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domenica 30 luglio 2017

ZINGARI


Il vecchio è sul balcone di casa, le mani nodose e artritiche aggrappate alla ringhiera arrugginita. Osserva con fastidio il filo di fumo nero e denso che si sprigiona dall'accampamento situato appena oltre la strada. Si accende una sigaretta poi, colto da un accesso di rabbia, cala un pugno sul ferro.
"Maria! Maria! Vieni subito qui!" sbraita l'uomo.
Dopo un tempo che pare interminabile una vecchietta con un bastone, claudicando, lo raggiunge sul balcone.
"Guarda" dice il vecchio, indicando il fumo.
"Che cos'è?" dice lei, strizzando gli occhi.
"Non lo vedi? È fumo. E l'odore? Non senti il cattivo odore?"
Lei annuisce.
"Sono loro! Sono di nuovo loro, i zingari!"
"Hanno acceso un fuoco" dice la donna. "Perché? Hanno freddo?"
Il vecchio bestemmia.
"Macché freddo! Ci sono trenta gradi! I zingari stanno bruciando plastica".
"Plastica?"
Il vecchio sbuffa. Possibile che quella donna non capisca nulla? Si calma e prova a spiegare.
"I zingari rubano i cavi elettrici e per recuperare il rame di cui sono fatti bruciano la guaina esterna, il rivestimento di plastica dei fili".
"Una volta rubavano soltanto le galline" dice la moglie.
"Non possiamo andare avanti così. Quelli ci stanno avvelenando. Dobbiamo fare qualcosa" riprende il vecchio, ignorandola.
"Chiamiamo i vigili" propone lei.
Altra bestemmia del marito. Poi uno sputo giù dal balcone.
"I vigili! Quando li chiami non vengono mai. Ti ricordi l'ultima volta, quando invece sono venuti? Hanno detto che non possono fare nulla".
"Ma adesso li faranno pagare" dice la vecchia, illuminandosi.
"Che dici, Maria?"
"Ieri sera, l'ho sentito al telegiornale. Hanno detto che faranno pagare ai zingari una tassa. E se non la pagano dovranno andare via".
Il vecchio scoppia a ridere. Una risata fragorosa e catarrosa.
"Che cos'è? Una barzelletta? I zingari che pagano? Ma fammi il piacere!"
L'uomo, camminando curvo, rientra in casa. La moglie lo segue. Lui si dirige verso un ripostiglio dal quale esce imbracciando un fucile.
"Adelmo! Che cosa vuoi fare?"
"Zitta. Voglio soltanto spaventarli. Tanto lo sai che questo non funziona".
"Ti faranno del male" dice lei, preoccupata.
"Io non ho paura dei zingari!"
Il vecchio posa il fucile sul tavolo, si allaccia le scarpe, poi lo riprende ed esce di casa.
"Adelmo!"
Mentre scende le scale incontra il ragionier Balzoni, l'inquilino del secondo piano.
"Signor Adelmo, dove sta andando con quel fucile? Faccia attenzione" dice l'uomo, con voce incerta. Il vecchio si arresta e lo squadra a lungo.
"Sei anche tu un amico dei zingari?" dice, prima di riprendere la discesa. L'altro, basito, si affretta a raggiungere il proprio appartamento.
Il vecchio esce dal palazzo, oltrepassa il cortile e poi attraversa la strada. Imbocca la stradina sterrata che conduce al campo nomadi. Lo aveva già fatto un'altra volta, tanti anni prima, quando ancora guidava l'automobile. Era una serata d'inverno, molto nebbiosa. A un certo punto, mentre stava rientrando a casa, aveva perso l'orientamento e per errore si era inoltrato proprio in quella strada. Si era reso conto dello sbaglio quando aveva visto sfilare accanto a lui baracche con il tetto di lamiera e roulottes. Aveva arrestato di colpo la macchina. Una vecchia zingara aveva incollato il faccione al finestrino. Nella sua bocca spiccavano alcuni denti d'oro. Si era spaventato, aveva innestato la retromarcia e, in qualche modo, era riuscito a uscire dal campo. Faticava ad ammetterlo, ma quella sera aveva avuto paura.
Ma adesso non nutre più alcun timore, tanto è forte il suo risentimento. Ormai è dentro all'accampamento, che sembra quasi deserto. Qualcuno, prudente, si affaccia dalla soglia delle baracche, altri lo osservano nascosti dietro gli oblò delle roulottes. Il vecchio avanza finché un uomo abbastanza giovane gli sbarra il passo. Ora anche tutti gli altri occupanti del campo escono. Sono tanti, e quasi lo circondano. Un cane viene ad annusargli i pantaloni, poi si allontana di corsa.
"Che cosa vuoi? Perché hai il fucile?" domanda l'uomo al vecchio. È alto e ha il viso scuro. Porta i capelli legati a coda e ha un cerchio d'oro all'orecchio.
"E tu chi sei?" domanda il vecchio, tenendo sempre il fucile puntato.
"Sono Janko" risponde l'altro.
"Janko! Che razza di nome! Sei tu il capo, il re dei zingari?"
Il nomade sorride, pur continuando a tener d'occhio la bocca della carabina rivolta su di lui.
"Qui non ci sono capi, soltanto famiglie" dice.
Il vecchio grugnisce ma non dice nulla.
"Che cosa vuoi fare? Mi vuoi sparare?" dice ancora lo zingaro.
Il vecchio sogghigna.
"No, non sparerò a te, ma a quelli lì" dice, indicando un gruppo di bambini seminudi, con i visi luridi, che lo stanno osservando, con le piccole bocche spalancate.
"No, tu non farai questo. Non lo farai perché sei una persona buona e non vuoi fare del male a nessuno".
Il vecchio abbassa il fucile poi, dopo averlo impugnato con una sola mano, si accende una sigaretta.
"Dovete smetterla di bruciare plastica. Il fumo è tossico" dice aspirando la prima boccata.
Lo zingaro annuisce.
"Hai ragione, non lo faremo più, altrimenti ci faranno andare via. E noi non sappiamo dove andare. Questa è l'ultima volta".
"Non ruberete più rame?" domanda il vecchio.
"No".
"E che cosa farete per vivere?"
"Ruberemo qualcos'altro. Molti di noi comunque lavorano".
Il vecchio rimane sorpreso dalla disarmante sincerità del nomade.
"E la pagherete la tassa sui zingari?" domanda.
L'altro si stringe nelle spalle e abbozza un sorriso.
"Mi vendi il fucile?" chiede poi lo zingaro sorprendendo il vecchio.
"Non funziona. È rotto".
"Non importa, non lo voglio usare. Mi piace perché è vecchio. È un bell'oggetto, e a noi piacciono le cose belle".
Il vecchio osserva con attenzione il fucile.
"È vecchio quasi quanto me. Tieni, te lo regalo" dice, e poi lo porge allo zingaro.
"Vuoi bere qualcosa? Fa molto caldo e tu mi sembri stanco".
"Un po' d'acqua" risponde il vecchio. "Se non è troppo sporca" aggiunge, prima di scoppiare a ridere e poi a tossire.
Dopo pochi istanti una ragazza graziosa, che porta lunghe trecce nere, gli porge un bicchiere di plastica. L'acqua è fresca.
"Va bene, adesso vado" dice il vecchio dopo aver bevuto. "Mi raccomando i fuochi".
"Stai tranquillo" lo rassicura Janko.
"Buona giornata a tutti" dice il vecchio, prima di tornare a casa.
Quando entra in tinello, stanco e accaldato, trova la moglie seduta al tavolo, con le mani giunte.
"Grazie a Dio sei tornato!" esclama la donna, visibilmente sollevata. "Che cosa è successo?" domanda.
L'uomo si siede, le giunture delle ginocchia scricchiolano.
"Stai tranquilla, è tutto a posto. Non ci daranno più fastidio".
"E il fucile?"
"L'ho buttato, tanto era vecchio e rotto. Non c'è stato bisogno di minacce, è bastato fare la voce grossa. I zingari non sono molto coraggiosi".

