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domenica 24 dicembre 2017

CACCIA A BABBO NATALE


Il fucile è sotto il cuscino. Giulio dorme, ma il suo sonno è quello, molto leggero, di tutti i bambini la notte di Natale. Infatti un lieve rumore in salone subito lo sveglia. Giulio si stropiccia gli occhi e guarda l'ora: le undici e quaranta. Possibile che sia in anticipo? Il bambino si alza e imbraccia il fuciletto ad aria compressa, quello che gli ha prestato il suo amico Filippo. Di soppiatto, a piedi scalzi, si avvicina alla porta del salone, che è di poco scostata. Giulio sbircia attraverso la fessura e vede suo padre. L'uomo indossa una buffa vestaglia e in mano ha un piccolo pacco. Si guarda attorno, un po' disorientato per la poca luce, quindi si china e lo appoggia ai piedi dell'albero di Natale. Delle due l'una, riflette il bambino: o il genitore sta posando un dono per la mamma oppure, proprio come il suo amico Filippo, non crede all'esistenza di Babbo Natale e quel regalo è per il suo figliolo. Dopo avere eseguito il suo compito il padre, sempre muovendosi al buio, si dirige in cucina e beve un bicchiere d'acqua. Quindi esce dal salone. Giulio, quasi di corsa, ritorna nella sua cameretta prima di essere sorpreso. Si rimette a letto, ma il sonno non arriva più. Ormai è quasi mezzanotte, lui potrebbe arrivare da un momento all'altro. E infatti dopo pochi minuti il bambino sente di nuovo un lieve rumore. Si alza, imbracciando l'arma che non ha più posato, e torna in salone. Questa volta, meno prudente di prima, entra. Per prima cosa nota che l'ambiente non è più in penombra. C'è luce, ma una luce particolare, che lui fino a quel momento non ha mai visto. I mobili, gli oggetti, tutto risplende come se fosse ricoperto da una polvere d'oro. Giulio sposta lo sguardo verso il camino, e i suoi occhi si spalancano per la sorpresa. Vede dapprima spuntare due gambe poi, poco alla volta, un intero corpo. Babbo Natale si guarda intorno, un po' smarrito, si spolvera la giubba, si raddrizza il berretto, posa a terra un grosso sacco, quindi ritrova la sua antica padronanza. Ed è proprio in quell'istante che scorge il bambino, e il fucile puntato contro la sua pancia.
"Mani in alto" sussurra Giulio. "Un solo gesto e sei morto".
Babbo Natale, colto alla sprovvista, ubbidisce.
"Ehi! Ma tu chi sei? E che cosa vuoi fare? Mi vuoi sparare?" domanda.
"No, non ti voglio sparare, mi servi vivo. Ma dovrai fare ciò che ti dico" dice Giulio.
"Guarda che quel fucile lo riconosco" dice Babbo Natale.
"Eh?"
"Certo. L'ho portato in dono lo scorso Natale a un bambino che abita qui vicino".
"È il mio amico Filippo".
"Oh, me lo ricordo bene quel bambino. Sai, io sono contrario a regalare armi ai bambini, perché è diseducativo, ma devo ammettere che quel tuo amico mi aveva messo davvero in difficoltà" spiega Babbo Natale, sempre tenendo d'occhio il fucile.
"Cioè?"
"Nella sua lettera esprimeva un solo desiderio".
"O il fucile o niente?" dice Giulio.
Babbo Natale ridacchia.
"Esatto. Vedo che lo conosci bene il tuo amico".
"Filippo è un gran testone".
"Alla fine, seppure a malincuore, ho deciso di accontentarlo. Sai, non è possibile che un bambino non riceva doni a Natale. Tuttavia quest'anno ci sono rimasto male quando da Filippo non ho ricevuto alcuna lettera. Che cosa è accaduto?"
"Semplice. È successo che Filippo non crede più a Babbo Natale" dice Giulio.
Sul volto del vecchio si disegna un'espressione triste.
"Oh, mi dispiace" dice.
Giulio scruta con maggiore attenzione l'imponente figura che gli sta di fronte, sotto il tiro del suo fucile. Nota che la giubba e pantaloni del vecchio sono spiegazzati e consumati, il loro colore è rosso smorto. Poi osserva il suo viso. Un volto completamente diverso da quello dei tanti Babbi Natale finti che ha visto per strada o al centro commerciale nei giorni precedenti. Il bambino non sa spiegarsi in cosa consista esattamente tale differenza, semplicemente percepisce in lui una sembianza... vera.
"Scusami" dice Babbo Natale, cercando di approfittare dell'attimo di smarrimento del bambino. "Adesso devo proprio andare".
Giulio scuote il capo.
"Non se ne parla" risponde il bambino. "Devo portare a termine la mia missione".
Babbo Natale sospira, rassegnato.
"E in cosa consiste la tua missione?" domanda.
"Devo dimostrare a Filippo che si sbaglia".
"E cosa vorresti fare?"
"Ti devo trattenere in ostaggio. Dovrò legarti a una sedia e domattina ti mostrerò a Giulio. A quel punto sarà costretto a credere".
Babbo Natale sospira di nuovo, poi abbassa le mani e inizia a frugare nel sacco.
"Fermo o sparo!"
"Non ti preoccupare, voglio soltanto consegnarti il tuo regalo. Nonostante tutto te lo meriti".
Il vecchio posa un grande pacco proprio ai piedi del bambino.
"Grazie" dice Giulio, emozionato.
"Su, adesso abbassa il fucile e lasciami andare" dice Babbo Natale.
"Non posso" dice Giulio, con voce incerta.
"Il mio giro è ancora molto lungo. Vuoi forse che molti bambini rimangano senza il loro dono? I bambini poveri, quelli più sfortunati, quelli che durante tutto l'anno non ricevono mai alcun regalo?"
Giulio scuote il capo poi, lentamente, abbassa il fucile.
"Sei veramente un bravo figliolo" dice Babbo Natale, che poi si issa in spalla il sacco.
Ed è in quel momento che a Giulio viene il lampo di genio. All'improvviso, come sovente capita ai bambini. Posa a terra il fucile, rovista nella tasca del pigiama ed estrae il cellulare, regalo di Babbo Natale dell'anno precedente. Con un balzo si affianca al vecchio, si mette in posa e scatta un selfie. Babbo Natale, sbigottito da quella fulminea iniziativa, è immortalato in una comica espressione. La stessa che il giorno di Natale Giulio mostrerà al suo amico Filippo, quel testone.

