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sabato 26 agosto 2017

PALLACANESTRO



Il ricordo più intenso che conservo dei tempi della scuola media è quello delle lezioni di educazione fisica. E del professor C. e della pallacanestro. Il nostro insegnante era un tipo particolare: vestiva sempre con una giacca blu scuro e pantaloni grigi, portava i capelli lunghi, gonfiati con il phon e fissati con una abbondante dose di lacca. Rammento il suo grosso naso e la sua voce pacata e dal timbro sottile. Il professor C., fin dal primo giorno che ci conobbe, decise di scacciare dalle nostre giovani menti la fissazione per il calcio. Stabilì che durante tutto l'anno scolastico avremmo praticato un unico sport: la pallacanestro. E fu così anche l'anno successivo. L'ultimo anno, con nostro grande dispiacere, il nostro insegnante preferito non ricomparve, sostituito da un anonimo e più giovane collega che non lasciò di sé alcuna traccia.
Il primo giorno di lezione fummo divisi in due squadre. Il professore, dimostrando grande generosità, ci consentì di chiamarle Torino e Juventus. Io fui assegnato alla prima. All'epoca era d'obbligo indossare, durante l'attività di educazione fisica, una maglietta bianca e dei pantaloncini blu. Il nostro insegnante ci diede il permesso di personalizzare tali scialbe divise. Ognuno di noi si fece cucire, dalle proprie madri o dalle sorelle maggiori, una grande lettera sulla maglietta: una T di colore granata oppure una J di colore nero. Eravamo pronti per iniziare le nostre sfide, che sarebbero andate avanti per due anni ogni volta che c'era lezione di educazione fisica.
Il professor C. fu fortunato (o abile?) nella scelta dei giocatori, titolari e riserve, che componevano le due squadre, tanto che le partite risultavano sempre piuttosto equilibrate. Una volta prevaleva una compagine, la volta successiva quasi sempre vinceva l'altra. In tal modo il nostro interesse per quello sport che iniziammo ad apprezzare era sempre alimentato, e ognuno di noi non vedeva l'ora di andare in palestra per prendersi una rivincita su una precedente sconfitta. Il professor C. aveva sempre con sé un piccolo quaderno, sul quale annotava con cura maniacale i risultati delle partite e stilava classifiche.
Ognuna delle due squadre disponeva di un giocatore di alta statura, dote che in uno sport come la pallacanestro consente spesso di sovrastare gli altri. Per quei due sventurati non era affatto così. Erano ragazzi completamente negati per qualsiasi attività sportiva. Erano rigidi, impacciati nei movimenti, del tutto privi di coordinazione motoria, quasi incapaci persino di correre. Guerrino era nella mia squadra. Era un ragazzo alto più di un metro e ottanta, rosso di pelo, con il viso cavallino disseminato di lentiggini. Figlio di contadini, aveva delle mani enormi, callose e abituate ai lavori di fatica. Guerrino era un gran bravo ragazzo. Frequentai con lui le scuole medie e poi tutte le superiori, dove io gli permettevo di copiare i miei temi e lui si sdebitava passandomi gli esercizi di computisteria e di tecnica bancaria, materie che studiavo con scarso impegno. L'altro spilungone era un ragazzo del quale, confesso, non ricordo il nome. Lo chiamavamo sempre e soltanto per cognome, e quello ancora lo rammento. Anche lui, come Guerrino, era molto alto e magro. Aveva una grossa testa a forma di triangolo rovesciato, sulla cui sommità spuntavano irti capelli neri. Portava degli occhiali con piccole lenti rotonde, che gli davano l'aria dello scienziato pazzo. Durante le partite sistemavamo lui e Guerrino sotto il canestro e dicevamo loro di non muoversi. Il loro compito, con l'ausilio della loro alta statura, era quello di raccogliere i rimbalzi. Anche in quell'apparente semplice compito si rivelarono essere delle autentiche frane. Arrivavano sempre a intercettare il pallone in ricaduta ma non riuscivano mai ad afferrarlo, talmente erano goffi. Non saltavano ma si limitavano ad allungare il più possibile le braccia, le mani con le dita rigide e protese. Un giorno, finalmente, Guerrino riuscì a far suo un pallone che aveva a lungo danzato sull'anello senza però entrarvi. Il pallone sembrò scomparire tra le sue manone. Quindi lo lanciò con tutta la sua notevole forza verso il canestro. La palla rimbalzò con un colpo secco contro il tabellone e poi si insaccò. Naturalmente quello non era il canestro della squadra avversaria. Quando si rese conto del tremendo errore il povero Guerrino avvampò, tanto che divenne difficile distinguere il colore del suo viso da quello dei suoi capelli. Tutti noi comprendemmo il suo dramma e, mentre il professor C. ridacchiava divertito, ci buttammo su Guerrino, lo abbracciammo festosi e ci congratulammo con lui. In fondo era pur sempre il suo primo punto realizzato, che importava se non lo aveva fatto nel canestro giusto?
Come detto, poco per volta ci appassionammo alla pallacanestro e quasi dimenticammo il calcio. Imparammo alla perfezione tutte le regole. D'altra parte il professor C. era inflessibile. Fischietto in bocca, sanzionava con severità tutte le infrazioni: fallo di passi, doppio palleggio, palla trattenuta e ogni contatto fisico troppo violento.
Da parte mia me la cavavo abbastanza bene. Avevo un fisico minuto, tuttavia ero agile e svelto. Sapevo palleggiare bene, ero preciso nei passaggi e nel tiro (spesso mi allenavo a casa, da solo, utilizzando un canestro costruito con maestria da mio padre e che avevo agganciato alla ringhiera di un balcone).
Il giocatore più forte, e che avevo la fortuna di avere nella mia squadra, era senza dubbio Gerardo. Era un ragazzo che viveva nelle case popolari, insieme ai genitori e a una lunga serie di fratelli e sorelle. Gerardo aveva un fisico particolare: il busto lungo e sottile, il sedere sporgente e gambe muscolose. Portava occhiali dalle lenti molto spesse che non si toglieva mai, in special modo quando giocava. Diceva che altrimenti non avrebbe neppure visto il canestro. Gerardo aveva una voce bassa e roca, da persona adulta, ed era un vero giocoliere. Il professor C. non mancava mai di rimproverarlo quando eccedeva in virtuosismi, che comunque gli riuscivano benissimo.
Toccammo la nostra apoteosi (che rappresentò anche la fine di tutto) al termine del secondo anno di scuola media. Il professor C., d'intesa con alcuni suoi colleghi, organizzò un torneo tra i migliori della nostra scuola (una specie di "nazionale", e io fui tra i selezionati) e squadre di altre scuole della provincia. Inutile dire che lo vincemmo. Eravamo molto più bravi, molto più preparati, di tutti gli altri. Il professor C. fu molto orgoglioso della nostra impresa.
Il ricordo più luminoso che custodisco dei tempi della scuola media è dunque quello di un pallone arancione, di un anello di metallo con la reticella e di una persona, il professor C., di grande spessore umano.