sabato 29 luglio 2017

FESTA DI PAESE



Mio padre che lava la piccola utilitaria e ne asciuga la carrozzeria con una pelle di daino (povera bestia!), poi strofina a lungo le cromature finché non risplendono. Lo osservo senza essere scorto, nascosto dietro la siepe di lauroceraso. Dopo un po' mi stufo e vado in cucina dove trovo mia madre impegnata a cucinare il pranzo della domenica. Il buon profumo di cibo ha invaso l'intero ambiente. Lei mi guarda e sorride.
"Oggi facciamo una gita?" domando.
"Se tuo padre ne avrà voglia andremo a una festa di paese".
Sono contento, perché adoro le feste di paese. Mi piacciono soprattutto le giostre, anche se i miei genitori non mi permettono di salirci. Dicono che sono pericolose. Non importa, vuol dire che mi limiterò a guardarle, mi piace lo stesso. Sono attratto soprattutto dall'autoscontro, da quelle minuscole vetture che vorticano sulla pista come mosche impazzite, che si inseguono si fronteggiano e sbattono tra loro con grida di eccitazione e di paura e risate sguaiate degli occupanti, tutti ragazzi come me.
Ci sediamo a tavola e mio padre sembra apprezzare molto il pranzo. Si serve più di una porzione di agnolotti e divora con soddisfazione l'arrosto con patate. Non esagera con il vino.
"Perché non andate a prepararvi? Andiamo a una festa di paese" dice passandosi una mano sul ventre gonfio. Io e mi a madre ci scambiamo uno sguardo complice. Lei mi porge una vecchia padella tutta ammaccata che contiene degli avanzi.
"Portali a Billy, oggi è festa anche per lui" dice.
Scendo in cortile, di corsa giù per le scale, attento a non rovesciare il cibo, e raggiungo il recinto di Billy. Lui appena mi vede inizia a scodinzolare, a fare salti di gioia. Tento di accarezzarlo ma lui si sottrae, attento soltanto al cibo.
"Noi adesso andiamo via. Mi raccomando, fai la guardia" gli dico, ma lui ha già il muso nero affondato nella ciotola.
Ritorno in casa, vado nella mia stanza e mi vesto. Indosso una maglietta color smeraldo e i jeans nuovi. Con disappunto noto che sono stirati con la piega. Eppure mi ero così tanto raccomandato con mia mamma! In ogni caso non mi lamento, non voglio rovinare la bella atmosfera della giornata di festa.
Raggiungo mio padre che sta fumando e sbuffando accanto all'automobile, una mano appoggiata sul tettuccio.
"Tua madre è sempre l'ultima!" esclama, ma noto che non è per nulla arrabbiato. Anzi, sembra piuttosto compiaciuto. Io sollevo le spalle per dimostrare la mia solidarietà, nonché tutta l'impotenza di noi maschi di fronte alla leziosità delle donne. Finalmente mia madre arriva, elegante come sempre e tutta profumata. Saliamo in auto e ci avviamo. Il viaggio tuttavia è breve. Dopo neppure venti minuti mio padre parcheggia in uno spiazzo vicino a una chiesetta. Non conosco quel piccolo paese, e fa molto caldo. La mia delusione è immensa quando vedo che le giostre non ci sono. Non riesco a trattenermi.
"Non ci sono le giostre" dico.
"No, non ci sono" commenta mio padre accendendosi una sigaretta. "Si vede che quest'anno avevano pochi soldi" aggiunge.
Le uniche attrazioni sono un ballo un palchetto, che aprirà soltanto la sera, e dei tavoli e delle panche affollati di persone. Noto che c'è pure un chiosco nel quale vengono servite le bevande e del cibo in piatti di plastica.
"Andiamo a bere qualcosa" propone mio padre. Mia madre annuisce. Prendiamo posto a uno dei tavoli, dove stiamo un po' stretti. Mio padre fa cenno a un cameriere di giornata. È un ragazzo poco più vecchio di me, con la faccia devastata dall'acne.
"Due birre" comanda mio padre. Poi si rivolge a me.
"E tu? Una bibita?"
"Anch'io voglio la birra" dico. Lui scuote il capo.
"Una gazzosa" ordina. Io approvo. Va bene lo stesso, perché so già che mia madre la birra non la berrà tutta, e io la potrò miscelare con la gazzosa.
Quasi tutti i presenti al nostro tavolo sono uomini. A eccezione di un vecchietto che sta mangiando delle acciughe con una salsa verde che puzza d'aglio, tutti gli altri bevono soltanto. Vino nero e denso. A un certo punto gli animi si accendono.
