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sabato 25 febbraio 2017

LA PISTOLA

C'è una stagione della vita dove tutto sembra essere magico. Il passato è ancora breve, non si è ancora tormentati dai ricordi e dai rimpianti, non c'é la necessità di fare progetti per l'indomani, perché il futuro non esiste, c'è soltanto il presente. Una stagione della vita che trascorre in fretta, troppo in fretta.
Quel giorno, il mio presente e quello del mio amico Mario era costituito dalle fionde.
Avevo risparmiato la mia paghetta settimanale per quasi due mesi finché non avevo racimolato la somma necessaria per comprare una nuova fionda, quella con la forcella di metallo. Era bellissima, lucida, con gli elastici neri a sezione quadrata e il manico rivestito di cuoio. Ero impaziente, non vedevo l'ora di provarla. Ma per farlo dovevo aspettare che Mario terminasse la costruzione della sua, di fionda. Mi aveva chiesto il permesso di utilizzare il banco da lavoro di mio padre per gli ultimi ritocchi alla sua arma. Aveva serrato la forchetta di legno nella morsa e stava verificando la tenuta degli elastici. Era concentrato, con la fronte imperlata di gocce di sudore e la punta della lingua che faceva capolino dalle labbra carnose. Mario non avrebbe mai utilizzato una fionda acquistata in un negozio. Innanzitutto non possedeva denaro, perché la sua era una famiglia povera, lui era il quinto di sette figli, e la paghetta settimanale esisteva soltanto nei suoi sogni di ragazzino. In ogni caso il mio amico amava costruire gli oggetti da sé. Quando decideva di fabbricarsi una nuova fionda si armava di un coltellaccio e poi spariva nel bosco, e non ne usciva finché non aveva trovato ciò che cercava, vale a dire il pezzo di legno più adatto, stagionato al punto giusto, con la migliore biforcazione. Dopo proseguiva la sua opera scortecciando, limando, lisciando e carteggiando fino a ottenere un risultato che lo potesse soddisfare. Infine ritagliava delle strisce di gomma da vecchie camere d'aria di bicicletta e le fissava al telaio. Quegli elastici erano sempre troppo larghi, tanto che Mario li tendeva con fatica. Le sue fionde non avevano mai un tiro preciso, ma possedevano la potenza di un cannone.
"Finito" disse il mio amico, liberando la sua grossa fionda dalla stretta della morsa.
"Le andiamo a provare?" domandò poi lanciando un'occhiata un po' invidiosa alla mia arma luccicante.
"Dove?" chiesi, infilandomi la fionda nella cintola dopo aver raccolto gli elastici attorno alla forcella.
Pensò per un attimo, alzando gli occhi.
"Alla casa abbandonata" disse. Approvai con entusiasmo e, di corsa, uscimmo dal garage.
Quella casa si trovava appena fuori dalla borgata. Fino a un paio d'anni prima era stata abitata da una vecchietta, Pina dei gatti, che viveva sola. L'anziana donna era chiamata così perché dava rifugio a tutti i gatti randagi del paese. Le più sudice bestiacce, alcune di loro con il pelo che cadeva a ciuffi, altre con orecchie o code mozzate dalle tante battaglie, trovavano sempre dalla loro amica una ciotola di latte fresco o qualche appetitoso avanzo. Quando Pina era morta, all'improvviso, nessuno aveva reclamato la casa. Lei non aveva figli o nipoti, e forse gli altri lontani parenti, ammesso che ne esistessero, si stavano ancora disputando i suoi averi a suon di carte bollate. Dall'abitazione non era stato portato via nulla, anche se l'edificio, ormai privo del calore umano che rendeva vivi i suoi muri, e senza più alcuna manutenzione, si stava deteriorando in fretta.
Ci avviammo in direzione della casa percorrendo la stretta strada ricoperta di ghiaia. Ogni tanto, avvistato un ciottolo di particolare interesse, ben tondo e dalle giuste dimensioni, ci fermavamo e lo mettevamo in tasca. Arrivati a destinazione ci fermammo proprio di fronte alla costruzione. La casa abbandonata era circondata da tre lati da un alto muraglione di pietra, in parte diroccato.
Mario osservò le finestre del piano alto, le uniche che potevamo scorgere da quella posizione.
"Tiriamo ai vetri" disse spiegando la fionda. Stava già frugando in tasca alla ricerca di un proiettile quando lo bloccai posandogli una mano sulla spalla.
"Fermo! Se ci vede qualcuno passiamo dei guai" dissi.
Lui imbronciò le labbra e poi sputò a terra. Come detestavo quella sua brutta abitudine!
"Qui intorno non c'è nessuno" rispose, asciugandosi la bocca con la mano.
"Però potrebbe passare qualcuno all'improvviso. Se i miei lo vengono a sapere non mi faranno più uscire per tutta l'estate".
"Fifa?" domandò lui.