BABBO NATALE CLOCHARD


Mi trovo in coda in mezzo al traffico. In questi giorni che precedono le feste la circolazione è impossibile. Le automobili sono pigiate come sardine in scatola, come acciughe in un barile. Mi distraggo e penso a qualcosa che ho letto qualche tempo fa. Una ricerca di un istituto di fisica di una prestigiosa università. Erano analizzate, appunto, le dinamiche del traffico. Si diceva è del tutto controproducente stare incolonnati con il muso dell'auto che bacia il posteriore del veicolo che ci precede. Per snellire la circolazione, per favorire la ripartenza delle automobili dopo una sosta al semaforo, sarebbe invece opportuno, e più intelligente, mantenere una distanza di almeno dieci metri tra un veicolo e l'altro. Sospiro. Nessuno sarebbe mai disposto a fare una cosa del genere, soprattutto perché si tratta di un'azione perspicace. Il semaforo è di nuovo rosso. Mi guardo attorno e scorgo un uomo che si aggira tra le auto. Non si tratta di uno dei soliti lavavetri, e neppure di qualcuno che cerca di piazzare fazzoletti di carta. E non si tratta neppure di qualcuno che semplicemente chiede l'elemosina. L'uomo appare un po' smarrito. Avrà circa sessant'anni e il viso solcato da profonde rughe. Porta capelli lunghi e barba incolta, somiglia un po' a Babbo Natale, ma i suoi vestiti non sono di brillante panno rosso, bensì sporchi e laceri. Un Babbo Natale clochard, insomma. Un Babbo Natale alla rovescia, che invece di portare doni si augura di riceverli. L'uomo si avvicina al mio finestrino e mi sorride. Ricambio, perché la sua espressione è mite e buona. Subito i miei occhi si posano sul vano portaoggetti, dove giacciono da tempo alcune monetine. Ma distolgo subito lo sguardo. D'istinto mi slaccio la cintura di sicurezza, frugo in tasca e tiro fuori il portafoglio. Estraggo una banconota, abbasso il finestrino e la consegno all'uomo. Noto che le sue mani sono molto sporche, le sue unghie orlate di nero. Lui prende la banconota, si inchina e poi la bacia. Poi, con un gesto leggiadro, indirizza quel bacio nella mia direzione. Lo saluto e richiudo il finestrino. A questo punto dovrei essere contento, dovrei provare la consueta gioia che si prova quando si compie un bel gesto (si sa che una buona azione appaga soprattutto chi la compie, più che il destinatario della stessa). Invece il mio corpo è percorso da un brivido gelato. Un'automobile, dietro di me, suona il clacson. Nello specchietto retrovisore scorgo il ghigno del conducente, lo vedo che gesticola nei miei confronti. Il semaforo è diventato verde e io non sono ripartito.