"Smettila con questa storia, Tom!" dice esasperato un uomo che porta un cappello di paglia a un altro che sta sbraitando con il bicchiere in mano. Guardo quest'ultimo: indossa una camicia a grossi riquadri, un po' sporca. I suoi capelli, neri e spessi, sono molto unti. Il suo viso ha un colore rosso scuro. L'uomo posa il bicchiere poi si alza in piedi. Mentre nessuno se l'aspetta con un balzo sale sul tavolo. Alcuni bicchieri si rovesciano, urtati dai suoi grossi scarponi sporchi. Dall'intero tavolo si alza un mormorio di disapprovazione. Di colpo mi rendo conto che quell'uomo è completamente ubriaco. Si inchina di fronte a mia madre poi inizia a parlare. Anzi, a urlare.
"Ve l'ho già detto mille volte e adesso ve lo ripeto! Quel bastardo di mio fratello Oreste, anzi mezzo bastardo perché era figlio della mia povera madre ma non di mio padre, non è mica caduto da solo nel canale ma ce l'ho buttato io! Quello non aveva voglia di lavorare ma gli piaceva il lusso. Veniva sempre a chiedere soldi per i suoi vestiti e le donne. Con gli amici faceva il grandioso con i miei soldi e prima o dopo ci avrebbe mangiato anche la cascina. E poi era sempre ubriaco e quella sera non ci ho visto più! Hanno detto che è caduto nella roggia ed è annegato perché aveva alzato troppo il gomito ma non è vero! Nel canale l'ho spinto io perché non ne potevo più, tanto mio padre e la mia povera madre ormai erano morti. E Leandro non ha detto nulla, secondo me era contento pure lui, anche se non aveva mai avuto il coraggio di fare quello che ho fatto io!"
"Tom, falla finita!" dice un uomo, lo stesso di prima.
"Vai a chiamare Leandro" dice una signora anziana, dando un colpo sulla spalla a un tizio seduto accanto a lei, che deve essere suo figlio.
Ma Leandro è già arrivato. Il fratello maggiore di Tom, più vecchio perché sembra molto più anziano di lui, è in piedi accanto al tavolo. Nella mano destra impugna un ramo di salice lungo e flessuoso. I suoi occhi sono due strette fessure, il suo viso sembra scolpito nel legno. Tutti ammutoliscono, e proprio in quell'attimo di silenzio il suo braccio scatta. La verga, sibilando, colpisce Tom sulla schiena, produce uno strappo nella sua spessa camicia. Tom cade dal tavolo. Il fratello lo rialza afferrandolo per colletto, gli molla uno sganassone.
"Ahi!" si lamenta Tom. Poi Leandro lo spinge lontano mentre lui comincia a piagnucolare.
Il brusio nei tavoli ricomincia. I camerieri tornano a fare la spola.
"Forse è meglio se ce ne andiamo" dice mia madre, pallida in viso.
Mio padre annuisce e si alza, e così faccio anch'io. Nessuno di noi parla finché non siamo in macchina, sulla strada del ritorno.
"Papà, ma è vero che quell'uomo ha ammazzato il fratello?" domando facendomi coraggio.
"Eh? Ma che dici? Non hai visto quant'era ubriaco?" risponde mio padre, stringendo il volante tanto che le sue nocche sono bianche. Nella sua voce, che vorrebbe essere sicura, invece avverto il dubbio.

martedì 25 luglio 2017

TORET

























Toret significa, in lingua piemontese, piccolo toro (toretto). Così sono chiamate le caratteristiche fontanelle di Torino. In tutto il territorio cittadino ne sono dislocate ben 720. I toret hanno la struttura in ghisa e sono dipinti di verde (tempo fa i cittadini respinsero con forza la proposta di farne ridipingere alcuni da artisti di fama).
L'acqua è erogata attraverso una piccola testa di toro, che richiama l'animale simbolo della Città di Torino (il toro rampante).
I torinesi sono molto affezionati ai toret, considerati un oggetto-simbolo della loro città, utili per soddisfare la sete (in particolar modo nei periodi caldi) ma spesso anche legati a ricordi d'infanzia o addirittura a vicende sentimentali.
In questi giorni, a causa della grande siccità che ha colpito l'intero paese, si sta valutando se sospendere o limitare l'erogazione dell'acqua dei toret. I cittadini torinesi si sono dichiarati, a larga maggioranza, assolutamente contrari a tale provvedimento. Sarebbe come imbavagliare la Mole Antonelliana con un telo per proteggerla dallo smog, dicono. Inoltre le fontanelle sono assolutamente indispensabili per i senza tetto, i piccoli animali domestici ma anche per le persone anziane che hanno la necessità di rinfrescarsi il viso. Lasciamo dunque aperte le fontanelle, così utili e così ricche di valore raffigurativo, e riserviamo le azioni educative e i comportamenti rivolti al risparmio d'acqua alle quattro mura domestiche.
(le fotografie sono dell'autore)

