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sabato 28 ottobre 2017

DUE RAGAZZI IN CARTIERA


I due ragazzi camminano sulla strada deserta. Il più robusto procede con le mani in tasca e si guarda attorno, l'altro si trascina dietro un carrettino di legno. Vuoto. Non parlano. Adesso imboccano una discesa assai ripida. Il mingherlino fatica a frenare il carretto, che prende velocità. L'amico si fa più attento, osserva e sorveglia ma senza intervenire. Il nastro d'asfalto ridiventa piano. Sulla destra si intravede appena una traccia, un sentiero sterrato. I due ragazzi lo seguono. Il fondo del viottolo è molto sconnesso, rovinato dal ripetuto passaggio dei trattori. Il veicolo a traino sobbalza. È tardo pomeriggio di una domenica, siamo nel mese di luglio e fa molto caldo. I due all'improvviso si arrestano. Beppe e Vincenzo sono giunti alla loro meta. Il carrettino è abbandonato dietro alcuni grossi cespugli. Dalla strada è impossibile che qualcuno lo scorga. Avanzano ancora e dopo un po' si trovano di fronte un canale. É gonfio d'acqua ma largo poco più di un metro. Prima uno poi l'altro i due ragazzi prendono una breve rincorsa poi saltano attraversandolo. Entrambi  sono molto agili. Ora si trovano in un enorme piazzale. Ci sono degli edifici, e ci sono delle grandi tettoie. I giovani si trovano all'interno della cartiera. Oggi è festa e quindi non c'è nessuno. Tutto intorno c'è una alta recinzione, tranne che in un punto, il breve tratto di canale. Dopo numerose esplorazioni loro hanno scoperto quella via di accesso e l'hanno già utilizzata più volte. Nessun rumore. Nulla, non ci sono guardiani, non ci sono cani o sistemi di allarme. La cartiera è uno stabilimento di piccole dimensioni, e si trova in una borgata sperduta del paese. Per Beppe e Vincenzo tuttavia quella non è una fabbrica, loro la chiamano miniera. Al riparo delle tettoie ci sono vere e proprie montagne di carta. Centinaia e centinaia di balle quadrate, composte da carta più o meno compressa, disposte in maniera ordinata, impilate una sull'altra a formare delle vette di altezza differente. I ragazzi, eccitati come sempre per l'incursione, si guardano e, senza dire nulla, si mettono al lavoro. Comincia la scalata. I due attaccano, con rapidità, forza e decisione. Si arrampicano in scioltezza, aiutandosi tra loro. Certo, occorre fare molta attenzione, l'ascesa può diventare assai rischiosa. Tra una balla di carta e l'altra si aprono dei profondi crepacci, se queste non sono ben accostate. Una caduta avrebbe serie conseguenze. Finalmente i due arrivano in cima al mucchio selezionato in precedenza con occhio ormai esperto. È importante scegliere bene: da ciò dipende la riuscita di una parte dell'impresa. I due ragazzi riprendono fiato, si rilassano un attimo. Poi Beppe estrae dalla tasca posteriore dei pantaloni una tronchesina e, con gesti energici e precisi, inizia a recidere lo spesso filo di metallo che tiene unito il blocco. Il risultato è sorprendente. La carta, a lungo pressata, si rianima e riprende vita. Beppe ripone l'attrezzo e, aiutato dall'amico, comincia a scavare con le mani. I due cercano libri e riviste sfuggiti alla compressione. Ben presto Vincenzo esulta. Tiene in mano una vecchia copia, in discrete condizioni e di sicuro leggibile, di Il lupo dei mari di Jack London. Una grande soddisfazione si scorge sui volti dei due amici, che proseguono subito a lavorare, entusiasti. Estraggono delle riviste di sport, alcuni albi a fumetti. Ritrovamenti minori. Ma i due non si arrendono e continuano ora con metodo, mettendo a frutto le passate esperienze. Vincenzo sofferma lo sguardo su un romanzo erotico di ambientazione storica. Il volume è un po' spiegazzato, ma lui riesce ad aprirlo e a sfogliarlo. Legge, a caso, alcuni passaggi nella parte centrale del libro, incuriosito. Si