"No" risposi, un po' risentito. "Ma ci tengo alla mia fionda".
"D'accordo, allora entriamo. Sarà meno divertente tirare dal cortile, perché il bersaglio sarà troppo vicino. D'altra parte il nostro scopo è soltanto quello di provare le fionde".
"Proprio così" approvai. "Facciamo qualche tiro, buttiamo giù un paio di vetri e poi ce la diamo a gambe".
Ci avvicinammo al grande portone di legno, che era soltanto accostato, ed entrammo nel cortile. L'interno era pieno di erbacce, alcune delle quali ci superavano in altezza.
"Avrei dovuto portare il machete" disse Mario, riferendosi al coltellaccio di suo padre che lui amava chiamare in quel modo.
Ci facemmo largo tra gli arbusti e raggiungemmo un lato dell'edificio. E lì ci bloccammo, con il cuore che in pochi secondi iniziò a martellare nel petto. C'era una macchina. Feci segno a Mario di non parlare, poi mi accostai all'autovettura, una vecchia Simca 1000 celeste. Posai una mano sul cofano posteriore dell'auto, perché era lì che si trovava il motore, e ve la tenni appoggiata per qualche secondo. Era freddo.
"Sono in casa" sussurrò Mario.
"Non è detto" risposi. "Secondo me non c'è nessuno. Questo catorcio di sicuro è stato rubato e poi abbandonato qui. Forse torneranno per smontare qualche pezzo".
"E se tornano adesso?" chiese Mario, che appariva sempre più preoccupato.
"Fifa?" gli domandai, prendendomi una piccola rivincita.
"Figurati" rispose lui con voce incerta.
"Se tornano lo faranno stasera, all'imbrunire, o chissà quando. Magari non verrà mai nessuno e lasceranno la macchina ad arrugginire. Non c'è alcun pericolo. Andiamo".
"Dove?" chiese il mio amico, allarmato.
"Dentro" dissi, cercando di apparire sicuro.
"Non tiriamo ai vetri?"
"Dopo. Vieni".
Raggiungemmo la facciata principale dell'abitazione e ci avvicinammo con circospezione alla porta d'ingresso. Notai con soddisfazione che anche questa era solo accostata.
"Perché non è chiusa?" domandò Mario.
"Non lo so" dissi. "Forse non lo è mai stata, oppure qualche curioso voleva vedere che cosa è rimasto dentro, o intendeva rubare qualcosa".
"Entriamo" proposi. "Diamo un'occhiata veloce e poi ce ne andiamo".
Mario appariva un po' riluttante. Alla fine annuì.
"Però facciamo in fretta" disse.
Sempre senza fare rumore, scostammo la porta ed entrammo.
L'interno della casa era in penombra. Ci trovammo in una grande cucina, l'unico ambiente del piano terra dell'abitazione. Tutto era rimasto come quando tra quelle mura ci viveva Pina dei gatti. I mobili erano grandi e scuri, ricoperti di polvere bianca. Nell'aria c'era odore di chiuso e di muffa. Stavamo per terminare la nostra frettolosa esplorazione quando notammo qualcosa che ci colpì. E che ci fece paura.
Sul vecchio divano di cuoio marrone era appoggiata una borsa. Si trattava di un borsone sportivo, di colore verde scuro. Io e Mario ci scambiammo uno sguardo preoccupato poi, spinti dalla curiosità, ci avvicinammo. La borsa era in parte aperta. Afferrai la linguetta della cerniera e la aprii del tutto.
Mario sbarrò gli occhi.
"Che cosa stai facendo?" mi bisbigliò.
"Voglio vedere" sussurrai.
Scostai i lembi del borsone. E rimasi deluso. Al suo interno c'erano dei vestiti: un paio di pantaloni, una camicia con delle macchie scure, un berretto di lana, dei guanti. Sul fondo, un paio di scarpe.
"Andiamo via" disse Mario.
Annuii, ma proprio in quell'istante mi sembrò di udire uno strano rumore provenire dal piano di sopra. Anche il mio amico lo aveva sentito. Mi prese per un braccio e cercò di trascinarmi verso l'uscita. Mi liberai con uno strattone, gli feci segno di non dire nulla.
"Vado a vedere" dissi. "Sarà un gatto".
Mario scosse più volte il capo. Indicò di nuovo, con gli occhi, la porta, ma non riuscì a farmi cambiare idea. Quando la curiosità mi assaliva non c'era verso di resistere. Mi avvicinai alla scala.
"Fai in fretta, io ti copro" mi disse Mario sfoderando la fionda e caricandola con un grosso ciottolo.
"Fifone" gli mimai con le labbra, poi iniziai a salire. Avanzai sui gradini di pietra con attenzione, cercando di non fare il minimo rumore. Arrivai sul pianerottolo e vidi che la porta della stanza da letto era aperta. Adesso sentivo in modo chiaro quel rumore che prima avevo appena percepito. Era un respiro, un respiro pesante, quasi affannato. All'istante compresi che si trattava di qualcuno che stava dormendo, anzi russando. Ancora una volta fu il desiderio di sapere a prevalere, anche se le mie viscere stavano ribollendo per la paura. Mi affacciai.