lunedì 24 luglio 2017

GELOSIA


Quando l'uomo rientrò a casa trovò la moglie in camera da letto. La donna si stava sfilando le scarpe, scalciandole lontano da sé. Emise un sospiro di sollievo, sollevata da quella costrizione.
L'uomo si era fermato sulla soglia della stanza. Aveva appoggiato le chiavi sul comò.
"Ciao, sei arrivata tardi" disse.
Lei lo guardò.
"Oh, i soliti problemi. Anche tu hai fatto tardi" disse.
Lui non rispose. Continuò a osservare la moglie, che ora si stava spogliando. Si tolse la camicetta, poi lasciò cadere a terra la gonna. Constatò che era ancora una bella donna, nonostante fossero trascorsi quasi dieci anni da quando l'aveva sposata. Non si trattava di una bellezza appariscente, come quella delle modelle che si vedevano in televisione o sulle riviste; lei aveva un fisico minuto, ma con tutte le curve al punto giusto, e dalla sua persona si sprigionava una potente sensualità. Una carnalità che, da sempre, aveva alimentato la sua gelosia.
L'uomo era stato preda di quel malevolo e oscuro sentimento fin da quando l'aveva conosciuta. Per tanto tempo era riuscito a reprimerlo, a confinarlo nei più profondi recessi del suo animo, a far sì che non trasparisse, che non fosse evidente. Negli ultimi tempi tutto ciò non gli era più riuscito. La gelosia lo corrodeva e lo corrompeva sempre di più. La diffidenza e il sospetto alimentavano tutti i suoi pensieri, li dilatavano, guidavano e sporcavano le sue azioni.
L'uomo era convinto che la moglie lo tradisse. Da qualche tempo, infaticabilmente, si era messo alla ricerca di prove che confermassero quella che, da pura sensazione, si era trasformata in certezza.
Aveva iniziato a controllare il suo cellulare, alla ricerca di chiamate o messaggi compromettenti. Quando erano in casa, origliava le sue conversazioni telefoniche. Frugava nelle tasche dei suoi abiti e nella sua borsetta. Era attento riguardo tutti i suoi spostamenti. Cercava sul suo corpo, sulla sua pelle, tracce olfattive di lozioni da barba sconosciute. Alla fine la sua ricerca era stata premiata: aveva trovato uno scontrino di un bar, sul quale era indicata la consumazione di due caffè. L'ora corrispondeva all'orario di uscita dal lavoro della moglie. Nemmeno per un istante pensò che l'altra persona potesse essere un'amica o una collega di ufficio della donna. No, si trattava di sicuro di un uomo, del suo amante. Tuttavia riteneva quella prova non ancora sufficiente. Per smascherare la traditrice aveva bisogna di coglierla sul fatto, in modo che lei non avesse nessuna possibilità di negare. Aveva cominciato a seguirla. Di pomeriggio si appostava di fronte alla sua sede di lavoro, la guardava uscire, sempre da sola, e incamminarsi verso casa. Lui le andava dietro, stando bene attento a non farsi scorgere. Lei non faceva mai soste, non incontrava mai nessuno. Era furba, e molto accorta. Quel giorno invece le cose erano andate in maniera differente, e i suoi dubbi residui erano stati finalmente dispersi. Lei era uscita dall'ufficio al solito orario, ma stavolta non si era diretta verso casa, si era incamminata nella direzione opposta. Era vestita in maniera elegante, il trucco appena rifatto. Si era fatta bella per incontrare il suo amante. L'uomo aveva avuto come un mancamento, un piccolo capogiro che lo aveva distratto. L'aveva persa di vista. Affannato, con rivoli di sudore freddo che gli scorrevano lungo la schiena, aveva cercato di ritrovarla in mezzo alla folla del centro. Dopo pochi minuti c'era riuscito, e lei non era più sola. A fianco aveva un uomo alto, un bell'uomo per la verità. Lui si era bloccato, con la vista annebbiata. Mai avrebbe creduto che l'avverarsi dei suoi sospetti potesse ridurlo a un tale stato di prostrazione. E di rabbia. Si era diretto verso il primo bar e aveva continuato a bere per quasi un'ora. Poi era tornato a casa, ubriaco e distrutto.
E adesso lei era lì davanti a lui, con un lieve sorriso sul volto. Un risolino beffardo, insopportabile. La donna indossò una logora tuta, l'uomo decise di lasciare da parte ogni cautela.
"Oggi ti ho visto con un uomo. Un uomo alto" disse semplicemente-
Lei trasalì.
"Che cosa?" rispose, attonita.
"Sei una puttana" aggiunse lui, calmo, anche se l'intero suo corpo ribolliva.
"Cosa stai dicendo? Sei impazzito?"
"Non negare, ti ho visto".
"Mi hai seguita?"
"Traditrice".
Lei esplose.
"Basta!" urlò. "Non ne posso più della tua gelosia! Tu sei malato" Ti devi far curare!"
"Troia" fu tutto ciò che l'uomo aggiunse. Aveva la bocca sempre più impastata. Era pallido.
Lei, sempre più indignata, non disse più nulla. Aprì l'armadio, estrasse un grosso borsone e cominciò a riempirlo alla rinfusa di abiti e biancheria.
"Che cosa stai facendo?" domandò l'uomo, anche se aveva già capito. Lei se ne stava andando. Stava andando a raggiungere il suo amante.
Lei, con gesti sempre più nervosi, chiuse la borsa, lo oltrepassò senza degnarlo di uno sguardo e uscì di casa. Lui non la seguì.
Quando la donna richiuse dietro di sé la porta di ingresso, si fermò per un attimo sul pianerottolo. Respirò profondamente un paio di volte. Finalmente ce l'aveva fatta. Aveva trovato il coraggio di lasciare quell'uomo opprimente e ossessivo, che con i suoi continui sospetti e assilli le aveva reso la vita un autentico inferno. E pensò che non avrebbe mai finito di ringraziare quell'uomo sconosciuto, alto e distinto, con il quale aveva scambiato un fuggevole sguardo di simpatia, che per pochi metri, per puro caso, l'aveva affiancata mentre camminava diretta verso un negozio di cravatte. Aveva intenzione di comprarne una da regalare al marito.

