialzarmi e ad andarmene. Ma ormai avevo visto tutto, ed è stata enorme la mia delusione, doloroso il mio disappunto. Mi ero reso conto che lo spazio non c’è più! È diventato impossibile, per un uomo, seppure intrepido, riuscire a sistemarsi sotto ai vagoni per farsi trasportare sulle ali di una libertà senza confini. Alla fine, pieno di amarezza, sono uscito dalla stazione, che stava diventando sempre più rumorosa e affollata. Fuori era già quasi buio, il freddo iniziava a mordere la mia carne stanca, ed io dovevo ancora trovare una sistemazione adatta per trascorrere la notte. Chissà se il mattino dopo mi sarei risvegliato?   

domenica 10 giugno 2018

SI SALVINI CHI PUO'



La prima settimana di Matteo Salvini, nel ruolo di Ministro dell'Interno, si è svolta nel segno della frustrazione. Chiamatela come volete: sfortuna, malasorte, iattura o semplicemente sfiga nera, in ogni caso i migranti/persone/clandestini/profughi invece di diminuire continuano ad aumentare. E, nonostante la presenza di Salvini, continuano a sbarcare sulle coste italiane, desiderosi di dare inizio alla loro pacchia.
E poi ci si mette anche Malta. Ed è proprio Salvini a scoprire che Malta, se può, evita di soccorrere gli immigrati (ma guarda!) e preferisce dirottarli sui porti italiani. Salvini ha ragione, l'atteggiamento di Malta (quattrocentomila abitanti contro i sessanta milioni dell'Italia) è proprio questo, e lo è da tanti anni ormai. Dov'è stato in tutto questo tempo l'ineffabile neo ministro? In televisione? Ai comizi? I giornali non li ha mai letti?
A tutto, però, c'è rimedio. E infatti Salvini, per superare il problema, si rivolge direttamente alla Nato. Sì, pensa, finché paghiamo per rimanere nel blocco atlantico (prima di passare dalla parte della Russia) tanto vale utilizzarne i servizi. E la Nato deve intervenire, perché quella dei migranti/persone/clandestini/profughi è una vera e propria invasione. Il fatto è che quei disgraziati non indossano alcuna divisa, indossano spesso vestiti stracciati e sono disarmati e stremati, il loro è un esercito arcobaleno.
In questa settimana, in ogni caso, una cosa l'abbiamo imparata. Matteo Salvini non è il macho che credevamo (e che lui stesso pensa di essere), non è l'erede post-ideologico populista e sovranista della tradizione politica italiana, ma un bambinone ingenuo che, come tutti i pargoli, e soltanto loro, non ha ancora perso la capacità si meravigliarsi.