L'uomo disteso sul nudo materasso indossava soltanto una canottiera e un paio di enormi mutande bianche. Riuscivo a scorgere molto bene la sua figura addormentata poiché alcune lame di luce filtravano dalle persiane appena socchiuse. Era voltato su un fianco, e teneva una mano sotto la testa. Ai piedi del letto c'era una bottiglia di Stock 84 piena a metà. Ecco perché il sonno dell'uomo era così pesante: era completamente sbronzo. Proprio mentre stavo per tornare indietro il mio sguardo cadde sul comodino. Sul ripiano c'era una pistola. Compresi subito che si trattava di una vera pistola. In apparenza non era molto diversa da quelle che usavamo io e miei amici per giocare. Tuttavia, a differenza delle nostre, quell'arma aveva un'aria cupa e minacciosa.  
Non so perché lo feci, e anche a distanza di tanti anni non riesco a darmi una spiegazione razionale. Avanzando in punta di piedi mi accostai al comodino e presi l'arma, afferrandola per la canna Rimasi sorpreso dal suo peso. L'uomo addormentato emise uno strano sbuffo. Ebbi l'impressione che i miei capelli si rizzassero sulla nuca. Senza più badare a non fare rumore, mi precipitai verso la scala, sempre con la pistola in mano. Mentre scendevo i gradini a due per volta, rischiando di cadere a causa della scarsa luce, mi sembrò di udire del tramestio in cucina. Quando vi sbucai andai a sbattere contro le gambe di un uomo in divisa. Era un carabiniere. Lui mi bloccò afferrandomi per le spalle, poi scorse la pistola e ma la strappò di mano. Altri carabinieri entrarono in casa, salirono al piano di sopra. Di Mario non c'era traccia, lo avevano fatto uscire. Il militare mi trascinò fuori, sempre scuotendo il capo. Non disse nulla, ma sul suo volto c'era l'ombra di un sorriso. A me piace pensare che quel ragazzo, perché si trattava di un ragazzo, avrebbe voluto dirmi: "Non lo dovevi fare, ma sei stato bravo, davvero bravo".
Ecco come terminò la stagione magica della mia vita.

domenica 19 febbraio 2017

EVASIONE



Ho trascorso più di vent'anni al gabbio, e non è ancora finita. Sono andato dentro per una sciocchezza, se di sciocchezza si può parlare quando si tratta di un duplice omicidio. Piano, non correte, non arrivate subito a frettolose conclusioni, perché adesso vi spiego. Per prima cosa dirò che nel mio caso non si è trattato affatto di un errore giudiziario. Insomma, sono colpevole del delitto che mi è stato attribuito anche se non ne sono stato l'esecutore materiale. Semplice complicità, o concorso, come disse il pubblico ministero, quel bastardo. E allora perché mi lamento? Ho commesso un crimine, sono stato pizzicato e giustamente condannato. Punto. Il fatto è che a quella rapina io non dovevo partecipare. È vero, ne ero a conoscenza, avevo contribuito a progettarla, ma io quel giorno non avrei dovuto esserci. All'ultimo momento mi ero tirato fuori perché non ne ero del tutto convinto. Alla fine si era deciso che sarebbero andati Emanuele e Filiberto, loro due da soli. Destino volle che, proprio quella mattina, Emanuele cadde mentre si faceva la doccia e si frantumò la mano. E si trattava della mano destra, proprio quella con cui impugnava la pistola. Il mio socio Filiberto, disperato, mi fece una scampanellata e mi propose di scendere in campo. Così, all'ultimo momento. D'accordo, ero pur sempre la riserva, e dunque accettai per senso del dovere, per pura lealtà nei confronti della squadra. Compagine che si presentò in banca rimaneggiata e in ritardo. E in grande affanno. Tutto andò storto. Il cassiere si mise a fare i capricci. Non ne voleva assolutamente sapere di mollare la grana. Alcuni clienti ci dissero di spicciarci perché avevano fretta. Il buon Filiberto, alla fine, si innervosì. Cacciò fuori il ferro per mettere un po' d'ordine e, non si sa come, ancora prima che lo spianasse partirono in rapida successione alcuni colpi. I primi due seccarono il cassiere ponendo fine alla sua crisi isterica; un altro, dopo aver allegramente rimbalzato qua e là, andò a incocciare nel testone di un amministratore di condominio. Risultato finale: due a zero per noi, ma in queste competizioni chi segna perde. Non avevo avuto il tempo di fare o di dire nulla e mi ritrovavo già sconfitto. La fuga fu messa in pratica senza grande convinzione. Ci beccarono dopo mezz'ora, mentre correvamo ormai senza fiato attraverso un campo di grano. Avevamo dovuto abbandonare l'auto perché si era guastata. Quando la sfiga ti perseguita non c'è nulla da fare. Processo, condanna a trent'anni di reclusione e palla al centro