sabato 19 agosto 2017

CITTA' DESERTA


Il vostro cronista si aggira, sotto il solleone di agosto e con il taccuino pronto, per le strade deserte della città. Cioè, a dire il vero non è che le vie e le piazze siano poi così spopolate. Insomma, c'è un sacco di gente: turisti, venditori di cianfrusaglie, bighelloni vari. Il fatto è che quel fetente del mio direttore, prima di partire per le sue vacanze in Corsica, mi ha detto: "Mi raccomando, non deve mancare un bell'articolo sulla città disabitata. Lo dovrai intitolare Deserto d'agosto". Non importa, vuol dire che fingerò che non ci sia anima viva, anche se non sarà facile. Mentre cammino tra la folla, urtato e spintonato di continuo, lascio spazio a qualche riflessione. Il nuovo sindaco ha compiuto un autentico miracolo: è riuscito a trattenere in città molte persone. La metropoli, a differenza di altre volte, è viva. Questi cittadini hanno deciso di non partire, di non andare in vacanza, per potersi godere appieno, in questi giorni di vacanza, le bellezze della loro città. E non si può dire, e tantomeno scrivere, che tutto ciò sia dovuto alla crisi economica che ancora persiste. No, la crisi non c'è più. Almeno, questa è la posizione ufficiale del mio giornale, che non condivido del tutto ma che devo necessariamente accettare, pena licenziamento immediato.
Ma adesso basta indugi, il vostro cronista ha deciso di procedere con alcune interviste. Individuo subito il mio uomo. Un tipo alto e biondo, distinto, abbastanza giovane. Porta occhialini tondi da intellettuale.  E dal suo aspetto ricavo che si tratta di sicuro di un indigeno, da decine di generazioni.
Lo avvicino.
"Buongiorno, le posso fare una domanda?" Lui sorride, gentile. E annuisce.
"In questi giorni nei quali la città è deserta, o quasi, la qualità di vita del cittadino migliora oppure, a causa dei minori servizi offerti, peggiora?"
"Sprtnkiy drtuk frjzp gttmntoll ell ausmjk" risponde.
"Eh? Scusi, ma non ho compreso bene".
"Grtyss aukhh!" ribadisce.
"Grazie".
Il vostro cronista ha fallito e si allontana con la coda tra le gambe. Ma non si dà per vinto. Vedo subito un'altra persona che fa al caso mio. Maschio, bianco, sulla sessantina. Indossa un cappello di paglia, una camicia felpata a grossi riquadri, pantaloni di fustagno. Ai piedi porta due robusti scarponi lucidati con cura. Ci siamo, questo è di certo un autentico indigeno.
"Salve, permette una domanda?"
"Lei è un giornalista?" mi chiede, con voce roca.
"Sì".
"Sta facendo uno di quegli stupidi servizi estivi sulla città deserta e balle varie?"
Sono costretto ad annuire.
"I lettori lo vogliono" spiego, un po' imbarazzato.
"So che cosa sta pensando di me" dice il tizio, mentre si accende una sigaretta senza filtro con un antidiluviano accendino a benzina.
"Che cosa?"
"Sta pensando: che cosa ci fa questo bel tomo in pieno centro città invece di essere nella sua malga?"
"In effetti è così" ammetto.
"E invece quest'anno niente alpeggio! Nossignore. Le vacche sono rimaste in pianura, chiuse nella stalla". Poi abbassa la voce e prosegue.
"La malga la sto facendo ristrutturare. Lavori in corso".
"Ah, capisco. La montagna! Tutto sta cadendo a pezzi, i luoghi alpini sono sempre più spopolati".
"Neanche per sogno! Che cosa ha capito? La malga non è utilizzabile perché sto facendo costruire una piscina".
"Una piscina? A duemila metri?"