domenica 27 maggio 2018

PANE E FORMAGGIO


L’uomo socchiude l’uscio della sua misera abitazione e si affaccia. Sposta lo sguardo prima da un lato e poi dall’altro, come un animale timoroso di uscire dalla propria tana. Infine spalanca la porta ed esce. Si sistema la cintura dei pantaloni, si aggiusta una spallina della canottiera blu e si avvia verso il cortile. Lo oltrepassa e raggiunge la strada, la attraversa e si arresta al margine di un campo di grano. Le piante di frumento non ci sono più, sono state tagliate il giorno prima. Durante la notte, perché fa molto caldo, e il contadino e i suoi occasionali aiutanti hanno deciso di sfruttare le ore più fresche. L’operazione di mietitura è avvenuta sotto la luce della luna, e dei potenti fanali della trebbiatrice meccanica.
L’uomo impugna un piccolo coltello a serramanico, nell’altra mano ha del pane e del formaggio, la sua cena. Ma non inizia il pasto, bensì sta immobile e osserva. Contempla assorto. Non sappiamo che cosa stia pensando, quali pensieri gravi, tristi o faceti attraversino la sua mente. Oppure, se il suo distacco sia totale, se si trovi in una condizione di sospensione assoluta dalla realtà, o soltanto da ciò che lo circonda.
L’uomo ha le spalle molto abbronzate, quasi bruciate dall’impietoso sole estivo. Il suo viso, al contrario, ha una tonalità marrone, una tinta sporca e malsana. Spicca, in quel volto sconfitto, un appariscente naso rubizzo, che ne allieta in parte l’insieme e lo rende meno malinconico. I capelli, scuri e fissi, sono lisciati all’indietro sul capo e impregnati di una qualche sostanza unta.
L’uomo, all’improvviso, si riscuote. In un istante il suo corpo si rianima, riprende vita. Con gesti precisi e meccanici muove il coltello, affetta con precisione il pane e, subito dopo, stacca una scaglia di formaggio. Li porta insieme alla bocca. Dopo un po’ ripete la stessa azione. Coltello, pane, formaggio, bocca. Nel mentre aguzza lo sguardo, prima in direzione dell’orizzonte, poi più vicino, a pochi metri dai suoi piedi. Guarda con attenzione alcuni uccellini che si sono avvicinati, dapprima paurosi, poi sempre più sfacciati. Alcuni di loro zampettano sul campo, e becchettano con finta indifferenza i chicchi di grano che sono rimasti a terra. Altri ancora spasimano per un cibo più insolito, e per questo ancora più appetibile: le briciole di pane, che l’uomo dispensa loro con generosità.
L’uomo ha terminato il suo sobrio pasto, lo stesso di tutte le sere estive. Sfrega più volte il coltello sui pantaloni e lo pulisce, lo richiude e lo mette in tasca. Strofina poi le mani sulla canotta, prima di impugnare il grosso binocolo che porta appeso al collo. Senza staccare gli occhi dallo strumento, avanza nel campo, incurante delle stoppie che potrebbero farlo inciampare. Non sappiamo che cosa stia osservando attraverso quelle potenti lenti. Forse uccelli che si librano in cielo, oppure la scia di un aereo. Dopo pochi minuti l’uomo adagia il binocolo sul petto, si volta e torna verso casa. Dove troverà sua moglie, fiacca per il gran caldo e con i capelli in disordine, con addosso il vecchio grembiule a fiori. A casa dove, dopo aver bevuto due o tre bicchieri di vino, troverà il solito muto sguardo di rimprovero. Lo stesso di tutta una vita. E dove troverà, soprattutto, il sofà sfondato sul quale si appisolerà.     