In carcere, si sa, accadono brutte cose. Soprattutto quando sei novellino. All'epoca, e adesso ancora meno, non ero per niente piacente, tuttavia ero giovane. A quelle due vecchie checche in calore ciò era più che sufficiente. Quelle mica si soffermavano ad ammirare la delicatezza dei lineamenti del volto o il colore degli occhi, quelle puntavano a ben altro. Mi si avvicinarono già il primo giorno, nel locale attiguo a quello delle docce. Di guardie non c'era traccia, e gli altri detenuti si allontanarono con discrezione. Potrei raccontarvi che affrontai quegli energumeni minacciandoli con uno sguardo freddo e spietato, mettendoli in fuga e riempiendo di calci quei loro culi grossi e flosci. Invece non andò così. Mi misi a frignare come un vitello, li pregai e li implorai, ma non ci fu nulla da fare. A essere bersagliato fu il mio, di didietro, e non fu trattato a pedate ma con strumenti ben più sofisticati. Quella fu la prima volta, ma a quella ne seguirono molte altre, finché quasi mi abituai. In ogni caso, quando fui ormai avvezzo a quella pratica per me del tutto nuova, i due persero interesse per il sottoscritto. Era stato appena ingabbiato un giovincello, un ladro d'auto, che portava lunghi boccoli biondi. Non aggiungo altro.
Siccome mi lasciarono tranquillo, cominciai a pensare e a ripensare a un modo per lasciare il gabbio. Insomma, mi concentrai sulla possibile evasione. Da quella prigione, nel corso degli ultimi anni, non era mai scappato nessuno. E, in un primo momento, non ci riuscii neppure io. Tutti mi dicevano che l'unica maniera sicura di uscire dal carcere era di farlo con i piedi davanti. In breve, suicidandosi. L'idea non mi allettava più di tanto, comunque cominciai a meditarci sopra. Tanto di tempo ne avevo. Un buon sistema per togliersi dalle spese sarebbe stato quello di procurarsi un oggetto tagliente - in carcere non era difficile farlo - e di tranciarsi le vene dei polsi o, meglio ancora, quello di sgozzarsi. Però a me la vista del sangue faceva impressione, in special modo se quel sangue era il mio. Esaminai alternative meno cruente. Edmondo, un ergastolano, mi consigliò il metodo del sacchetto di plastica. Ci pensai alcuni mesi, e alla fine conclusi che morire soffocato per mia stessa mano non era un buon sistema. E poi soffrivo di una leggera forma di claustrofobia, e l'idea di trascorrere un po' di tempo, quello necessario, con la capoccia rinchiusa in un sacchetto del supermercato mi provocava ansia. Il suicidio ideale per me era uno soltanto, rapido e quasi del tutto indolore: gettarsi dal decimo piano e amen. Il fatto è che il carcere di piani ne aveva soltanto due, la mia cella era al primo e, in più, la finestra era stretta e dotata di robuste sbarre. Su quel fronte niente da fare, dunque.
Tra un pensiero e l'altro gli anni trascorsero, tanto che ormai all'evasione quasi non ci pensavo più. Finché venne quel giorno. Per via della mia buona condotta da un po' di tempo ero stato destinato alle pulizie degli uffici, compreso quello del direttore. Quel giorno quella carogna del dottor Arnaldi non c'era. A sorvegliarmi c'era una sola guardia la quale, ritenendomi del tutto inoffensivo, si andò ad accomodare a una scrivania del locale adiacente. Armato di scopa, secchio e stracci feci quel che dovevo fare, pulendo lucidando e lustrando. A un certo punto udii un sommesso russare provenire dall'ufficio vicino. Ci andai e trovai il secondino addormentato come un angioletto. Di colpo mi venne in mente una comica di Buster Keaton che avevo visto in televisione quando ero bamboccio. Per poco non mi misi a ridere al ricordo. Perché no? Mi posizionai alle spalle dell'uomo e, senza fare rumore, afferrai un pesante fermacarte di onice e glielo calai con forza sul cocuzzolo pelato. Il suo sonno divenne più profondo. Lo adagiai sul pavimento e poi lo spogliai. Poi gli legai un fazzoletto sulla bocca, strappai il filo del telefono e gli immobilizzai le mani. Quindi lo trascinai dentro a un armadio a muro. Indossai la sua divisa, che mi stava a pennello. Aspettai le undici, l'ora del cambio delle guardie, e uscii. Attraversai con noncuranza il cortile, facendo cenni di saluto ai secondini che entravano in servizio. Nessuno badò a me più di tanto. Ancora qualche passo e mi ritrovai fuori, dopo più di vent'anni. Davanti a me si stendeva una enorme spianata, tutt'attorno non scorgevo edifici ma soltanto spazio vuoto. Uno spazio enorme, infinito. Iniziai a sudare, poi i battiti del cuore accelerarono, mi sembrava di svenire. Non era vero che soffrivo di claustrofobia, come avevo sempre creduto, in realtà pativo di quell'altra cosa, la paura degli spazi aperti. Mi ero ammalato in prigione. Facendomi forza con le ultime energie rimaste, sempre più in affanno, raggiunsi il portone del carcere e suonai il campanello.