mercoledì 20 dicembre 2017

LE STORIE DI MAGNÌN



Le storie di Magnìn, il figlio dello stagnino, e della sua stravagante banda di amici. Storie ad alto contenuto alcolico, irriverenti e un po' scorrette. Le storie di un tempo che non c'è più



 Magnìn, il figlio dello stagnino, osservava divertito la disputa. Lui non era particolarmente interessato all'allevamento dei conigli. Si accese una sigaretta senza filtro e pensò che aveva quasi finito i soldi. Tra qualche giorno avrebbe dovuto cercare un lavoro. E l'avrebbe subito trovato, sicuro, perché lui era in grado di svolgere qualsiasi mansione, tuttavia non amava essere intrappolato in una attività fissa, con obblighi e orari. Lui era un uomo libero e non gli piaceva stare in gabbia.




Titolo: Le storie di Magnìn
Autore: Enzo Sopegno
Data di uscita: 2017
Pagine: 212
Copertina: morbida
Editore. Youcanprint
ISBN: 9788892658431



Reperibile presso Youcanprint.it (in versione cartacea o e-book) e nelle principali librerie virtuali ((Mondadori, Feltrinelli, Libreria universitaria).










mercoledì 13 dicembre 2017

PAURA - 2° E ULTIMA PARTE


Pietro, ancora un po' stordito, esce in strada e si avvia - con passetti brevi perché guai cadere sarebbe una vera tragedia - verso il più vicino bidone della spazzatura. Cerca di sollevare il coperchio con una mano ma non vi riesce. Quei maledetti coperchi ogni giorno diventano più pesanti, pensa, oppure è lui che sta perdendo sempre più le forze. Allora il vecchio posa a terra il sacchetto fetido e agisce con le due mani riuscendo alla fine nel suo intento. Quando però si china per raccogliere il sacco la copertura del bidone scatta come una tagliola e ne richiude l'apertura. Tutto da rifare. Pietro si guarda attorno, stanco e scoraggiato.
"Aspetti, la aiuto io" dice un uomo, che poi si avvicina. Pietro lo riconosce, si tratta di Rozzi, quello del sesto piano. Pietro ha sempre avuto un po' paura di quell'individuo con il volto dai tratti di fiera, in ogni caso ne accetta volentieri l'assistenza. In un attimo è tutto fatto.
"Che giornata di merda!" sbotta Rozzi all'improvviso. L'anziano si fa piccolo di fronte a quella sfuriata. L'uomo tuttavia sorride, pure se il suo sorriso è simile a un ghigno.
"Non si spaventi, non ce l'ho con lei. Sa che cosa mi tocca fare adesso? Devo andare a prendere il bus".
"Anch'io lo facevo, quando andavo al lavoro" dice Pietro, timidamente.
"Io invece non lo faccio mai, non sopporto tutta quella calca. Il fatto è che la mia macchina è guasta, e sa perché è guasta?"
L'anziano, sbigottito, scuote il capo.
"Perché ieri l'ha usata mia moglie!" sbraita Rozzi, all'improvviso rabbioso.
Pietro, un po' intimorito, adesso annuisce.
"Con quelle cazzo di scarpe con il tacco mi ha bruciato la frizione!" prosegue l'uomo.
L'anziano solleva le spalle. Cose che succedono, vorrebbe dire, ma rimane ben zitto.
"Ha capito? Tutta colpa di quelle dannate scarpe!"
Pietro decide che è meglio dire qualcosa, potrebbe servire a placare, benché in parte, l'ira di quell'uomo.
"La sua signora sta bene con le scarpe dal tacco alto. Anche mia moglie, quando era giovane, le portava".
L'altro lo guarda, i suoi lineamenti bradi sono tirati, quasi deformi.
"Già, sta proprio bene, sembra un'autentica troia" sibila prima di andarsene senza salutare.
Pietro pensa alla graziosa ma sventurata signora Rozzi, che ha incontrato appena qualche giorno prima. La donna, gentile come sempre, si era fermata a parlare con lui. Pietro aveva subito notato il grosso livido giallastro sul suo zigomo destro. Lei, notando lo sguardo, aveva sorriso imbarazzata.
"Ha visto quanto sono sbadata?" aveva detto. "Ho sbattuto contro lo sportello dello scolapiatti". Poi si era scusata farfugliando qualcosa e si era allontanata a capo chino.
Pietro, ancora sconcertato e anche un po' allarmato, sosta per un attimo sul marciapiede, in attesa di rimettersi in movimento per raggiungere la sicurezza delle quattro mura di casa sua. Proprio quando tenta di riattivare il suo logoro telaio una bimbetta, sopraggiungendo di corsa, va a sbattere contro le sue gambe. Il vecchio barcolla vacilla ondeggia ma riesce a rimanere in piedi, a evitare la caduta, il suo ricorrente incubo.
Sopraggiunge un uomo alto, magro, con i capelli ricci e la pelle scura. È l'arabo che vive al primo piano del suo palazzo, un marocchino o un egiziano, Pietro non lo ricorda più.
"Mi scusi, mi scusi" dice l'africano con un accento particolare, esotico e strascicato.