sabato 12 maggio 2018

LAMA DI LUCE


Salgo sull’ascensore e lui è dietro di me e tace. Tre piani, sempre senza dire nulla. Poi, con le mani tremanti, cerco le chiavi e apro. Odore di chiuso. Perché stamattina, prima di uscire, non ho aperto le finestre? Lo faccio adesso, iniziando dal soggiorno. Subito entra aria, ma è rovente, da alcuni giorni fa molto caldo, un caldo umido e soffocante che mozza il respiro. Mi guardo attorno, smarrita, e quasi non mi sembra di essere a casa mia. È come se la mia vista fosse annebbiata. Non riesco a mettere bene a fuoco i mobili, gli oggetti, tutto.
Siediti, dico, io arrivo subito, e gli indico il divano. Lui si siede, rigido e impacciato.
Vado in bagno, mi lavo le mani, mi rinfresco il viso. Evito lo specchio, di proposito. Non posso rimanere qui dentro a lungo, devo uscire, lui aspetta e aspetta me.
Bevi qualcosa, domando, con scarsa convinzione. E infatti lui mi fa cenno di no, non voglio niente, sto bene così. Perché l’ho chiesto? So bene di non avere niente in casa, non ho mai niente perché non viene mai nessuno e io bevo soltanto acqua, quella del rubinetto che neppure mi piace. Che cosa avrei detto se lui avesse risposto di sì? Devo calmarmi, devo assolutamente cercare di rilassarmi. In fondo non sta accadendo nulla. Per ora.
Ci siamo conosciuti da poco e questa è soltanto la seconda volta che ci vediamo. Vuoi un caffè, mi ha chiesto l’altro giorno, arrossendo e balbettando, però ha avuto coraggio perché non mi conosceva, ha abbordato una sconosciuta che forse aveva già incontrato altre volte alla fermata del tram e quella sconosciuta sono io, e forse mi stava tenendo d’occhio da un po’, forse ogni tanto pensava a me, comunque è stato coraggioso ma anche molto gentile e siccome mi ha fatto tenerezza non so perché ma ho accettato. Di solito non lo faccio mai, non quando vengo abbordata in quel modo però era tanto tempo che nessuno lo faceva più. Ho accettato perché sono fragile.
Siamo andati al bar, proprio lì, a due passi dalla fermata. Abbiamo bevuto il caffè ed eravamo noi due soli, gli unici clienti in quel momento nel locale e il proprietario, un uomo grosso con la barba non rasata e una macchia di non so cosa sul ridicolo grembiule rosso ci guardava, e io ho avuto l’impressione che lui sapesse che ci eravamo appena incontrati e che a causa del nostro impaccio avessimo scelto il suo bar a caso. Cioè, non il frutto di una scelta meditata, ma all’opposto del tutto fortuita, e sembrava quasi che fosse colpa nostra per questa situazione e mi sono sentita molto in imbarazzo e quasi non stavo a sentire ciò che mi diceva lui, il mio occasionale accompagnatore che pure si sforzava di essere gentile e mi raccontava del suo lavoro ma io non riuscivo a seguirlo, le sue parole scivolavano e non riuscivo ad afferrarle, non riuscivo a trattenerle e a coglierne il senso.
Andiamo via, avevo detto a un certo punto, e forse erano trascorsi non più di dieci minuti ma ormai avevamo bevuto i nostri caffè e potevamo uscire senza che quel tipo si offendesse, il proprietario dico, perché avevo pure paura che se la prendesse con noi, gli unici suoi clienti di quel momento, ma clienti particolari, che erano entrati per caso, senza convinzione, senza avere scelto, senza avere manifestato una preferenza e lui se n’era accorto e a me era parso ostile nei nostri confronti.
Allora lui ha pagato e siamo usciti e io mi sono diretta, impettita, alla fermata del tram, con la mia andatura caracollante perché indossavo scarpe dal tacco alto anche se non so camminare con simili scarpe e la mia andatura diventa goffa e proprio non mi piaccio. Ma lui non ci ha fatto caso, almeno così mi è parso, così ho voluto credere che fosse, e quando ha compreso le mie intenzioni, cioè che me ne stavo andando si è di nuovo fatto coraggio, gli è dovuto costare molto immagino, e mi ha chiesto il numero di telefono. Senza pensare l’ho pronunciato, due volte di seguito molto in fretta, e lui ha sorriso e ha detto aspetta e ha sfilato dalla tasca il suo cellulare e ha digitato quelle cifre. Non so perché l’ho fatto, io non do mai il numero di telefono, non mi piace farlo, tantomeno a sconosciuti, a persone che incontro per la prima volta, eppure l’ho fatto. Poi è arrivato il tram e io sono salita, lui ha salutato ma io non ho risposto, almeno non ricordo d’averlo fatto ma quando sono stata sul mezzo ho guardato attraverso il finestrino sporco e l’ho visto e lui mi ha fatto un cenno e a quel punto finalmente ho risposto, ma credo con un attimo di ritardo e chissà se lui ha colto quel tardivo saluto, prodotto dal pentimento. Sì, perché mi sono subito pentita per il mio comportamento, un modo di fare che non mi appartiene ma mi sono consolata pensando che era semplicemente la conseguenza del mio enorme disagio. Tuttavia sono stata colta da un senso di depressione e di scoramento e mi sono resa conto, una volta di più, della mia inadeguatezza, della mia incapacità di affrontare situazioni che per la maggior parte delle persone sono invece del tutto normali.
Quella tremenda sensazione di frustrazione mi ha accompagnata per alcuni giorni, fino ad oggi, quando ho ricevuto la sua chiamata, che ormai non aspettavo più.
Non ho riconosciuto subito la sua voce, e mi è spiaciuto, perché lui è stato costretto a presentarsi e mi è sembrato in difficoltà.
Quando usciamo dal lavoro verresti con me a prendere un gelato, è riuscito infine a domandarmi, e io per un lungo momento sono rimasta zitta, tanto che lui ha pensato che avessi chiuso il telefono e si è allarmato. L’ho capito dal tremito della sua voce quando, esitante, ha rinnovato la sua richiesta. A quel punto non potevo dire di no e allora ho accettato, anche se quella situazione mi ha colmata d’ansia, tuttavia quell’invito mi ha fatto piacere e mi sono accorta con sorpresa che in fondo era ciò che desideravo, lo aspettavo da giorni ma non sarei mai stata in grado di fare il primo passo, oltretutto non lo potevo fare perché il numero di telefono, a lui, non lo avevo chiesto.
Abbiamo camminato senza parlare lungo la via pedonale gremita di gente, gente che rideva e scherzava, che entrava e usciva dai negozi eleganti, gente solitaria e gente imbronciata, giovani e vecchi, imbonitori e accattoni, gente malinconica e gente indifferente.