venerdì 21 luglio 2017

PACTA SUNT SERVANDA


"Rassegnati! Tanto non lo faranno mai!" disse sua moglie. "I Senza Ali sono dei bugiardi!"
No, lui non intendeva affatto rinunciare a quel sogno. Continuava a zampettare avanti e indietro, sempre più nervoso, sbattendo le ali e sfregando a terra il becco.
Tutto era iniziato poco più di un anno prima. L'anziano piccione aveva fatto, come ogni giorno, una lunga ricognizione alla ricerca di cibo, che era sempre più scarso. È difficile la vita di un volatile in una grande città. Le insidie e i pericoli sono tanti, i momenti di appagamento pochi, in un luogo abitato da così tanti Senza Ali.
Quel giorno era atterrato su un cestino dell'immondizia e aveva iniziato a frugare. Aveva piluccato i miseri resti di un hamburger che subito gli erano rimasti sullo stomaco. Si domandò come facevano i Senza Ali a cibarsi di alimenti così disgustosi. Poi la sua attenzione cadde su un quotidiano tutto spiegazzato. Con pazienza, utilizzando sia il becco che le zampette, ne lisciò le pagine, poi iniziò a leggere.
È vero, può apparire sorprendente che un piccione sappia leggere. In effetti soltanto pochi, tra loro, lo sanno fare. Ma lui invece aveva imparato e ne provava piacere. In che modo aveva imparato? Bé, quella è tutta un'altra storia. In ogni caso il vecchio piccione si dilettava a seguire le vicissitudini esistenziali dei Senza Ali. Iniziò, come sempre, a scorrere le notizie sportive. Si divertiva così tanto a osservare quelle fotografie di Senza Ali abbigliati in maniera così sorprendente: magliette dai colori sgargianti, pantaloncini attillati, strane scarpette bullonate, caschetti. Gli articoli che accompagnavano quelle immagini invece erano sempre piuttosto noiosi. Subito dopo passò alle pagine di cronaca politica. La politica era la sua grande passione, in particolare quella locale, che riguardava più da vicino la sua vita e quella dei suoi simili. Leggendo qua e là colse tra quelle righe fitte, che a volte faceva un po' di fatica a decifrare, un grande fermento nella vita politica cittadina. Erano in programma delle elezioni locali importanti, quelle cerimonie complesse e tediose attraverso le quali i Senza Ali sceglievano il loro capo.
Tra i piccioni queste cose non esistevano. Loro non avevano bisogno di comandanti. Tutti i piccioni sono uguali: un piccione vale quanto un altro piccione. Insomma, uno vale uno. Rimase sorpreso quando scoprì che uno dei candidati alla vittoria finale era nientemeno che una femmina!
A quel punto un Senza Ali che andava di fretta gettò una bottiglia di plastica nel cestino e lui fu costretto ad abbandonare quegli interessanti articoli e a spiccare il volo in tutta fretta. Riprese così la ricognizione e iniziò a sorvolare il centro cittadino. Notò in una via pedonale un assembramento di Senza Ali. Si avvicinò, abbassandosi con cautela. C'era una specie di banchetto, dietro al quale erano seduti alcuni giovani Senza Ali. Molti altri si erano approssimati al tavolino e graffiavano dei fogli con dei bastoncini. Il piccione aveva imparato che con quel gesto i Senza Ali "mettevano la firma". Anche tra i piccioni esisteva una analoga usanza, che tuttavia non richiedeva l'utilizzo di alcun strumento. Era sufficiente librarsi in cielo, prendere bene la mira, bombardare e apporre così la propria segnatura. Ogni popolo ha le sue usanze, considerò l'anziano e saggio volatile. I giovani Senza Ali, tra le altre cose, distribuivano dei fogli di carta. I passanti meno interessati accettavano quei pezzi carta ma dopo aver percorso pochi metri li accartocciavano e li buttavano nel primo cestino di rifiuti disponibile. Incuriosito, il piccione si accostò a uno di essi e riuscì a mettere le zampe su uno di quei foglietti. La carta era appallottolata e lui riuscì a leggere solo alcune parole. Riuscì comunque a comprendere che si trattava del programma elettorale della candidata dei Senza Ali. Proseguì a leggere quel che poteva e all'improvviso gli si drizzarono le penne. Una frase lo colpì più di uno dei tanti calci che riceveva di continuo dai Senza Ali. Le parole esatte erano queste: "...realizzare colombaie in alcune aree verdi per fornire una alimentazione adeguata ai piccioni". Per il volatile fu un autentico choc. Del tutto frastornato, riuscì a riprendersi appena in tempo per evitare un colpo di ombrello chiuso e riprendere così il volo. Affannato, raggiunse rapido la sua colonia per annunciare la lieta novella. Nessuno gli credette, a eccezione di un anziano piccione, suo coetaneo, che comunque non rinunciò a manifestare un importante dubbio.
"E se non vince?" disse soltanto.
"Vincerà" rispose sicuro il nostro piccione, anche se la sua era soprattutto una speranza. Se i piccioni avessero potuto votare nelle consultazioni dei Senza Ali, lui non avrebbe avuto esitazioni sul candidato prescelto.
E la femmina dei Senza Ali in effetti vinse. Il piccione festeggiò per interi giorni. Da solo. Nessuno dei suoi simili aveva alcuna fiducia nei Senza Ali, che per loro erano sempre e soltanto stati fonte di avversità. Il piccione fantasticava: avrebbe trascorso gli anni della vecchiaia in serenità, in una comoda piccionaia popolare in mezzo al verde, non più costretto a vagabondare per la città alla ricerca di cibo.
Da allora era trascorso più di un anno ma non era accaduto nulla. I piccioni erano sempre senza casa e il cibo scarseggiava sempre di più. Inoltre le angherie dei Senza Ali erano addirittura aumentate. Forse la sua vecchia aveva ragione. Si era illuso inutilmente, eppure dentro di sé continuava ancora a sognare. Tra i piccioni vigeva una regola ferrea e lui sperava con tutto il cuore che la stessa valesse anche nel mondo dei Senza Ali: le promesse devono sempre essere rispettate.