sabato 18 febbraio 2017

IL BACO


L'appuntamento è in piccolo bar di periferia. Quando arrivo lui non c'è ancora. Mi dirigo al banco e ordino una birra. Trascorsi quasi venti minuti, la birra non toccata e ormai calda, mentre mi chiedo se rispetterà l'impegno, lo scorgo attraverso la vetrata. Sono sicuro che è lui, anche se non l'ho mai visto prima. Un uomo di quasi quarant'anni, in impeccabile abito grigio, occhiali scuri e passo deciso. Sono certo di non sbagliare poiché si tratta di una persona ben diversa, quasi aliena, rispetto alla clientela del locale: vecchiette che dilapidano la misera pensione ai video-poker, anziani dalle guance scavate e non rasate che calano carte e bestemmiamo, camionisti abbrutiti di passaggio che ingurgitano enormi panini alla mortadella.
Esco dal bar e gli vado incontro.
"Maestri" dico, porgendogli la mano. Lui ricambia la stretta e annuisce.
"Restiamo fuori" dice.
Fa freddo, ma lo assecondo. Ci accomodiamo all'unico tavolino porto all'esterno del bar, un tavolino sbilenco e assalito dalla ruggine.
Lui nota la mia perplessità.
"È più sicuro" aggiunge.
Ci studiamo per un attimo poi, per vincere l'imbarazzo, estraggo dalla borsa un piccolo registratore, un taccuino e una penna.
"Preferirei che non registrasse il colloquio. Anzi, lo pretendo" dice.
Ripongo il registratore e impugno la penna. Dovrò accontentarmi di appuntare ciò che forse mi racconterà.
Lui incrocia le braccia e sorride. Aspetta. Non c'è dubbio, tocca a me iniziare. Sono io il giornalista, quello che fa le domande.
"Perché si è rivolto proprio a me? Il mio è un piccolo giornale, ed io non sono un cronista famoso".
"Il motivo è semplice. Voglio che ciò che dirò sia pubblicato, ma non trattato come uno scoop sensazionale. Desidero che qualcuno ne venga a conoscenza, ci rifletta su, ne parli con amici e conoscenti. Mi aspetto che le informazioni si diffondano lentamente, senza che si crei una eccessiva attenzione; tutto ciò per evitare immediate e violente reazioni che sarebbero controproducenti al mio proposito".
"Quali reazioni?" domando.
"Oh, le solite. I grandi giornali sarebbero accusati, come da copione, di nutrire pregiudizi, di ordire complotti, di essere al servizio dei poteri forti. Il suo, invece, è un foglio ritenuto credibile e di sicuro indipendente".
"Il suo nome, in ogni caso, non dovrà comparire".
"Questi sono gli accordi".
"E se non li rispettassi?" azzardo.
Lui scuote il capo, divertito.
"Io finirò nei guai, e lei pure. E i guai più grossi saranno di sicuro i suoi!"
"Che tipo di guai?" chiedo, un po' indispettito.
"Perché prima non ascolta ciò che le voglio dire?"
Sospiro.
"D'accordo. Per quale ragione ha deciso di parlare?"
"È meglio se partiamo dall'inizio" dice.
"Come vuole. Da quanti anni milita nel movimento?"
"Dall'inizio. Però smettiamola di chiamarlo movimento. Un movimento è un'altra cosa, il mio è un partito a tutti gli effetti, strutturato e organizzato".
"Non si direbbe" dico.
"E si sbaglia. Diciamo che non appare come tale, ma ciò è voluto. Serve per ingannare i più ingenui, i più creduloni, gli sprovveduti. Abbiamo rappresentanti in parlamento, nelle istituzioni, governiamo delle città. Un partito a tutti gli effetti".
"Lei non è qui per tessere le lodi del suo movim... del suo partito".
"Esatto".
"Al telefono mi ha detto che, a un certo punto, lo spirito iniziale è stato tradito. Quando è avvenuta questa  trasformazione?"
"Quasi subito. E si è trattato di un cambiamento programmato. Tutto è già stato programmato: il principio, il periodo intermedio e quello finale".
"Da chi è stato programmato?"
"Passo".
"In quale fase ci troviamo in questo momento?"
"Siamo quasi alla fine della fase di mezzo".
Arriva finalmente il cameriere. Ordiniamo dell'acqua minerale.