Mentre eravamo in fila alla gelateria, lui davanti e io dietro, l’ho osservato a lungo, ho notato i capelli diradati e un poco unti sulla sommità del suo capo, la sua giacca dal tessuto troppo pesante per una giornata estiva, un po’ logora e spiegazzata. Ho provato per lui una inaspettata dolcezza e ho pensato che forse l’aveva indossata per me, quella giacca inappropriata, per apparire più elegante, e probabilmente era pure l’unica che possedeva, non ne aveva un’altra più leggera e, stoico, soffriva il caldo, pativa per me.
Buono, ha detto leccando il gelato e io ho soltanto annuito e non ho detto niente. Ero concentrata su quell’operazione che, in alcune circostanze, diventa molto difficile da eseguire, mangiare il gelato intendo. Prestavo molta attenzione perché non volevo sporcarmi, sarebbe stato piuttosto imbarazzante farlo, e poi provavo vergogna nell’esporre troppo la lingua nel gesto di lambire il cono e mi limitavo a sfiorare il gelato con piccoli ed estenuanti tocchi.
Alla fine ho preso dalla borsetta dei fazzoletti di carta, ne ho dato uno anche a lui che mi ha ringraziato, e ci siamo pulito le mani e poi abbiamo proseguito la camminata, così, senza una meta precisa, commentando le vetrine ma era chiaro che ognuno di noi due era perso nei propri pensieri, che entrambi faticavamo a rimettere ordine nelle nostre menti ingarbugliate.
E poi faceva caldo, sempre più caldo, questa almeno era la mia impressione, ed io sbirciavo con preoccupazione, quasi con angoscia, le chiazze di sudore che si stavano allargando sempre più sulla mia camicetta in corrispondenza delle ascelle. Nella fretta di uscire dall’ufficio mi ero scordata di rimettere il deodorante ed ora temevo, anzi ne ero sicura, che dal mio corpo bagnato di sudore esalasse un cattivo odore e che lui lo percepisse.
Ti posso accompagnare a casa, aveva proposto lui con un filo di voce perché paventava un rifiuto, perché credeva di avere osato troppo o chissà cosa, e inoltre non sapeva dove abitassi, non ne avevamo parlato, avevamo parlato poco in verità, e invece io ho risposto di sì, perché no, in fondo non c’è nulla di male. Gli ho spiegato, forse in maniera troppo dettagliata perché ero sempre più nervosa, dov’era la mia casa e lui ha annuito e poi ha detto che era vicina, ma questo lo sapevo anch’io. E così abbiamo proseguito il nostro cammino, adesso non più senza una precisa destinazione, e in pochi minuti siamo arrivati di fronte al mio palazzo, quell’orrendo palazzo grigio che io odio, e che non so se odio perché sia brutto, e lo è, oppure perché rappresenti il solido simbolo della mia solitudine.
Vuoi salire, ho proposto, anche se non ero del tutto sicura che fossi stata veramente io a dire una cosa simile. Ma l’ho detto e lui ha fatto cenno di sì con il capo, alcune volte, e poi ha deglutito. Siamo entrati e ci siamo diretti verso l’ascensore. Ho appoggiato un dito tremante sul pulsante e l’ho chiamato.
E adesso siamo qui, nel soggiorno del mio appartamento, seduti sul divano, ognuno accomodato a una estremità, entrambi rigidi e impalati, separati da uno spazio vuoto che è una terra di nessuno. E rimaniamo così finché lui non inizia a parlare. Inizia a raccontare di sé, della sua vita che ormai è lunga, come la mia, esistenze segnate da dolore, sofferenza e rimpianti.  Vissuti allietati da rari momenti felici, ormai scordati, ormai rimossi. La gioia non lascia impronte, l’afflizione elargisce invece profonde cicatrici.
Lo ascolto con attenzione, mi piace il suo modo di parlare, la minuziosa scelta dei termini, il vezzo di non ripetere mai, a distanza di poco tempo, lo stesso vocabolo ma di ricorrere a svariati sinonimi. Un vezzo, o forse una mania. Una delle tante, magari, perché di lui so ben poco.
Dovrei dire qualcosa anch’io, parlare di me, ma non saprei da dove iniziare, che cosa riferire, non c’è nulla di veramente importante, e poi mi sento confusa e sconnessa, non in grado di articolare un discorso sensato. Lui si accorge del mio turbamento e smette di parlare. Mi osserva con attenzione, mi scruta a lungo e, proprio quando sta per domandarmi qualcosa, mi decido a intervenire.
Andiamo di là, dico, e nello stesso istante mi alzo e mi dirigo verso la stanza da letto. Sono voltata, perché il mio viso è infuocato, e non posso vedere la sua reazione. Ma nello stesso tempo lui non può vedere me, e non può cogliere il mio stato di agitazione. Lui, docile, mi segue, senza dire nulla, percepisco i suoi passi dietro di me.
Entro in camera e mi siedo sul letto, che per fortuna questa mattina ho rifatto, non sempre lo faccio, mentre lui rimane in piedi e si guarda intorno.
Togliti la giacca, dico, e mi accorgo che la mia voce ha un timbro strano, basso e roco.
Lui la sfila e, sorprendendomi, la lascia cadere a terra. Poi, quasi si vergognasse per quel suo gesto audace, prosegue con lo sguardo la sua ispezione. Posa gli occhi, che sono marroni, sui miei libri, sui miei cd, sui miei tanti oggetti disposti su tutte le superfici disponibili, su alcuni vestiti ammucchiati in modo disordinato su una sedia.
È molto luminosa questa stanza, dice, tornando a guardare me. A quelle parole, scatto e mi precipito verso la finestra, impugno a due mani la cinghia della tapparella e la abbasso. Lui trasale, per il rumore.
Fa molto caldo, dico. È meglio tenerla abbassata, mormoro, prima di tornare sul letto. Poi, senza incrociare i suoi occhi, gli indico di accomodarsi accanto a me, con un semplice ed eloquente gesto. Lui imbroncia le labbra, perplesso, quindi si toglie le scarpe, così, senza slegarle. Quindi fissa per un attimo i calzini, umidi e stropicciati, ma non li sfila. Sorrido tra me, per la prima volta, di fronte al suo evidente e tenero disagio.
Si siede accanto a me, e io chiudo gli occhi, e aspetto che mi baci. Invece, con delicatezza, scosta un lembo della mia camicetta e appoggia la sua mano, calda e sudata, sulla mia pelle nuda e sensibile. Poi le sue dita un po’ maldestre affrontano i minuscoli bottoni. Mi abbandono, ma subito mi rendo conto del mio errore, del mio tragico errore. Guardo sgomenta la finestra, e la tapparella, che nella fretta non ho abbassato completamente. Una lama di luce filtra attraverso una minuscola fessura. Mi investe, pronta a illuminare il mio corpo che tra poco sarà esposto, completamente esposto a quell’impietoso chiarore, e ne rivelerà il malato candore, i difetti e le imperfezioni, tutti i segni della vita. Scuoto il capo con violenza e dico no, no, no. Lui, attonito, si blocca, poi si alza e raccoglie la giacca da terra. E le scarpe.