mercoledì 19 luglio 2017

DALLA PARTE DI MUTTLEY


È una splendida giornata di sole e stai passeggiando nel parco con la tua giovane fidanzata. Mano nella mano. Ma poi squilla il cellulare e stacchi la tua mano dalla sua. E tutto accade in un attimo. La vedi incespicare, su un sasso o su una radice che sporge. La osservi sbilanciarsi in avanti, pedalare in maniera ridicola con le gambe, mulinare le braccia, ma a quel punto non è più possibile mantenere l'equilibrio, non su quella scarpe dal tacco altissimo. E lei cade a terra, appoggia le mani, sfrega il ginocchio. Nulla di grave, comunque: le sue belle mani sono tutte impolverate, le calze sottili sono lacerate in modo irrimediabile. Lei, goffa e imbarazzata, cerca di rimettersi in piedi. Tu dovresti aiutarla, e lo fai, ma dopo un istante di esitazione. Perché è difficile reprimere quell'onda di divertimento che ti scuote tutto il corpo ma che devi comunque non lasciare trasparire.
Sei a cena con il tuo migliore amico. Vi conoscete dai tempi dell'infanzia, tuttavia le vicissitudini della vita vi hanno un po' allontanati. Ma adesso vi siete finalmente ritrovati e avete deciso di festeggiare nel modo che preferite: con una bella mangiata. Il ristorante è di quelli eleganti, con il cameriere che rimane sempre appostato dietro di voi, pronto a soddisfare le vostre necessità. Tutto sta andando molto bene, gli antipasti erano squisiti, e adesso viene servito il primo. I piatti di pasta sono elaborati ma piuttosto invitanti. Il tuo amico si avventa sul suo, sorridendo, esprimendo il suo compiacimento. La prima forchettata, molto abbondante, troppo abbondante, invece di finire in bocca si spalma sullo sparato della sua camicia immacolata. Lui rimane immobile, con la forchetta a mezz'aria, attonito. E tu sei costretto a voltarti, per condividere lo spasso con il cameriere, che invece rimane serio.
Tua moglie ha impiegato una vita per prepararsi. Nel suo abbigliamento non ha trascurato nessun particolare. Una tale cura ha comunque prodotto un risultato brillante: è bellissima in quel completo chiaro di grande sartoria, costato due stipendi. D'altra parte il matrimonio della sorella è un'occasione davvero importante, è d'obbligo essere perfetti. Lei sale in auto con estrema circospezione, sembra quasi che si muova al rallentatore, non vuole assolutamente sgualcire quell'abito favoloso. Dopo un breve tragitto arrivate alla chiesa. Scendete, lei si specchia per un'ultima volta nel finestrino dell'automobile. Appena arrivati sul sagrato della chiesa, per ultimi, per essere ammirati da tutti, un maligno piccione in transito sgancia la sua bomba. Il proiettile, scuro denso e copioso, colpisce la tua signora proprio sulla spalla, poi si allarga sulla sua giacchetta color panna. Lei alza le braccia, emette in piccolo urlo stridulo, poi impallidisce. Le tue spalle iniziano a sussultare, fai di tutto per controllare la tua espressione allegra. E ti rendi conto di quanto sia difficile dominare una risata.
Manca poco a mezzogiorno, l'ora della sospirata pausa. Hai lavorato tutta la mattinata e adesso sei stanco. Ti rilassi un attimo. E la stessa cosa fa la tua collega, seduta alla scrivania di fronte alla tua. Incroci il suo sguardo e scambi con lei alcune parole di convenienza. Ma la tua attenzione è attirata da una zanzara che volteggia accanto al suo viso. L'insetto volteggia a lungo prima di posarsi sulla sua guancia rubiconda, mentre lei non si avvede di nulla. Saresti ancora in tempo per avvisarla, ma non lo fai. E poi è troppo tardi. Il molesto insetto ha già svolto il suo dovere. Ha colpito, ha affondato il suo pungiglione in quella carne tenera e succosa. Lei all'improvviso si schiaffeggia, lancia un gridolino di disappunto, ma la zanzara si è già allontanata. E allora perdi tutti i freni inibitori e inizi a ridere, e poi ancora a ridere...