"Lei non si è mai candidato, non fa parte dell'apparato del partito, non compare mai, non si è a conoscenza di suoi scritti o interventi di qualsiasi natura. Insomma, quale posizione occupa nel partito?"
"Io sto in alto, molto in alto".
"Mi faccia capire. Vuol dire che sta sopra ai parlamentari?"
Lui ride e annuisce.
"Quelli sono soltanto stupidi arrivisti. Non contano un cazzo e non se ne rendono conto".
"Accanto al sedicente portavoce?"
"Più in alto, molto più in alto. Quello è un buffone, un burattino urlante e nulla più".
"E il proprietario?"
"Quello a cui lei si riferisce è un semplice amministratore, e neppure troppo brillante".
"Insomma, qual è il suo ruolo?"
"Un ruolo di vertice, diciamo".
"Mi faccia capire. Chi è che davvero dirige il movim... il partito?"
"Non lo so, ma lo scoprirò presto. Sempre se non sarà troppo tardi".
Sono confuso. Cerco di riordinare un po' le idee allo scopo di porre domande pertinenti. Prendo qualche appunto.
"Qual è il fine del movim... del partito?"
"L'obiettivo di tutti i partiti: governare".
"In questo non vedo nulla di strano".
"Noi vogliamo governare da soli".
"Anche questo lo capisco: per non incontrare ostacoli nella realizzazione del programma, per non dover scendere a compromessi, per non dover mercanteggiare".
"Esatto".
Sto perdendo la pazienza.
"Ma allora qual è il problema?" domando, alzando un po' la voce.
"Noi vogliamo occupare i posti di governo per poter realizzare il nostro vero programma, vale a dire non governare. Stando all'opposizione ciò non è possibile. Stiamo portando avanti degli esperimenti in alcune grandi città: stanno funzionando. Prima o poi, è inevitabile, ci sarà il grande salto a livello nazionale".
"È la descrizione di un sistema totalitario" dico.
"Niente affatto. Una dittatura governa, eccome se governa, anche se lo fa utilizzando la forza e la repressione, limitando le libertà individuali. Il nostro disegno non è questo ma si spinge in tutt'altra direzione. Noi intendiamo creare una inestricabile situazione di caos, uno scenario ancora peggiore di quello rappresentato da un governo autoritario".
"Perché? A chi potrebbe giovare una cosa simile?"
"Credo di averlo compreso, ma non lo posso rivelare. Sto cercando di impedirlo".
Bevo tutto di un fiato il bicchiere di acqua minerale. Non sento più freddo. Anzi, sto sudando.
"Come pensa di ostacolare questa mostruosa deriva, sempre se ciò che mi sta raccontando corrisponde al vero?"
"Le assicuro che è la verità. E non le posso rivelare tutto. Almeno per ora. Vede, il mio partito è organizzato come un programma informatico, un programma con mille protezioni, molto difficile da attaccare. Ma tutti i programmi, anche quelli considerati inviolabili, presentano dei punti deboli, dove un virus o un baco possono infilarsi e scatenare un comportamento imprevisto o comunque diverso da quello programmato e produrre il caos. Io sarò quel baco, io provocherò quello scompiglio che farà crollare l'intero sistema prima che si scateni l'altro caos, quella dell'intera collettività, la babele definitiva".
"Ci riuscirà?" domando. Non so perché, ma credo a tutto ciò che mi ha riferito quest'uomo. Sono spaventato.
"Non lo so. Lo paga lei il conto?"

sabato 11 febbraio 2017

PATATA BOLLITA



"Patata bollente", questo il titolo del quotidiano Libero riferito alla sindaca di Roma Virginia Raggi e alle sue vicende politiche e soprattutto personali. Un titolo che ha fatto ribollire di indignazione l'intera opinione pubblica, per le sue esplicite implicazioni sessiste, e che ha avuto come immediata conseguenza molteplici attestazioni di solidarietà rivolte alla sindaca capitolina da parte di rappresentanti delle istituzioni e da tutti gli esponenti del mondo politico, amici o avversari del Movimento Cinque Stelle.
Allo stesso tempo il deplorevole episodio ha consentito a Beppe Grillo, ancora una volta di più, di scagliarsi contro il sistema dell'informazione, già accusato ripetutamente di nutrire pregiudizi e di tessere complotti contro la sua parte politica, permettendogli così di non operare alcuna distinzione tra testate serie o da barzelletta quali il quotidiano diretto da Vittorio Feltri.
Non è di sicuro la prima volta che Libero ricorre a titoloni a effetto, giocati su beceri e volgari doppi sensi. Si tratta di un modo discutibile di fare giornalismo, sempre se di giornalismo ancora si tratti, dove prevale non l'informazione, quasi del tutto assente, bensì la pura provocazione.