domenica 29 aprile 2018

SORELLA



Cullata da dolci oscillazioni, seduta composta nello scompartimento, osservi la vita scorrere veloce.

Hai quarant’anni, non hai mai amato ma hai sempre servito. I tuoi capelli non hanno mai assaggiato il vento. Ti senti schiacciata, compressa in quella nera uniforme. Vorresti uscire e finalmente respirare. Il tuo spirito prigioniero reclama libertà e non santità.

Scacci pensieri torbidi, come ti hanno insegnato a fare, come hai imparato a fare in perfetta solitudine, e volgi lo sguardo. Non sei sola. Occhi curiosi ti reclamano. Tu, proprio tu. Un lieve sorriso, un impercettibile cenno del capo fasciato da strette bende. È questo tutto ciò che sai fare, nulla di più.

E invece, per una volta, una volta soltanto, osi. E poi mai più, dici nella tua mente, dove già affiora la colpa. Sostieni lo sguardo estraneo, uno sguardo d’uomo rapace, e ti sfili gli occhiali. Il tuo unico vezzo, il solo gesto civettuolo che ardisci concepire. Come tanto tempo prima, quando ancora avevi tutta la vita davanti. Una ragazzina, con i suoi tremori e i suoi rossori. Poi, tutto si è indurito, è divenuto solida scorza, dentro e fuori. Una corazza che per una volta, una volta soltanto e poi mai più, si scioglie in fretta, trafitta da occhi assetati. Riponi l’oggetto nella tua anonima borsa, che poi nascondi, perché la sua modesta semplicità ti provoca imbarazzo. Ti guardi intorno fingendo indifferenza, cerchi di sfuggire a quel richiamo dei sensi che credevi ormai sopito, come se fosse un ricordo lontano.