"Duemilacentocinquanta, per la precisione. Certo, una piscina. Ha mai provato a passare tre mesi senza avere la possibilità di fare una nuotatina? Be', io ci soffro. E poi la piscina servirà anche da abbeveratoio per le vacche".
Sono sbalordito, e provo a cambiare discorso.
"Si aspettava di incontrare così tanta gente?"
"Eh? gente? Ma non c'è quasi nessuno". Le sue parole mi rincuorano un po', ma so che la realtà è ben diversa.
"Si guardi intorno" suggerisco a malincuore.
Lui lo fa.
"C'è qualche muso giallo con la cartina in mano, e poi ci sono soltanto moru".
Scuote le spalle, poi aspira una boccata dalla sigaretta pestilenziale.
"Moru? Che cosa intende? Persone di colore? Lei per caso è un suprematista?"
"Eh?"
"Un razzista" preciso.
"Razzista? Io? No, non sono per niente razzista. Per me tutte le razze sono uguali. Guardi, ho avuto sia le frisone che le pezzate nere e mi sono trovato bene con entrambe".
"Ma quelle sono vacche!"
"Vacche, cristiani, musulmani, tutto uguale. Razzista! A me! E adesso mi scusi, devo andare. Si sta facendo tardi. Ho già visitato un sacco di musei ma non mi voglio perdere la mostra di Franco Fontana". E il bovaro se ne va lasciando una scia di fumo azzurro. Il taccuino del vostro cronista è rimasto bianco.

martedì 15 agosto 2017

MEGLIO TACERE


Mi è stato chiesto di scrivere queste poche righe, e io l'ho fatto. In un certo senso si può dire che non avrei potuto esimermi dallo svolgere tale compito, pure se non si è trattato di coercizione. Sono convinto che un rifiuto sarebbe stato percepito come un sottrarsi a una incombenza dovuta, a un obbligo imposto da una teoria di circostanze. Non mi si chieda se la mia apparente arrendevolezza sia dovuta alla presenza di un certo timore, se non addirittura all'emersione di una vera a propria paura. Non ho intenzione di rispondere. Il libero arbitrio di un essere umano è una condizione di coscienza che permette, in qualunque caso, l'esercizio di pensieri e atti assolutamente liberi dalla altrui volontà. Ciò che davvero è essenziale è la propria determinazione, l'impegno personale ad assumere una condotta che è conseguenza di riflessioni e valutazioni derivanti in maniera esclusiva da processi mentali liberi e unici, intesi quale prerogativa originale e irripetibile di ogni persona.
Rivendico il diritto di pronunciare la mia verità. La vera verità, si sa, non esiste. Quasi sempre è confusa con un'affermazione vera. Mentre la seconda si basa su elementi oggettivi, verificabili e, nel caso, confutabili, la prima è completamente soggettiva nonché sempre lambita di presunzione, quindi frutto di supposizioni e congetture. La vera verità in realtà pecca di attendibilità, è per sua natura non sincera, in quanto espressione del tutto personale.
Il mio incarico si presenta dunque alquanto difficile, ai limiti dell'impossibile. Ho accettato per dare prova della mia disponibilità, della mia buona volontà, per dimostrare che non nutro preoccupazione alcuna, tuttavia mi rendo conto che tutto ciò che potrei affermare avrebbe nessun valore.
Domando perdono a chi ha riposto fiducia in me, a chi ha ritenuto che, messo un po' alle strette, quasi obbligato da una forte persuasione morale, il sottoscritto potesse esprimere il suo pensiero, un suo qualsiasi pensiero, libero da influenze e limitazioni, proprie o culturali, che lo possano rendere davvero libero, vero.
Tutto ciò che potrei dire sarebbe non credibile e, di conseguenza, facilmente opinabile. Insomma, nessuno mi crederebbe. Per questa ragione taccio.  