narra di un gigante che è stato rinchiuso in una prigione sotterranea. L'essere ha i lineamenti del volto deformi, ed è completamente nudo. In piedi, si afferra alle robuste sbarre della cella e le scuote con rabbia. Il suo membro, turgido e dalle dimensioni smisurate, sporge dalle sbarre e sembra animato di vita propria. Il gigante emette dei suoni gutturali, non è in grado di parlare, forse gli è stata recisa la lingua. All'improvviso entrano nella prigione due ragazze molto belle, una bionda e l'altra bruna. Non si riesce a comprendere chi possano essere e quale sia il loro ruolo nell'intreccio. Ma ciò non ha importanza. Vincenzo, ora piuttosto eccitato, prosegue la lettura. Le due giovani lanciano esclamazioni di stupore alla vista del sesso del gigante. Vi si avventano, se lo contendono, lo manipolano violentemente, lo strattonano. L'essere imprigionato mugola di piacere, finché non accade l'inevitabile. Basta così. Quelle misere pagine hanno già preso fin troppa aria. Il ragazzo chiude di scatto il libro e lo butta. Beppe ha notato tutta la scena e richiama l'amico all'attenzione. E così si ricomincia. Sotto la tettoia fa molto caldo e sui volti dei ragazzi si accumulano sudore e polvere. In più, si sta facendo tardi. I due amici si scambiano un cenno d'intesa, ripongono ciò che sono riusciti a recuperare in una borsa di plastica, e si dedicano alla seconda parte dell'operazione. Si tratta del lavoro più sporco, quello di quantità. Afferrano manciate di carta, quella più pesante, e la gettano a terra. I tonfi si susseguono per parecchi minuti. A un certo punto i due decidono che è arrivato il momento di smettere. Adesso sono alquanto affaticati, ma bisogna ancora affrontare la discesa dalla montagna di carta. Ciò deve essere fatto con estrema prudenza, il pericolo è sempre in agguato, in misura ancora maggiore rispetto all'ascesa. La stanchezza, la falsa sicurezza, potrebbero avere gravi conseguenze. Ma alla fine ce la fanno. Si ritrovano a terra, nell'ampio piazzale asfaltato. Intorno a loro c'è soltanto il silenzio della campagna. I due ragazzi sono circondati da disordinati mucchi di carta. Si tratta di prenderla e, poco per volta, di buttarla oltre il canale, nel prato che lo costeggia. Allora si danno da fare, e paiono infaticabili. Quando tutto il materiale è ormai sull'altra sponda, l'ultimo salto sull'acqua. La scioltezza di un paio d'ore prima non c'è più, e comunque rimane ancora da affrontare un'ultima fatica. Vincenzo, camminando lentamente, i muscoli dolenti, va a recuperare il carretto. Beppe ammucchia la carta. Tutto ciò che è stato raccolto è riposto in maniera ordinata sul trabiccolo a ruote. Si riparte, di nuovo Vincenzo traina il veicolo, ma adesso Beppe lo aiuta spingendo. Un paio di chilometri, con la difficoltà non da poco della ripida salita finale, e avranno finito. Per quel giorno, almeno. Domani i due ragazzi riprenderanno il carretto colmo e si recheranno di nuovo in cartiera. Stavolta però faranno il loro ingresso attraverso l'entrata principale. Lo stabilimento sarà aperto, animato dalle grida degli operai. E tra loro ci sarà pure il signor Luigi, il padre di un loro amico. Luigi è l'addetto alla pesatura della carta. Uno dei due ragazzi andrà con lui nell'angusto gabbiotto e assisterà all'operazione, l'altro sistemerà il carretto sull'ampia piattaforma di metallo. Poi fingerà di allontanarsi mentre invece rimarrà con i piedi sulla pedana, fermo sul vertice di uno degli angoli, per aggiungere un po' di peso in più. Il signor Luigi, come sempre, non se ne accorgerà. O lascerà intendere di non essersi accorto della furba manovra. Infine i due ragazzi passeranno in ufficio, dal contabile, a ritirare i soldi per la carta venduta, qualche centinaio di lire il chilo. Quel denaro sarà impiegato per comprare libri. Nuovi, finalmente.