Stringi le gambe fino a provare dolore. Un riflesso condizionato che ti fa sentire ridicola, inadeguata. Ti senti scrutata, spogliata e violata. E ne provi segreto piacere. Nulla però traspare, il tuo intimo si maschera, si nasconde e si mortifica. Non emetti suono. Comprendi che le parole sarebbero leggere, prive di sostanza di fronte a gesti invece eloquenti. Non riesci a sfuggire a quelle pupille scure, magnetiche e insolenti. Non sei capace di ritrovare la tua dignità.

Ma lui non capisce il tuo debole messaggio, quell’impalpabile invito. Distoglie lo sguardo, forse sconfitto, oppure annoiato. La caccia è finita, e profonda è la tua delusione. Sei salva, ma ormai perduta. Il tuo cuore piange, i nervi si rilassano. Tuttavia il pentimento ancora non arriva, forse non arriverà mai a lenire il tuo dolore. Il disagio è grande, straziante.

Con la tua bella mano, dalla pelle liscia e dalle dita sottili, ti sistemi il crocifisso sul petto piatto. Poi spiani all’infinito le pieghe di quella veste che ti opprime e ti protegge dal male e dall’estasi del mondo.


domenica 15 aprile 2018

LA TRADUTTRICE




Il suono penetrante del campanello mi causa sempre un certo fastidio, soprattutto quando sono solo in casa. Non oggi, però. Deve essere lei, la donna che sto aspettando, la traduttrice.
Sono stato fortunato ad averla trovata. Ieri, proprio a quest’ora, ero molto sconfortato.
Per vivere traduco opuscoli di istruzioni, in particolare per una azienda di piccoli elettrodomestici che esporta i suoi prodotti soprattutto in Nord Europa. Come mi è già accaduto altre volte, ho sopravvalutato la mia conoscenza della lingua svedese. Possibile che uno stupido spremi-aglio elettrico richieda così tante e dettagliate informazioni? Ho provato e riprovato ma alla fine mi sono dovuto arrendere. Mi sono reso conto di avere bisogno di aiuto. Ho scorso, in maniera febbrile, una serie di annunci finché non ho scovato la persona che mi poteva essere utile. L’ho contattata e lei ha subito accettato. È probabile che anche lei abbia la necessità impellente di lavorare. Certo, la dovrò pagare, e il mio guadagno in pratica si ridurrà a zero. Non importa, almeno conserverò la speranza di avere, in futuro, altre commissioni. Conversando con lei al telefono, ho avuto l’impressione che si trattasse di una signora di mezz’età, molto timida e riservata. L’ho dedotto dalla sua voce sommessa, dalle sue iniziali esitazioni.
Invece, quando apro la porta, mi trovo di fronte una donna giovane. Avrà al massimo trent’anni, ed è molto bella. Oggi fa piuttosto caldo, e lei indossa un vestito leggero, completamente bianco e con una profonda scollatura.
Dopo alcuni imbarazzati convenevoli, la faccio accomodare accanto a me, di fronte al computer già acceso, sul cui schermo c’è il testo dell’opuscolo, tradotto in malo modo.
La ragazza prende subito in mano la situazione e dimostra grande professionalità e ottima competenza. Mi fa notare gli errori, li corregge, mi offre dei suggerimenti.
Non posso fare a meno di sbirciare, quando credo di non essere visto, le sue gambe abbronzate. Durante uno di questi maldestri movimenti, i nostri sguardi per un attimo si incrociano. Confuso, rivolgo subito gli occhi al video, ma scorgo sulle sue labbra un lieve sorriso.
Il lavoro procede spedito. A un certo punto, nell’impeto di una spiegazione, lei appoggia la sua mano sulla mia, e guida le mie dita sul mouse. L’intero mio corpo è percorso da una scarica elettrica. La ragazza non se ne avvede e si avvicina ancora di più a me. Osservo i nostri avambracci nudi aderire, uno sull’altro, e ciò mi provoca un indicibile turbamento. Quasi trattengo il respiro. Vorrei che questo momento durasse per l’eternità. Confesso che in tutta la mia vita non ho mai assistito a un gesto di tale sensualità. Lei non si scosta. Sento il suo corpo aderire sempre di più al mio. Coscia contro coscia, fianco contro fianco, spalla contro spalla. La visione ravvicinata della sua spalla, nuda, bruna e rotonda, accelera i battiti del mio cuore. Ormai percepisco il suo profumo, il suo odore, e non so dire quale dei due effluvi sia più inebriante. Non riesco più a distinguere le parole che lei continua ad articolare, in apparenza del tutto indifferente alla mia profonda e visibile agitazione.
Mi rendo conto che devo fare qualcosa, devo almeno dire qualcosa. Che cosa mi sta accadendo?
“Scusa, non ti ho neppure chiesto come ti chiami, conosco soltanto il tuo cognome” pronuncio con un filo di voce. Una voce che non riconosco, tanto è diversa dalla mia.
Lei ritira il braccio, la sua pelle dorata mi sfiora le narici ed io aspiro, estasiato. Poi mi guarda, senza parlare.
“Giovanna? Ti chiami forse Giovanna?” azzardo a caso, in preda a un crescente nervosismo. O all’angoscia?
Ancora un leggero sorriso da parte sua, dolce e invitante. Poi scrolla le spalle.
“È un bel nome, ma non è il mio” dice.
Non oso insistere, perché temo che l’attimo magico svanisca. Ma ormai non riesco più a controllarmi. Non sono più me stesso. Con un sospiro inconsapevole, abbandono la mia fronte accaldata sull’incavo del suo collo. Un gesto inspiegabile, lo so, non da me, e che esprime tutta la mia disperazione. Attendo rassegnato la sua brusca replica, che invece non c’è. Lei non si muove, e non dice nulla. Soltanto il suo respiro accelera, in maniera impercettibile.
Colto da un accesso di autentica follia, chiudo gli occhi e infilo una mano nella scollatura del suo vestito. Accarezzo delicatamente la sua pelle liscia e calda, sempre più calda. Avverto un fremito da parte sua. Il suo corpo che reagisce.