In ogni caso, anche in questa occasione, Vittorio Feltri ha dato prova della sua stupidità giornalistica e del suo scarso acume politico, dal momento che ha finito per provocare un ulteriore indebolimento della considerazione di cui gode l'informazione. La sua condotta scellerata ha invece ricompattato il Movimento Cinque Stelle in un momento, soprattutto a Roma, non troppo felice.
È vero, d'altra parte, che il doppio senso dipende soprattutto da chi lo legge e lo recepisce. Così come è inevitabile che Virginia Raggi, sindaca della capitale, non possa pretendere di sottrarsi all'attenzione della stampa, per il ruolo che ricopre e per come lo sta interpretando. Dopo sei mesi di governo Roma è nel caos totale. La Giunta cambia di continuo, ruoli apicali e importanti dell'amministrazione sono ancora scoperti, l'azione di governo è nulla. Senza dimenticare le implicazioni giudiziarie legate a nomine poco trasparenti, viziate, ad aumenti di stipendio clientelari.
In tutto questo scenario di abbandono politico e soprattutto di inarrestabile degrado di Roma, stupisce l'assordante silenzio di un soggetto che, più di tutti, dovrebbe essere interessato e partecipe del destino della città: i cittadini romani. Rassegnati, storditi e annichiliti dalle torbide vicende alle quali tocca loro assistere, sembrano incapaci di protestare, di reagire, di far sentire la loro voce. Un voto, forse un po' avventato, che comunque aveva rappresentato per loro l'ultima speranza, ha avuto come esito una delusione talmente grande e inaspettata da renderli muti e sgomenti.

sabato 4 febbraio 2017

IL TRAILER



Le luci della piccola sala di proiezione si accesero. L'uomo grasso seduto in prima fila soffiò fuori un po' d'aria, e non dalla bocca. Poi, stavolta dalla cavità orale, emise un lungo sospiro simile a un lamento.
Fred Bull, il famoso produttore cinematografico, infine si strofinò gli occhi, sotto ai quali aveva due borse grandi come valigie. Si pizzicò più volte le guance da mastino e poi, con fatica, si alzò dalla poltroncina. Fece un segno ai tre tizi che erano con lui.
"Andiamo in sala riunioni!" tuonò. Questi si alzarono a loro volta e lo seguirono. Il quartetto camminò a lungo nei corridoi deserti della casa di produzione. Erano le due di notte. Prima di entrare nella sala riunioni John Long, il produttore esecutivo, si avvicinò al suo capo.
"Non male il film, vero?" gli bisbigliò all'orecchio. Fred Bull si bloccò all'istante.
"John, tu stai fuori" disse.
"Come?"
"Tu non parteciperai alla riunione. Vattene e non farti rivedere per almeno una settimana".
"Ma..."
"Fila, ho detto!" urlò Fred Bull. L'altro, seppure a malincuore, ubbidì.
I tre, orfani dello sconsolato John Long, presero posto attorno all'enorme tavolo.
Fred Bull colpì il piano di cristallo con una gran manata. Poi imprecò.
"Questo film è una cagata pazzesca!" urlò.
"Questa l'ho già sentita" disse Humprey, il suo segretario personale.
"Zitto! Vuoi fare la fine di John?"
All'altro capo del tavolo il regista, Lars Lindgren, pur essendo svedese e quindi di carnagione chiara, impallidì.
"Tu! Guarda che non c'è niente da ridere!" lo rimbrottò Fred Bull.
"Ma io non stavo ridendo, signor Bull".
"Si può sapere che cosa hai fatto ai capelli?" continuò il produttore.
"I capelli? Niente, perché?"
"Non vedi? Sono gialli, sembrano paglia".
"Io sono svedese e sono biondo" rispose il regista, stupito e un po' allarmato.
"Bah! Non tutti gli svedesi sono biondi. Sarebbe come dire che tutti gli africani sono neri".
"In effetti..." tentò di intervenire Humprey.
"Ti ho detto di stare zitto!" Altra manata sul tavolo, che rischiava di frantumarsi da un momento all'altro.
"Adesso parlo io, e voi mi state a sentire senza aprire quei cessi di bocche! Capito? Mi hanno detto: tu fai soltanto film commerciali, tu pensi solo a tirare su soldi, tu non sai cos'è il vero cinema, quello d'autore, sarai ricco sfondato ma rimarrai sempre un produttore di secondo piano. Io, da perfetto imbecille, alla fine ho dato retta a quei cialtroni invidiosi e ho deciso di fare un film serio, impegnato. Ho investito un sacco di grana, ho preso uno dei migliori registi sulla piazza, ho scritturato gli attori più bravi e più avidi, ho dato carta bianca a tutti e alla fine mi ritrovo con la merda che ho appena visto".
"Mi permetto di dissentire dal suo giudizio, signor Bull" intervenne timidamente Kindgren.
"Non me ne importa un cazzo delle tue obiezioni! Il film fa schifo! Ma lo hai visto?"