domenica 22 ottobre 2017

LA CINA E' VICINA


Negli ultimi tempi il tema dell'immigrazione è stato di grande attualità, e lo sarà per molto tempo ancora. Si parla del problema degli sbarchi nel sud del nostro paese, e delle altre rotte via terra attraverso le quali i migranti cercano di entrare in Italia e in Europa, mentre si accenna ben poco, se non per nulla, a un genere di migrazione che tuttavia ha assunto un carattere sistematico: quella dei cinesi.
La comunità cinese è la quarta, per consistenza numerica, in Italia. Si tratta di quasi 350.000 persone, metà delle quali sono donne.
Per quale motivo si accenna così poco a questa pur importante migrazione, tra l'altro da un paese così lontano dai nostri confini?
Le ragioni, a mio avviso, sono più di una. Passiamo a esaminarle in maniera sintetica.
Innanzitutto i cinesi non arrivano mai in massa, ma con un flusso costante e continuo, attraverso canali quasi misteriosi. Ciò fa sì che il fenomeno non sia avvertito con evidenza, che passi quasi inosservato, che non sia percepito come una specie di invasione, a differenza di quanto avvenga nei confronti di chi giunge nel nostro paese, ad esempio, dall'Africa.
La comunità cinese è una comunità estremamente chiusa, autonoma e quasi del tutto autosufficiente. I cinesi che si trovano nel nostro paese non accampano richieste di diritti, sembrano essere poco interessati all'integrazione, per nulla attirati dall'ottenimento della cittadinanza del paese che li ospita.
I cinesi arrivati in Italia assumono un basso profilo. Raramente sono coinvolti in episodi di criminalità, anche se di sicuro non mancano i regolamenti di conti all'interno della comunità, ma ciò avviene senza clamore, senza creare e alimentare allarme sociale.
L'autosufficienza, economica e sociale della comunità cinese, è dovuta soprattutto al fatto che insieme alle persone arrivano anche capitali. Esistono, in Cina, società che investono e ricavano profitto dai migranti. Gli immigrati si ritrovano a gestire, per conto di tali società, numerose e varie attività commerciali: ristoranti, bar, sartorie, lavanderie. Il loro lavoro serve per ripagare la possibilità di migrare che hanno avuto. Diversamente da ciò che si crede, soltanto una metà degli immigrati cinesi è impegnato in una qualche attività commerciale. Gli altri risultano occupati, e spesso sfruttati, come operai nelle numerose piccole fabbriche di confezionamento di abiti. Insomma, come si può dedurre, si tratta di un fenomeno migratorio guidato dall'alto, rivolto a un preciso tornaconto, allo stesso modo in cui avviene, sempre da parte della Cina, in Africa, sebbene con modalità alquanto differenti (acquisto di grandi estensioni terriere da destinare a coltivazioni intensive).
I cinesi, una volta conclusa la loro attività lavorativa, immancabilmente fanno ritorno al loro paese di origine. É assai raro scorgere anziani cinesi nelle nostre città.
Un altro aspetto importante, che fa sì che l'immigrazione dalla Cina non sia colta nella sua reale dimensione, è quello religioso. La religione dei cinesi (qual è?) non disturba, non provoca la minima apprensione, è ridotta a forma del tutto irrilevante.
Da tutto quanto esposto si può dedurre che l'immigrazione cinese rappresenta un qualcosa di particolare, di unico, all'interno di un fenomeno che invece riproduce caratteristiche più comuni e condivise.


L'ALBERO DELLA CUCCAGNA



Anteprima tratta dal libro "Le storie di Magnìn", di Enzo Sopegno (Youcanprint Edizioni) in uscita a novembre 2017.