Dopo usciamo. Il cielo è grigio, l’afa è aumentata. Sta per piovere, e sarà una pioggia tiepida.
Non ha voluto rivelarmi il suo nome. Ha detto che non devo più chiamarla. Nel caso, lo farà lei, al momento opportuno. Mi ha invitato a casa sua, in montagna, alla fine dell’estate. Fra tre mesi. Ho acconsentito a tutte le sue richieste. Sono ancora intontito e confuso, completamente disorientato.
Mi ha permesso di accompagnarla per un tratto di strada. Camminiamo senza parlare, affiancati, nella città deserta. A un certo punto mi fa cenno di fermarmi. Ubbidisco senza domandare nulla. Senza più voltarsi, lei attraversa la strada e raggiunge una vecchia Vespa celeste. Indossa il casco, avvia il motore e parte. Senza più voltarsi, senza più un saluto.
Rimango immobile sul marciapiede per lungo tempo. Poi ritorno sui miei passi, verso casa.
Una casa che adesso è piena di gente. Si tratta di amici di mio fratello. Scorgo lui, gli vorrei raccontare ciò che mi è accaduto. Ma lo vedo distratto, completamente immerso nell’adempimento dei suoi doveri di ospitalità, e allora rinuncio.
Mi chiudo nella mia stanza e mi stendo sul letto sfatto. Ho bisogno di pensare, ho la necessità di riflettere. E di ricordare.     