"Le ha fatto male?" aggiunge. La bimba, nel frattempo, si sistema accanto al padre, con gli occhi bassi. È carina, la bamboccetta, con le sue treccine del color della pece, il grembiulino immacolato, il pesante zainetto sulle esili spalle. Sembra davvero dispiaciuta per quel piccolo incidente.
"Non è successo nulla" dice Pietro.
L'uomo si tranquillizza poi, in tono severo, si rivolge alla figlioletta: "Chiedi scusa al nonno".
La bambina ubbidisce e pronuncia quelle parole di giustificazione a voce talmente bassa che Pietro quasi non le sente ma le legge dalle sue labbra vermiglie. I due riprendono il loro cammino verso la scuola. La stessa cosa fa Pietro, diretto però all'ingresso dello stabile. Un brav'uomo, quello straniero, pensa l'anziano. Non ricorda più quale sia il suo nome, perché quelli sono nomi strani, e la sua memoria spesso lo tradisce. Un buon padre di famiglia, perché di figli ne deve avere tre o quattro, e un onesto lavoratore. Il fatto è che l'apparenza spesso inganna. Una vita normale, tranquilla, un comportamento al riparo di ogni sospetto, il profilo basso; tutte cose che potrebbero nascondere una realtà ben differente. Pietro sa che a pochi isolati dal suo stabile uno scantinato, che una volta era un garage, è stato trasformato in una moschea dove si recano a pregare il suo vicino e tanti altri come lui. Musulmani. Ma davvero pregano? Pietro non lo sa, perché in quel sotterraneo non c'è mai stato, neppure ci vorrebbe andare, e probabilmente gli sarebbe comunque negato l'accesso. Ha letto di luoghi simili, ufficialmente destinati al raccoglimento, che si sono trasformati in covi di terroristi, nei quali si cospira contro l'Occidente. Davvero quell'egiziano o marocchino che sia è una brava persona? Oppure è un individuo in apparenza mite ma del quale bisogna avere paura?
Sfinito, Pietro rientra nel palazzo. Dà un'occhiata alla guardiola del custode. Il signor Pasquale non c'è, al suo posto è seduto il figlio, quel ragazzo con la testa rasata, lo sguardo vacuo ma cattivo, che indossa sempre pantaloni strappati alle ginocchia e magliette di colore nero. Pietro si è sempre sentito intimorito alla presenza di quel giovane, che lo squadra beffardo. Se lo incontrasse di notte in un vicolo non esiterebbe un istante a consegnargli il portafoglio. Nella sua pur giovane esistenza il figlio del custode ne ha già combinate tante: ha abbandonato la scuola, ha passato alcuni mesi in riformatorio a causa di un piccolo furto, subito dopo ha cominciato a far uso di droghe ed è stato per un periodo ospite di una comunità di recupero. Pietro pensa con commiserazione ai poveri genitori di quel ragazzo sbandato, il signor Pasquale e la signora Lina, alle loro continue preoccupazioni e angosce.
L'ascensore finalmente arriva. Pietro sale, preme il pulsante del suo piano e mentalmente incita la macchina a correre, a fare presto, perché la sua claustrofobia crescente rischia di provocargli una crisi d'ansia. Il vecchio pensa a quando non riuscirà più, e prima o dopo sarà così, a richiudersi senza timore in quel lucido loculo verticale, a quando sarà prigioniero nel suo appartamento, poiché già ora le sue gambe deboli non gli permettono di affrontare quelle interminabili rampe di scale.
Pietro entra in casa e chiude la porta a chiave. Fa due tre passi stentati poi crolla su una sedia. Il suo viso assume un pallore mortale, la fronte solcata da rughe profonde e antiche si imperla di minuscole gocce di sudore gelido. Sua moglie ciabattando gesticolando berciando si avvicina a lui.
"Che cos'hai? Che cosa hai fatto? Perché sei stato via così tanto?" martella l'anziana donna.
"Zitta" sussurra Pietro. Il vecchio è stato assalito di colpo da una consapevolezza che lo sconvolge e lo atterrisce. Ha paura, una sensazione che parte dal profondo delle sue viscere e che si diffonde attraverso tutte le propaggini del suo corpo logoro. Ma non si tratta della solita paura, quella percezione con la quale ha imparato a convivere da quando si è reso conto che la materia che lo compone è diventata debole e friabile. Ha paura delle persone. Ma si rende conto che non ha paura dell'avvocato Brighi perché è un razzista, non teme il signor Rozzi perché è un individuo violento, non è spaventato dal musulmano che potrebbe essere un terrorista, non ha paura del giovane figlio del custode anche se è un potenziale delinquente. No, il vecchio ha paura di loro, di tutti loro allo stesso modo, semplicemente perché sono esseri umani.
Sono esseri umani proprio come te, Pietro.