sabato 5 agosto 2017

MO E SAAMIYA



Mohamed (Mo) Farah nasce nel 1983 a Mogadiscio, Somalia. All'età di otto anni, con la madre e due fratelli, raggiunge il padre in Inghilterra. Il gemello Hassan, per motivi di salute, è costretto a rimanere in patria, dove è affidato a una famiglia. I due fratelli si rivedranno dopo dodici anni. Mo Farah ottiene la cittadinanza britannica e si dedica a tempo pieno alla sua passione, l'atletica leggera, e in breve tempo ne diventa uno dei grandi protagonisti. L'atleta di origini somale conquista sei titoli mondiali e quattro allori olimpici nelle specialità dei 5000 e 10000 metri, l'ultimo dei quali proprio ieri nella sua Londra. Mo Farah, insignito del titolo di Commendatore dell'Ordine dell'Impero Britannico, entra nella leggenda: è uno dei più grandi corridori di sempre.
Saamiya Yusuf Omar nasce nel 1991 a Mogadiscio, Somalia. Fin da ragazzina la sua passione è la corsa. Saamiya si rende conto di essere veloce, molto veloce. Inizia a partecipare alle gare locali, poi a quelle nazionali: le vince tutte. Il suo allenatore è Alì, un ragazzo suo coetaneo. Alì, appartenente a una etnia diversa da quella di Saamiya, dopo qualche tempo è costretto a lasciare Mogadiscio. Saamiya non si scoraggia e continua ad allenarsi da sola. In Somalia c'è la guerra, i gruppi integralisti conquistano il potere. La ragazza è costretta a correre indossando il burka, a sfidare il coprifuoco allenandosi di notte nello stadio buio e deserto. Alla fine i suoi disperati sforzi vengono premiati. La scalcinata federazione somala la nota e la invita a partecipare alle Olimpiadi di Pechino del 2008, quando Saamiya ha soltanto diciassette anni. La rappresentativa di atletica somala ai giochi cinesi è composta di due soli atleti: lei e un altro ragazzo. Per la giovane somala il suo primo viaggio in aereo rappresenta, oltre che una novità, un autentico terrore. A Pechino Saaamiya arriva ultima nella sua batteria, percorre gli ultimi cinquanta metri da sola in pista: le altre atlete sono già tutte arrivate. Ma il pubblico dello stadio si è accorto di lei, e accompagna la sua corsa con una autentica ovazione. Dopo il traguardo giornalisti di tutto il mondo, invece di accorrere dalla vincitrice, circondano Saamiya. Lei si limita a dire che avrebbe preferito essere intervistata perché aveva vinto, non perché era arrivata ultima. Saamiya torna in Somalia, dove la situazione è sempre più complicata. Il padre, un umile commerciante di tessuti e unico sostentamento per la numerosa famiglia, perde la vita in circostanze tragiche. Saamiya è sempre più sconfortata: è molto povera, non ha un allenatore, né un luogo dove prepararsi, non ha medici da consultare e neppure gli indumenti e le scarpe adatte per poter correre. Non ha la possibilità di alimentarsi in maniera corretta. Il suo sogno, quello di correre da protagonista le Olimpiadi di Londra del 2012, sta per infrangersi. A quel punto decide di spezzare la promessa fatta a se stessa tanti anni prima, quella di non lasciare mai la sua terra. Saamiya decide di intraprendere il Viaggio. Parte da sola, e dopo sconvolgenti traversie attraverso l'Etiopia, il Sudan e la Libia durate più di un anno riesce finalmente a imbarcarsi.
Saamiya muore annegata nelle acque gelide del Mar Mediterraneo, nell'aprile del 2012, durante il naufragio del suo barcone, al largo delle coste di Malta, proprio mentre sta per essere tratta in salvo da una nave italiana.
Mo Farah era l'idolo di Saamiya. Fin da ragazzina aveva appeso una sua fotografia, recuperata da un giornale trovato per strada, accanto alla sua misera brandina, nella stanzetta che divideva con fratelli e sorelle. Mo Farah, quello che ce l'aveva fatta, il figlio di Mogadiscio che aveva contribuito ad alimentare i suoi sogni, quei sogni che l'avrebbero condotta alla morte.