Un lungo palo era stato issato proprio nel mezzo della piazzetta. Sergio e Giors, con l'aiuto di una scala a pioli, avevano provveduto a ingrassare per bene l'asta e a sistemare sulla sua sommità i premi. I due compari avevano fatto un ottimo lavoro: il palo era più scivoloso di un'anguilla appena pescata.
Come di consueto, i primi a cimentarsi nell'ardua impresa furono i giovani. Ci provarono a lungo, prima uno poi l'altro poi un altro ancora. Non ci fu nulla da fare. Quei giovanotti ben vestiti riuscivano a salire sull'albero viscido per non più di un paio di metri, per poi ricadere a terra come sacchi tra le risate generali.
Magnìn gettò a terra il mozzicone tutto insalivato, poi lo schiacciò bene facendo ruotare su di esso lo scarpone.
"Non hanno energia" commentò.
"Per forza, non bevono" rispose Luigino. L'altro approvò convinto.
L'albero della cuccagna era ancora inviolato. Lo sguardo dei presenti, a quel punto, si spostò verso un angolino appartato della piazza.
"Ci deve provare Gelu! Lui ci può riuscire!" urlò Costantino, il calzolaio.
Gelu era una persona mite e schiva, che preferiva sempre stare in disparte. In quel momento era seduto su una panchetta, in grembo aveva un bottiglione di vino quasi vuoto e stava ascoltando la musica. Gli piacevano molto i valzer e le mazurke, e non si stancava mai di starle a sentire, tuttavia non aveva mai avuto il coraggio di cimentarsi nel ballo. Era troppo timido, e poi le donne gli facevano paura. Gelu portava, ben calcato, il solito cappellino di paglia. Del suo viso si intravedevano soltanto le guance non rasate, dalla pelle dura come il cuoio non conciato, e il grosso naso. Sentendo pronunciare il suo nome, Gelu si alzò in piedi. L'uomo era alto e smilzo, tuttavia aveva delle braccia molto muscolose e smisuratamente lunghe, che gli arrivavano fin sotto le ginocchia.
"Gelu, provaci tu!"
"Se non ci riesci tu non ci riesce nessuno!"
"Dai che ce la fai!"
La folla ormai lo acclamava. Gelu, che non era abituato a essere al centro dell'attenzione, si emozionò. Iniziò a correre verso l'albero della cuccagna, pronto a scalarlo ma, anche a causa del troppo vino bevuto, calcolò male la distanza e cozzò con violenza, di testa, contro il palo. Stramazzò al suolo, intontito. Alcuni volenterosi lo portarono via.
Dolfo, il camionista, diede una robusta spinta a Luigino e lo scaraventò al centro della piazza.
"Ci prova lui!" disse.
Luigino, sebbene un po' disorientato, annuì. Da quando sua madre e la scopa erano finalmente andate a dormire aveva potuto rilassarsi e bere in pace. In più, con un'abile e furtiva mossa, era riuscito a sottrarre la fiaschetta di liquore di prugna dal seno di Michelina. L'aveva scolata tutta, l'equivalente di cinque sei cicchetti. Provò per quasi mezz'ora ad avvicinarsi al palo, tra l'incitamento del pubblico, ma non ci riuscì. Il fatto è che di alberi della cuccagna ne vedeva almeno una decina, invece di uno, e non riusciva mai ad azzeccare quello vero. Ogni volta abbracciava il vuoto e piombava rovinosamente a terra. Alla fine dovette rinunciare.
"Eh! Per salire lì sopra ci vogliono delle braccia d'acciaio" sentenziò Giovannino, un anziano contadino con una pancia enorme.
"Braccia? Bastano le gambe" disse Magnìn.
"Che cosa? Vorresti farmi credere che tu riesci a salire senza usare le braccia?" ribattè l'altro.
Magnìn lo guardò torvo.
"Ho detto che salgo senza usare le braccia e lo faccio!"
L'intera piazza ammutolì.
Magnìn, a grandi passi, si avvicinò all'albero della cuccagna. In una mano aveva una sigaretta, nell'altra una bottiglia di vino da un litro. Rifletté un attimo, poi attorcigliò le gambe attorno al palo e, senza apparente sforzo, iniziò a sollevarsi. Dopo pochi istanti era in cima. Tirò un paio di boccate dalla cicca e bevve un sorso di vino, poi iniziò a staccare i premi e a buttarli di sotto. Centrò in pieno il suo amico Romualdo con un grosso salame e lo mise fuori combattimento. Almeno la moglie non potrà dire che è svenuto perché ha alzato troppo il gomito, considerò tra sé il figlio dello stagnino.