domenica 8 aprile 2018

PALLONCINI



Fu svegliato da una carezza sulla guancia. L'uomo allontanò il palloncino con una manata, poi si alzò.
Anche il bagno, come la stanza da letto, era pieno di palloncini di tutti i colori. La maggior parte di loro stava adagiata sul pavimento. Alcuni, al passaggio dell'uomo, si scostavano eseguendo volteggi in aria e poi ricadevano più avanti, tanto che un paio si infilarono nella tazza quando lui alzò il coperchio. Non vi badò. Sbarbato e ripulito l'uomo andò in cucina, con l'intenzione di consumare la colazione. La sua attenzione fu attratta da un palloncino, dal colore blu smorto, posato sul tavolo. Era sgonfio e in parte raggrinzito. Era vecchio. Sta per morire, considerò l'uomo, osservandolo senza toccarlo. Ma guarda! Proprio come noi, che quando diventiamo anziani ci rimpiccioliamo e la nostra pelle si riempie di rughe, pensò. Proprio come me, concluse. Poi afferrò un coltello e ne appoggiò la punta sul palloncino. Lo scoppio fu quasi impercettibile quando il palloncino esalò l'ultimo fiato. L'uomo prese la carcassa e la gettò nell'immondizia. La vita continua, disse l'uomo ad alta voce. Mise la caffettiera sul fuoco e, mentre aspettava, gonfiò non uno - come avrebbe dovuto fare nel rispetto delle regole che si era imposto - bensì due palloncini. Lasciate che i palloncini vengano a me, disse l'uomo sempre a voce alta, mentre sorseggiava il caffè e guardava commosso i due giovani palloncini azzurri che svolazzavano in cucina. Poi si preparò per uscire, sempre alla stessa ora, come faceva ogni giorno da quando era in pensione. Ben dieci anni, ormai.
Che cosa farai in pensione? Sei sicuro che non ti annoierai? Non hai interessi, come trascorrerai il tuo tempo? Andrai a fare volontariato? Queste erano state le odiose domande che amici e conoscenti gli avevano rivolto quando aveva deciso di ritirarsi dal lavoro. Lui, all'epoca, non aveva saputo che cosa rispondere, e allora aveva detto quella che gli era sembrata una sciocchezza. Se proprio non saprò che cosa fare mi metterò a gonfiare palloncini, aveva annunciato, faticando a nascondere l'imbarazzo. Ormai di amici non ne aveva più, tutti lo avevano abbandonato, alcuni erano persino morti, e tanto meno aveva dei conoscenti, dunque era inutile parlare di rivincita. In ogni caso, nel suo intimo, l'uomo era comunque soddisfatto: aveva trascorso gli ultimi dieci anni della sua esistenza proprio gonfiando palloncini!
Rinvigorito da tali pensieri, di buon passo nonostante l'età, l'uomo si diresse al suo negozio preferito.
Il cartolaio lo salutò con un gran sorriso. "Signor Mario, che piacere vederla! Ho delle cose per lei!" Gli porse un sacchetto che conteneva alcuni palloncini sgonfi. "Guardi che bei colori! Sono tutte tinte pastello! Una novità!" aggiunse entusiasta il negoziante.
L'uomo prese la busta e se la strinse al petto. Chiuse gli occhi. Non vedeva l'ora di tornare a casa e di gonfiarne qualcuno. E al diavolo la sovrappopolazione!

venerdì 30 marzo 2018

STUPIRSI


Da tanto tempo, ormai, si è persa la capacità di stupirsi.
Quella di sbalordirsi, di restare strabiliati di fronte a qualcosa, è una caratteristica tipica dell’età infantile. È raro ritrovarla in un adulto, in una persona vissuta, in chi ha avuto modo di saggiare e patire le innumerevoli asperità dell’esistenza.
Spalancare gli occhi, sostare incantati a osservare una giostra, una gru, oppure un buffo animale è cosa da bambini, peculiarità di uno sguardo innocente, limpido e non ancora corroso da brutture e da vicende tristi.
Nell’individuo maturo, in tali occasioni, scatta invece spontaneo il disincanto, la capacità di astrarsi, di provare il necessario distacco dalla situazione. E così la giostra si trasforma in un chiassoso marchingegno che ferisce i timpani, nulla di più, e niente che abbia invece a vedere con il divertimento, con un aspetto ludico che non può più essere colto. E la gru non è un magico macchinario, un attrezzo prodigioso bensì un bieco strumento di oppressione e di fatica per lo sventurato e infelice operaio addetto alla manovra. Infine il cane, quel grosso cane festante dal pelo ispido, ispira più tenerezza che gioia o sbalordimento.
Chi è colmo di cicatrici, di una dura scorza che ricopre ferite dell’anima ormai rimarginate ma che ne hanno intaccato l’essenza profonda, non può più trovare ricovero nella sorpresa, ma ineluttabili subentrano l’indifferenza e l’incapacità di rimanere colpiti, di meravigliarsi.
Eppure, quella corazza che riveste il fragile corpo, quell’armatura coriacea e invisibile è l’unico possibile congegno di difesa, un dispositivo immateriale che permette di attraversare l’esistenza senza subire danni estremi, definitivi.
In fondo, il fatto di non rimanere mai di stucco, di non sorprendersi più di nulla, né del bene né del male, è ciò che consente di vivere.
È triste, comunque, dover pensare di avere smarrito qualcosa, per sempre, in maniera irrimediabile.