sabato 9 dicembre 2017

PAURA - 1° PARTE


Il vecchio si sveglia. Lentamente si mette a sedere poi appoggia a terra prima un piede quindi l'altro. Piano, con estrema calma, perché una vertigine provocata da uno sbalzo di pressione è sempre in agguato, e un giramento di testa improvviso potrebbe causare una caduta dalle rovinose conseguenze. Il vecchio finalmente si alza in piedi, infila le fruste ciabatte di cuoio marrone e inizia a muoversi. Dapprima i suoi piedi scivolano sul pavimento, poi le sue ginocchia si sollevano di quel poco da consentire dei passi brevi ma più sicuri. Ginocchia che scricchiolano e crocchiano, muscoli, o quel che ne rimane, indolenziti e pesti, schiena rigida e spalle dolenti. L'evidente disfacimento del corpo non rappresenta comunque l'unica complicazione per quest'uomo anziano, ormai ai confini dell'esistenza, quest'uomo che chiameremo per convenienza Pietro. Perché quest'uomo, Pietro abbiamo detto, ogni volta che al mattino apre gli occhi ha paura. Lui tuttavia non ne è del tutto consapevole. Non lo è poiché tale suo quotidiano sbigottimento vitale è ormai del tutto connaturato con il suo essere, circonda avvolge penetra possiede il suo fragile involucro e la sua mente stanca, ne determina i pensieri e le azioni.
Gemendo e sbuffando, poiché rimettersi in moto è sempre una scommessa, Pietro raggiunge la minuscola cucina. È presto, sono soltanto le sette, ma ciò è normale perché i vecchi dormono poco, il loro sonno è agitato tormentato interrotto, in ogni caso sua moglie è già in piedi da almeno un'ora impegnata a sfaccendare a pulire a cercare di essere utile a dimostrare di essere viva. La donna, in vestaglia pesante perché l'appartamento è ancora freddo, le ciocche bianche disordinate e bisognose di spazzola, osserva per un attimo la caffettiera sul fuoco poi scuote il capo afferra uno straccio lo passa sulla già lucida superficie del lavello afferra un barattolo lo posa su una mensola strofina le mani artritiche sui fianchi si dirige di nuovo ai fornelli annuisce al caffè che brontola e spegne il fuoco.
Pietro si blocca un istante e la osserva. Che energia, le donne. Questa, lui lo sa, lo seppellirà. È inevitabile. Lei lo scorge.
"Ehi, ti sei alzato finalmente" dice, poi inizia a brontolare qualcosa, sottovoce. Sono quasi cinquant'anni che farfuglia si lagna e mugugna di continuo, Pietro ormai non vi bada più. La saluta con un impercettibile cenno del capo, il bisogno di comunicare a parole è minimo e ridotto all'indispensabile, quindi inizia a vestirsi recuperando camicia e pantaloni dallo schienale della sedia sulla quale li aveva deposti la sera prima. Si infila le scarpe si siede e le allaccia impiegando un'eternità.
"Il caffè è pronto" dice la donna, in piedi in mezzo alla cucina a braccia conserte. Pietro scuote il capo.
"Colazione la farò dopo" dice. Sono le prime parole che pronuncia e il loro suono è basso stentato vagamente catarroso. E potrebbero essere anche le uniche dell'intera giornata, pensa il vecchio, e tale riflessione possiede un qualcosa di divertente e di irriverente allo stesso tempo.
Lei avanza di due passi lo affronta sollevando il mento aguzzo dal quale spunta un lungo pelo grigio arricciato.