sabato 14 ottobre 2017

IL MAESTRO


Quando lo vedemmo la prima volta, ne fummo tutti intimoriti. Non che fossimo dei novellini, quello era già il nostro quinto anno di scuola e, negli anni trascorsi, avevamo avuto quattro diversi insegnanti. Cambiare maestro era divenuta di conseguenza per noi faccenda assai consueta. Al di fuori di qualche piccolo contrattempo nel corso del primo anno (la maestra assegnata per il nostro esordio scolastico era persona con evidenti e manifesti problemi di equilibrio psichico), gli anni successivi erano filati lisci, allietati da maestre serene e pacifiche e con spiccate doti materne. Adesso, invece, ci trovavamo di fronte quell'uomo dall'aria severa e provvisto di minacciosa barba nera. In realtà il Maestro era un ragazzo di poco più di venticinque anni, impegnato in una delle sue prime esperienze di insegnamento; ma noi lo percepimmo, da subito, come persona molto adulta. In fondo noi non eravamo che bambini.
La nostra era una piccola scuola di campagna, frequentata per lo più da figli di contadini e operai. Cinque classi e cinque aule in un grazioso edificio di inizio secolo. Non c'era la palestra, naturalmente, ma soltanto un minuscolo cortile ricoperto di ghiaia, utilizzato per la ricreazione.
Il Maestro vestiva maglie dolcevita, pantaloni dal taglio antico, grosse scarpe, e sfoggiava una inusitata risolutezza, rara in una persona così giovane. La sua voce, dal timbro grave e sicuro, riusciva nello stesso tempo a mettere soggezione e a calamitare all'estremo la nostra attenzione. Era ipnotica. Il suo metodo di insegnamento era moderno e innovativo. Rispettava i programmi scolastici desueti del tempo, insistendo molto sull'apprendimento dell'aritmetica e della buona e corretta scrittura, tuttavia dedicava quantità rilevanti di tempo anche ad altri aspetti della nostra educazione didattica. Il suo scopo principale era quello di allargare la nostra conoscenza del mondo. A tale proposito ogni giorno si presentava in classe con almeno due quotidiani, uno dei quali era sempre la sua prediletta Unità. Intendiamoci, all'epoca il giornale fondato da Antonio Gramsci era un quotidiano con i fiocchi, che dedicava ampio spazio, oltre che alla politica interna, agli avvenimenti internazionali. D'accordo, era pure un foglio di partito, ma a noi quell'aspetto interessava poco. Non così fu per alcuni dei nostri genitori. Alcuni di loro protestarono. Non ritenevano giusto che tali letture venissero sottoposte a ragazzini. Il Maestro, di fronte a tali rimostranze, non batté ciglio. Non si scompose neppure quando qualcuno minacciò di rivolgersi alle autorità scolastiche. Non se ne fece nulla e fu una fortuna. Continuammo a sfogliare e leggere i giornali che ci proponeva il Maestro, compresa la discussa Unità, e tale attività rivestì un ruolo di rilievo nella nostra preparazione, e ci consentì di frequentare le scuole medie senza il minimo affanno. Era pure interessante e sorprendente, ai nostri occhi di bamboccetti, l'atteggiamento del Maestro nei confronti dell'insegnamento della religione. Quando, una volta la settimana, veniva in classe il vecchio don Felice per la sua lezione di religione, il Maestro lo salutava con gentilezza e rispetto e poi usciva dall'aula, per tornare soltanto quando il prevosto aveva terminato.
Quelli erano gli anni della guerra del Vietnam, e in quel bellissimo e appagante anno scolastico noi, attraverso le notizie dei giornali, ne avevamo seguito il tragico svolgimento in maniera scrupolosa. Un giorno di primavera il Maestro richiamò la nostra attenzione. Disse che aveva per noi una sorpresa: l'indomani avrebbe portato in classe una sua amica, una famosa giornalista che era stata inviata di guerra per un giornale milanese che ben conoscevamo. Poi, serissimo come sapeva essere lui, aggiunse che avremmo dovuto preparare delle domande da rivolgere alla giornalista, e il tema era proprio il Vietnam, perché quella donna la guerra l'aveva seguita proprio sul campo, e sarebbe stata in grado di soddisfare tutte le nostre curiosità. Ma che le domande fossero precise, interessanti e ben pertinenti, disse ancora, altrimenti gli avremmo fatto fare brutta figura. Concluse dicendo che aveva parlato molto bene di noi alla sua amica. Il giorno successivo tutti noi eravamo molto emozionati. Il Maestro arrivò in classe accompagnato da una donna molto bella, che dimostrava meno dei suoi quarant'anni, vestita in maniera sportiva, con la fronte spaziosa e capelli lunghi e lisci. La giornalista ci donò, per la biblioteca di classe, alcune copie di due suoi libri. Uno parlava del periodo di tempo che lei aveva trascorso alla base americana di Cape Canaveral, insieme agli astronauti che in quel periodo si preparavano a dare l'assalto alla Luna. L'altro era il resoconto della sua esperienza in Vietnam. E fu di questo che ci parlò, sollecitata dalle nostre domande e dai puntuali interventi del Maestro. In conclusione ci raccontò anche di quando era stata ferita, un paio di anni prima, in una sparatoria avvenuta a Città del Messico, (e non in Vietnam!) quando la polizia aveva aperto il fuoco contro gli studenti che manifestavano. Insomma, quella fu per noi una giornata memorabile. Quella giornalista, a noi allora sconosciuta, era Oriana Fallaci.
Il Maestro, nel seguito della sua vita, ha fatto una meritata carriera. Già l'anno successivo all'esperienza con la nostra classe, ottenne una cattedra alla scuola media. Nel corso degli anni è diventato docente universitario, importante filologo e critico letterario, nonché apprezzabile storico della lingua italiana, collaboratore di diverse riviste e quotidiani, curatore di progetti editoriali.
Qualche anno fa gli ho scritto una mail, alla quale lui ha prontamente risposto. Si ricordava perfettamente l'esperienza giovanile nella piccola scuola di campagna. Rammentava ancora i nomi di alcuni miei compagni di classe, in particolare quelli dei ragazzi più problematici, dei quali mi ha chiesto notizie.
È raro che un semplice insegnante elementare rivesta un ruolo così fondamentale nella formazione educativa e culturale di una persona, di un ragazzino. Per me è stato così e ancora oggi ringrazio il mio Maestro dalla barba nera.