domenica 16 luglio 2017

BUFFETTO

Osservo il ragazzo nero appostato accanto all'uscita della tabaccheria. In mano tiene un cappello rovesciato. Quando transita un passante frettoloso lui si esibisce in un piccolo inchino, sporge il berretto e farfuglia qualche incomprensibile parola. Quasi sempre viene ignorato, qualcuno scuote il capo e affretta il passo. Il ragazzo non è solo. Numerosi colleghi di sventura sono sistemati agli angoli delle vie del centro, presso negozi, bar o edicole. Sembrano tutti uguali.
"Voi colonnelli o generali mi sembrate tutti uguali, non riesco a distinguere uno dall'altro" diceva un comandante dell'esercito sudvietnamita a un ufficiale americano suo alleato.
Ecco, per noi è quasi la stessa cosa. Tutti questi ragazzi neri che chiedono l'elemosina, tutti vestiti con un'anonima maglietta e un comune paio di pantaloni, tutti con il cappello in mano e pronti al saluto ossequioso e umiliante per strappare qualche spicciolo, tutti ci sembrano uguali. La loro individualità, che pure esiste, eccome se esiste, è annullata.
E poi, i pensieri di molti passanti, che facilmente riusciamo a immaginare: "Alla tua età, così giovane e così robusto, ma perché non vai a lavorare invece di domandare la questua?"
Il fatto è che di lavoro c'è n'è poco, e non c'è n'è affatto per chi probabilmente non ha neppure il permesso di soggiorno eppure deve, in qualche modo, provvedere alle più elementari necessità di sopravvivenza.
Torno a osservare il ragazzo vicino alla tabaccheria. Si deterge la fronte con la mano, evidentemente è sudato. Pare incredibile sudare mentre, immobili, si chiede la carità. Eppure è così. Il sole estivo picchia forte, e il carico emotivo dovuto alla avvilente condizione contribuisce non poco a surriscaldare il corpo.
A un tratto una giovane donna esce dalla tabaccheria. È alta e robusta, vestita con cura, con una gran criniera di capelli biondi. Si ferma di fronte al ragazzo nero e mette mano al borsellino. Lui si inchina di fronte a lei, come da copione, lei prende alcune monete e le lascia cadere nel cappello. Lui bofonchia qualche parola di ringraziamento, lei gli si avvicina di più e gli accarezza la guancia. Lui strabuzza gli occhi e rimane a bocca aperta, mentre lei già si allontana, scuotendo i fianchi poderosi, diretta forse al lavoro.
Proseguo il mio cammino.

mercoledì 5 luglio 2017

FIATO CORTO


Ansima, Matteo Renzi. L'ex Presidente del Consiglio è in difficoltà, sembra quasi aver perso la bussola. La riconquista della segreteria del partito, dopo la batosta del referendum istituzionale, è stata un gioco da ragazzi. Subito dopo però sono ricominciati i problemi. Renzi sperava di essersi sbarazzato per sempre dei suoi più ostili oppositori interni, i Bersani e i D'Alema, che invece sono ricomparsi a fianco di Pisapia, interessati al progetto politico dell'ex sindaco di Milano, e futuri e nuovamente minacciosi interlocutori per una eventuale alleanza a sinistra. Sta andando tutto male per Renzi, pure se lui ben dissimula le avversità. La veloce rioccupazione dello scranno più alto di Palazzo Chigi si sta rivelando un'autentica chimera. Le elezioni politiche anticipate non ci saranno, e chissà se sarà approvata una nuova legge elettorale. La traversata nel deserto di Renzi richiederà molti altri mesi, da trascorrere svolgendo compiti che proprio non gli piacciono, che lo rendono insofferente. Renzi non è un politico da partito, è un animale da governo. Le alchimie di segreteria lo annoiano. Nel frattempo le elezioni amministrative sono andate male, e in prospettiva nazionale l'unica alleanza che potrebbe riportarlo a Palazzo Chigi è quella con Forza Italia, panorama che provoca dolorosi mal di pancia alla maggior parte degli elettori del Partito Democratico. L'ex sindaco di Firenze potrebbe già essere giunto al termine della sua carriera politica.
Ansima, Silvio Berlusconi. L'ex Cavaliere ha vinto le elezioni amministrative ma non festeggia. A lui proprio non va giù il progetto sovranista e vagamente razzista di Matteo Salvini, e soprattutto non intende essere subordinato al leader leghista. A Berlusconi starebbe ben più a cuore un'alleanza con Renzi, il miglior modo, a suo parere, per poter continuare a tutelare i propri interessi. E poi questo non è il momento più adatto per Berlusconi per lasciarsi andare a derive lepeniste, proprio adesso che è tornato a sfoggiare grandi e finti sorrisi in Europa. Un'Europa che dà a intendere di avere scordato il passato dell'ex Cavaliere, fatto di processi, condanne, servizi sociali, ma che in realtà non ha dimenticato affatto. E poi c'è l'attesa per la sentenza del tribunale di Strasburgo, una pronuncia che gli potrebbe restituire l'agognata piena agibilità politica, ma che fatalmente arriverà troppo tardi. E infine tra poco le primavere saranno ottanta, e questo non gioca a suo favore.
Ansima, Beppe Grillo. L'ex comico non ha ancora deciso se intende governare oppure no. Probabilmente tale decisione è stata presa, ma non può essere esternata. Ed è quella di continuare a fare opposizione, per sempre. Grillo ha ormai compreso che governare non è semplice. Occorre competenza, occorre una classe dirigente all'altezza, occorre assunzione di responsabilità. Tutte caratteristiche che mancano al suo partito. Le esperienze in merito nei governi locali sono state disastrose. Federico Pizzarotti, primo sindaco Cinque Stelle di una grande città, si è rivelato un buon amministratore ed è stato rieletto, ma da tempo e senza alcuna ragione è stato espulso dal partito Cinque Stelle. Le sindache di Roma e Torino, elette trionfalmente soltanto un anno fa, sono entrambe gravate da avviso di garanzia, per motivi diversi, ma ciò che le accomuna è l'inerzia delle loro giunte, l'inesperienza evidente, l'incapacità di affrontare un'attività complessa com'è quella di governare una grande città, la totale assenza di progetti, di una visione.
Ansima, l'Italia. Un paese che ha il fiato corto.