"Dove vuoi andare?"
Pietro non risponde, con un gemito di dolore raccoglie le ossa dolenti si alza dalla sedia si dirige verso il sottolavello lo apre si china, una riverenza ad angolo retto che potrebbe bloccarlo per sempre, estrae il sacco della spazzatura e lo lega con cura, i suoi nodi non si sciolgono mai.
"Proprio adesso devi andare?" lo rimbrotta la moglie. "Con tutta la giornata di tempo!"
Lui schiocca le labbra solleva le spalle veste la giacca prende le chiavi di casa ed esce. Pietro ha fatto il duro, l'uomo forte, quello che non si fa sottomettere dalla moglie, quello che prende da solo le sue decisioni, quello che faccio ciò che voglio e tu brontola pure tanto non ti do retta, ma appena si ritrova sul pianerottolo perde all'improvviso tutta la sua risolutezza. Chiama l'ascensore, sente una porta aprirsi poi chiudersi sbattendo e subito si materializza accanto a lui l'avvocato Brighi. La statura imponente, insaccata in un abito gessato grigio, gli occhiali da sole, i radi capelli lisciati all'indietro, l'avvocato ha messo da tempo il suo discutibile bagaglio giuridico al servizio di un movimento politico xenofobo.
"Buongiorno" dice Pietro con un filo di voce. L'altro accenna un saluto abbassando il capo, il pur lieve movimento accentua la sua trasbordante pappagorgia. Una compagnia sgradevole, quella dell'odioso avvocato, pensa Pietro, per quel viaggio di otto piani. Tuttavia quella presenza indesiderata almeno in parte rassicura l'anziano. È difficile ammetterlo ma, negli ultimi tempi, prova sempre un certo timore nell'affrontare da solo il percorso chiuso nella stretta cabina. L'ascensore potrebbe bloccarsi, lui avere un mancamento e non essere in grado di chiamare i soccorsi. I due entrano nel cubicolo, le porte si chiudono.
"Fai attenzione" sussurra l'avvocato. Pietro si volta, guarda il bestione dal basso in alto.
"Uh?" Il vecchio è perplesso, e infastidito. Innanzitutto perché non ha ben compreso che cosa abbia detto Brighi, l'udito purtroppo non è più quello di una volta, ma di sicuro l'uomo gli ha mancato di rispetto, rivolgendosi a lui in maniera troppo confidenziale e non considerando la sua veneranda età.
L'avvocato si avvede della confusione di Pietro.
"Ho detto fai attenzione" ripete alzando il tono di voce. "A uscire da solo, intendo".
"Perché?"
"Fuori è pieno di zingari che non vedono l'ora di aggredire le persone anziane e indifese. Dovresti almeno portarti un bastone, che ti può pure essere di aiuto nel camminare tra l'altro, e nel caso in cui qualcuno ti infastidisca gli puoi sempre spaccare la testa".
Le porte si spalancano, i due escono nell'atrio del palazzo.
"Non ho mai visto zingari" balbetta Pietro.
"Tu non li vedi ma loro vedono te" ribadisce sicuro Brighi.
"E poi gli zingari non aggrediscono le persone, al più svaligiano gli appartamenti" dice Pietro, e mentre lo dice si augura che il prossimo alloggio ripulito sia proprio quello dell'avvocato.
"Ti devi guardare anche da albanesi, romeni, polacchi, ucraini e soprattutto da beduini e negri. Mi raccomando, tieni gli occhi aperti e sbrigati a buttare quel sacchetto che puzza di marcio" aggiunge Brighi prima di allontanarsi con il suo passo da pachiderma.