"L'ho diretto io, signor Bull" pigolò il regista, ma il produttore era sempre più infervorato.
"La prima scena! Dura più di venti minuti! Che cosa vediamo? Un uomo che cammina per la città. Basta. Non succede nulla, e non viene pronunciata neppure una parola!"
"Quell'uomo, il protagonista, cammina e pensa, pensa e cammina, ed esprime in tal modo tutta la sua inquietudine, tutto il suo disagio esistenziale" disse il regista, che aveva assunto un'espressione indignata.
"Io a quel tipo, l'attore, ho dato un sacco di soldi. E tu, coglione nordico, che cosa fai? Per più di venti minuti inquadri soltanto le sue scarpe. Scarpe del cazzo, tra l'altro".
"L'ho fatto per mettere in risalto lo stretto legame che c'è tra quell'uomo tormentato e la sua città".
"Ma vai a fare in culo! Guarda che non ti ho ancora pagato, brutto stronzo, e da me rischi di non prendere nemmeno un centesimo!"
"Signor Bull, siamo uniti da un contratto..." tentò di dire Lindgren.
"Ah! Il contratto! Sai che cosa faccio del tuo contratto?"
"Lo straccia?" domandò Humprey.
"Taci tu, deficiente! Io prendo quel contratto, lo arrotolo, te lo ficco in quella bocca ghiacciata e te lo faccio uscire da un orifizio meno nobile. E devo pure fare tale operazione prestando una grande attenzione, perché è molto facile, nel tuo caso, confondere un buco con un altro. E tu che cosa puoi fare dopo l'impalamento contrattuale? Ti metti un avvocato, certo. E sai quanti ne metterò io? Cento! Rimarrai in mutande, ti fotterò pure quella statuetta che hai vinto dieci anni fa! Come si intitolava quel film del cazzo, tra l'altro?"
Il povero regista rimase muto. Al suo posto rispose Humprey, il segretario.
"Intimità" disse.
"Bel titolo del cazzo. E chissà che puttanata di film. Per fortuna non l'ho mai visto" disse Bull.
"Lei mi aveva dato carta bianca" riuscì infine a dire Lindgren, la voce ridotta a un pigolìo.
"Per fare un gran film, non per fare stronzate svedesi!"
Fred Bull era sudato fradicio. Prima di proseguire, riprese fiato un attimo.
"Chi ha visto il film finora? Qualche critico?"
"Nessuno" disse Humprey. "A parte noi tre, e John".
"E il trailer?" domandò ancora il produttore.
"Nessuno".
"Bene, per tentare di raddrizzare la baracca punteremo su quello. Faremo un falso trailer" disse Bull.
"Un falso trailer? Non è possibile! Non possiamo ingannare il pubblico" disse Lindgen.
Bull non gli badò. Si rivolse al suo segretario.
"Il trailer non è altro che la presentazione del film. Nessuno ha mai stabilito che debba per forza contenere scene tratte dal film stesso. E comunque una scena la utilizzeremo, quella del litigio".
"Ma dura soltanto trenta secondi!" disse Humprey.
"Non importa, la allungheremo. In questo modo: dopo il battibecco l'uomo con l'impermeabile si allontana, giusto?"
"Sì, è così".
"A quel punto il protagonista, invece di rimanere immobile come uno stoccafisso del mare del Nord, estrarrà una pistola e gli sparerà alla schiena. Almeno quattro colpi, direi".
"No!" implorò Lindgren.
"E invece sì" ribadì Bull con un ghigno.
"Ma come faremo a girare la scena?" intervenne il segretario. "Ormai tutti gli attori sono impegnati in altre produzioni in ogni parte del mondo".
"Quelle sanguisughe non le voglio più vedere. Andate per strada, prendete i primi vagabondi che incontrate, oppure dei barboni, date loro qualcosa da mangiare e gli fate girare la scena. Tanto nella scena entrambi gli attori sono di spalle. E  poi ci vuole un bell'inseguimento con incidente finale."
"Ma..."
"Raccattate un paio di stuntman, quelli che girano sempre a vuoto negli studi, gli pagate due puttane da quattro soldi, poi vi procurate due rottami di macchine e girate la scena. Intesi?"
"Signor Bull..." tentò di dire il Lindgren. Bull lo zittì con uno sguardo di fuoco.
"Ultima cosa" riprese il produttore. "La musica. Chi ha scritto la musica del film?"
"Yukyo Yakamoto, il famoso compositore giapponese" disse Humprey.
"Dite al muso giallo che la sua musica fa cagare, e nel trailer inserite qualcosa di più allegro. Che so... una marcetta, per esempio. Avete tre giorni di tempo per fare tutto. Non di più".
Lars Lindgren, il grande regista svedese premio Oscar, iniziò a piangere.
"Ma il pubblico non si sentirà preso in giro?" domandò il segretario.
Fred Bull lo guardò, divertito.
"E a noi che ce ne fotte?" disse.