martedì 4 luglio 2017

IL PANE QUOTIDIANO - 3° e ULTIMA PARTE


Carlos e Pedro annuirono. Poi diedero un'occhiata al giudice, che sembrava piuttosto impaziente, e iniziarono i preparativi. Il prigioniero, annientato dalla tensione nervosa e dalle botte ricevute, sembrava sul punto di perdere i sensi da un momento all'altro. Ramirez dovette sorreggerlo.
"Pedro, vai a prendere il cappuccio!" ordinò Carlos.
Il compare si diresse rapido alla baracca, saltellando sulle gambe corte e tozze. Tornò dopo pochi istanti con quanto gli era stato richiesto. Nel frattempo il gruppo si era avvicinato alla struttura posta al centro del cortile. Pedro li raggiunse, ansimando per lo sforzo e per il troppo liquore ingurgitato. Si accostò al prigioniero, che ormai sembrava del tutto rassegnato, e gli infilò sulla testa un pesante cappuccio nero di tela grezza. Il giudice Mendoza non riuscì a trattenere una risata.
"In che epoca strana viviamo!" esclamò, sempre sorridendo. "Un volta era il boia a indossare il cappuccio, e non il condannato!"
"Le mode cambiano" disse il capitano Gallego, sperando di compiacerlo.
"Zitto! Non si scherza su queste cose!" lo rimproverò aspramente il giudice. "Abbia un po' di rispetto!"
Gallego avrebbe voluto scomparire.
In quel momento Pedro stava salendo la scalinata che conduceva al patibolo, sospingendo dinnanzi a sé il remissivo condannato. I due giunsero sulla pedana e si fermarono.
"Signor giudice, dovete dire qualcosa?" domandò Carlos.
"Procedete. E fate presto" disse Mendoza osservando l'orologio da taschino.
Pedro, ricevuto un cenno dal collega e superiore, avvicinò la testa incappucciata del condannato al cappio già predisposto. Ve la infilò e iniziò a stringere il nodo scorsoio. Le sue mani tremavano. Adesso il prigioniero ansimava pesantemente. La stoffa del cappuccio, nel punto in corrispondenza della sua bocca, dapprima si alzava e subito dopo era come risucchiata. Dopo aver svolto il suo compito, Pedro scese dall'alta pedana e si sistemò su un lato, in prossimità di una leva. La impugnò e attese. Il giudice Mendoza squadrò i presenti, quindi si voltò in direzione del patibolo.
"Che si esegua la sentenza, in nome del popolo e della legge!"
Quasi nello stesso momento, Pedro abbassò la leva. La terra, o per meglio dire il legno, venne a mancare all'improvviso da sotto i piedi del condannato. Una botola si era aperta e lo sventurato penzolava nel vuoto. Da lui provenivano gemiti e rantoli disperati, da fare accapponare la pelle, e che non accennavano ad avere fine.
Carlos decise di intervenire.
"Pedro, accidenti! Il nodo, non hai stretto bene il nodo! Il collo non si è spezzato e questo bastardo sta morendo soffocato. Sbrigati, fai qualcosa!"
Tutti gli occhi degli astanti si posarono sul povero Pedro, il quale non indugiò neppure un attimo. Balzò di nuovo sulla pedana, muovendosi in maniera incredibilmente agile. Si avvicinò alla botola e si sporse nel vuoto. Riuscì in qualche modo ad afferrare il condannato per i piedi e diede un violento strattone verso il basso. Si udì un rumore secco, il rumore della vertebra che si spezza. Adesso era davvero tutto finito.
"Dobbiamo aspettare il vecchio Ortega?" domandò Carlos al capitano Gallego.
"No, è già andato via. Verrà domani mattina" rispose l'altro con indifferenza.
"Domani mattina? Lo seppellirà domani mattina? E nel frattempo dove lo mettiamo?"
Intervenne il giudice, accennando al cadavere ancora penzolante.
"Toglietelo da lì e sistematelo da qualche parte".
"Dove, signor giudice?"
"Laggiù" rispose Mendoza indicando il capanno degli attrezzi in fondo al cortile.
"Ma... con questo caldo..." disse Carlos, perplesso.
"Lasciate la porta aperta, tanto non scappa" aggiunse il giudice, sorridendo per la facezia. E se ne andò senza salutare, seguito dal capitano Gallego e dal giovane Ramirez, pallido in volto.
"Pedro! Hai sentito?" ruggì Carlos. "Diamoci da fare".
I due richiusero la botola del patibolo e, con fatica, staccarono il corpo senza vita dal cappio e lo adagiarono a terra.
"Tolgo il cappuccio?" domandò Pedro, sperando ardentemente in un diniego.
"Lo farà Ortega domani. Piuttosto, vai a prendere la carriola".
Pedro ubbidì e dopo un po' fu di ritorno portando una vecchia carriola arrugginita. Aiutato da Carlos, vi sistemò il cadavere incappucciato e, lentamente, si diresse verso il capanno degli attrezzi.
"Lascialo sopra! Domani ci penserà Ortega" gridò Carlos al collega, poi tornò di fretta nella baracca. Afferrò il cappello e si apprestò a tornare finalmente a casa. Vide Pedro che stava arrivando.
"Pedro, ricordati di timbrare lo straordinario, altrimenti ci fottono i soldi!" disse.
"Grazie per avermelo ricordato, Carlos" rispose l'altro. "Sei un vero amico".

(fine)