venerdì 1 dicembre 2017

DUE RAGAZZI IN BIBLIOTECA


I due ragazzi pedalano sulla strada deserta, in sella alle loro biciclette Il primo, quello più robusto, ne cavalca una da donna, vecchia, malconcia, di uno sbiadito color azzurro. L'altra, quella dell'amico, invece è rossa, perfettamente pulita e ben tenuta. Sono diretti al paese vicino, dove hanno intenzione di visitare una biblioteca. Hanno saputo che è appena stata aperta, e la curiosità li spinge a dare un'occhiata. I due viaggiano affiancati, conversando. Il sole picchia inesorabile. Per difendersi dai raggi infuocati Beppe indossa uno strano copricapo, un casco coloniale. Lo ha scovato in soffitta e ignora a chi sia appartenuto in passato, però gli piace indossarlo quando esce, del tutto indifferente agli sguardi stupiti della gente. Anche Vincenzo ha il capo protetto. Si tratta di un misero berrettino di tela, che reca la scritta pubblicitaria di una ditta di mangime per polli. A un certo punto la conversazione tra i due amici diventa più animata. Stanno discutendo di letteratura, la grande passione di entrambi. Beppe è un convinto sostenitore di Emilio Salgari. Vincenzo, al contrario, parteggia per Jules Verne. È così, da sempre. Un solo autore li trova di comune accordo, senza alcuna riserva: Jack London. E allora iniziano a parlare dell'autore americano e dei protagonisti dei suoi romanzi. I cani e i lupi, innanzitutto. Ricordano il coraggioso Zanna Bianca, il temerario e nostalgico Buck. E poi l'allegro e buffo Jerry e Michael, lo sfortunato cane da circo. Parlando e dibattendo il tempo trascorre veloce. I due ragazzi si accorgono di essere giunti a destinazione. La nuova biblioteca è situata presso i locali del municipio del piccolo paese. Le biciclette vengono per il momento abbandonate. A un tratto Beppe scorge una porticina. Un cartello scritto a mano reca l'indicazione che stava cercando. Vincenzo lo raggiunge. I due entrano nell'edificio, salgono una stretta scala di pietra e finalmente fanno il loro ingresso in biblioteca, che è composta da un unico locale. Oltre a loro due non c'è nessun altro, a parte la bibliotecaria. Una donna sui cinquant'anni, di corporatura robusta, quasi grassa. Non molto alta, e che esibisce una voluminosa permanente. E che porta i baffi. Almeno, tale è l'impressione dei due giovani. La bibliotecaria osserva sbalordita il copricapo stile coloniale di Beppe, quindi fornisce alcune indicazioni. Precisa quali sono i volumi che possono essere concessi in prestito e quali invece sono ancora da catalogare. A quest'ultima categoria, per la verità, appartiene la maggior parte dei libri. E, pare, proprio i più interessanti. I ragazzi sono delusi. Chiedono se possono comunque dare uno sguardo ai libri non schedati, e il permesso è loro accordato. I due amici hanno notato che, fra questi, ci sono parecchi romanzi di fantascienza, un'altra delle loro passioni. Cominciano a esaminarli e Beppe ha un tuffo al cuore. Ha trovato Un cantico per Leibowitz, di Walter Miller jr! Incredibile. Mitico. Il premio Hugo del 1961! Anche Vincenzo ha scovato qualcosa di interessante: Universo di Robert Heinlein. È da tanto che lo sta cercando. Tempo prima ha letto, su una rivista specializzata, il celebre incipit del romanzo (Attenti! C'è un mutante laggiù!) e ne è rimasto folgorato. I due ragazzi, con in mano i loro tesori, tornano dalla bibliotecaria e la implorano di fare un'eccezione, di prestare loro ugualmente i libri, anche se non sono stati ancora registrati. Ma la donna si dimostra inflessibile, e rigetta con fermezza l'accorata richiesta. La burocrazia prevale sul desiderio dei due amici. Anzi, i due sono invitati ad andare subito a riporre i libri, a rimetterli dove li hanno trovati. Beppe e Vincenzo sono scontenti, frustrati, non riescono a rassegnarsi. Alla fine eseguono e, mentre stanno per completare l'operazione, si avvedono che la bibliotecaria sta trafficando con la finestra. Non riesce ad aprirla, è abbastanza distante e soprattutto volta loro le spalle. Un rapido scambio di sguardi, ed è un attimo. I libri sono lestamente infilati sotto le magliette e ben calcati fino alle mutande. Adesso non resta che uscire. Giustizia è fatta. Quei due capolavori non rimarranno a languire in quel luogo triste, bensì ritroveranno vita. Saranno letti, apprezzati e ben custoditi. I due ragazzi passano veloci davanti alla donna bofonchiando un frettoloso saluto e si dirigono verso la porta. Ma lei ordina loro di fermarsi. Beppe e Vincenzo impallidiscono. Presi! E invece non è così. Sono semplicemente invitati a sottoscrivere la tessera, anche se non hanno preso libri in prestito. Un'incombenza in meno per la prossima volta. La bibliotecaria, infatti, è sicura che i ragazzi torneranno, appena tutti i libri saranno disponibili. Ha notato il loro grande interesse. Ai due amici non resta che accettare. Compilano il modulo con estrema sofferenza. Faticano a chinarsi per poter scrivere. Gli spigoli dei volumi sottratti toccano punti sensibili dei loro corpi e non si può forzare il movimento in avanti più di tanto. Alla fine comunque riescono a concludere quella che è una vera e propria impresa. Adesso Beppe e Vincenzo sono paonazzi in volto e, appena possono, scappano in tutta fretta da quel posto. Scendono di corsa le scale e si precipitano a recuperare le biciclette. Ancora non osano sfilare i libri dai pantaloni e dunque i loro gesti risultano essere un po' impacciati. Beppe, in particolare, è euforico. Passando, già in sella alla bicicletta, accanto all'Albo Pretorio, strappa dei fogli e li sventola in aria, come fossero un trofeo. Per buona sorte nessuno, nei paraggi, assiste alla scena. Vincenzo rimprovera l'amico con asprezza e pesta sui pedali. Via! Dopo alcuni minuti di corsa forsennata i due ragazzi sono fuori dal paese e si fermano. La deliberazione rubata è gettata in un fosso. I libri sono finalmente estratti dai loro nascondigli e portati alla luce. Soltanto adesso sono davvero liberi.