domenica 8 ottobre 2017

FINE PENA MAI


In quel freddo giorno di dicembre gli consegnarono una penna, una matita e una gomma, poi lo condussero in cella. Prima gli avevano detto che poteva tenere i suoi abiti. Con sua sorpresa, l'ambiente in cui lo lasciarono era molto spazioso. Comprese che avrebbe trascorso il lungo periodo di detenzione con alcuni compagni. Lo stanzone aveva i muri, un po' scrostati, dipinti di color giallo carico, una tinta opprimente, che sconfortava. Prima di lasciarlo gli indicarono il suo posto, in un angolo: una scrivania e una sedia. La sua carcerazione ebbe così inizio. Era stato condannato a una pena di trentacinque anni. Il regime, fin dall'inizio, sarebbe stato quello di semilibertà. Avrebbe trascorso l'intera giornata in carcere poi, ogni giorno, sarebbe tornato a casa per dormire. Trentacinque anni! Eppure, ripensandoci, aveva fatto di tutto per essere condannato. Nel periodo immediatamente precedente l'arresto si era sbattuto in tutti i modi, aveva percorso tutte le strade, cercato ogni complicità, impiegato tutte le sue energie e le sue risorse per essere preso. Quando ciò era finalmente avvenuto era stato contento. Soltanto quando si accomodò sulla sedia cigolante, e appoggiò le braccia sul piano della scrivania tutto graffiata, si rese conto di avere perso la sua libertà. I giorni, in cella, si susseguirono tutti uguali. Gli fu assegnato un lavoro. Nulla di complicato, nulla che non fosse in grado di svolgere. Si impegnò molto, in quella mansione, anche perché quello era l'unico modo per far sì che il tempo trascorresse più in fretta. Nel frattempo, quasi senza accorgersene, invecchiava. Riuscì a stringere qualche amicizia con i compagni di sventura. Alcuni erano suoi coetanei, anche loro condannati a pene analoghe alla sua, altri di mezza età, altri ancora erano più anziani e avevano già scontato la condanna quasi per intero. Invece di essere i più felici, questi ultimi erano i più tristi. Trascorsero gli anni, tanti e tutti uguali. Gli fu cambiata la cella, conobbe nuovi compagni, ma tutto il resto non mutò. Si comportò sempre in maniera ineccepibile: rispettava l'autorità, eseguiva i suoi semplici incarichi, non litigava con i compagni. Mai fu coinvolto in risse, e dire che in quell'ambiente claustrofobico, sovente malevolo, le zuffe erano all'ordine del giorno. Quando si avvicinava la fine della carcerazione, e lui era ormai un vecchio, gli fu comunicato che la sua condanna era stata prolungata. Altri dieci anni. Non gli fu data alcuna spiegazione. Era così e basta. Si sentì come un recluso, innocente, di un gulag sovietico, finito in un incomprensibile tritacarne, dove la liberazione finale era sempre dettata dall'incertezza, dal caso quando non dal capriccio dei persecutori. Si consolò pensando che nella sua cella almeno non pativa il freddo, la fame né altre privazioni. Rassegnato, vinto, ricominciò il suo movimento ritmico, apatico e noioso di tutti giorni. Ormai era tra i detenuti più anziani. I giovani erano pochi, negli ultimi anni evidentemente gli arresti erano diminuiti. Alla fine della giornata, come sempre, si recò stancamente a timbrare il cartellino, operazione che gli consentiva di uscire all'aria aperta. Si trascinò in strada, il passo lento e strascicato, e si rese conto che non avrebbe mai riottenuto la libertà. E se anche ciò fosse accaduto, non avrebbe saputo che farsene. No, il tempo della pensione non sarebbe mai arrivato, e comunque non gli interessava più.