domenica 19 novembre 2017

INFERNO


I ragazzini sono accomodati composti sulle sedie della piccola sala parrocchiale, con i loro libretti sulle ginocchia, i maschi da una parte e le femmine dall'altra. Tempo un paio d'anni e tale rigida separazione non ci sarà più, bisognerà dividerli con la forza.
Don Rinaldo passeggia nervoso di fronte a loro. Ogni tanto lancia un'occhiata al suo vistoso orologio d'oro, dono dei parrocchiani per i suoi quarant'anni di sacerdozio. Tra pochi minuti inizierà il gran Premio di Formula Uno, e il prete non ha nessuna intenzione di perderne la partenza, che è la fase più interessante della gara. Sì, sarebbe un vero peccato lasciarsela sfuggire (ah! ah!).
"Vi devo abbandonare perché ho un impegno importante" dice don Rinaldo. "In ogni caso Olga sta per arrivare. Mi raccomando, state buoni e composti, e non fate chiasso. Ricordate che Gesù vi guarda" aggiunge il prete indicando, alle spalle dei bambocci, un grande crocifisso appeso al muro. Alcuni di loro si voltano, a osservare quel povero Cristo inchiodato alla croce, gli occhi chiusi di chi non può più vedere nulla. Detto ciò il prete si allontana quasi di corsa, lasciando i ragazzini soli.
Dopo pochi minuti di attesa compare la catechista. Trafelata, rossa in viso, i capelli un po' unti tirati all'indietro. Olga è sempre di fretta. Nonostante la sua vita intensa e caotica, non ha mai voluto rinunciare a quell'impegno che porta avanti da tanti anni. Le piace insegnare il catechismo ai bambini, si augura di essere per loro una guida di fede, di non fallire nel compito come invece è accaduto con i suoi figli. Quei tre scatenati. In verità scatenatati è un eufemismo, poiché il termine più adatto per definirli sarebbe delinquenti. Giorgio, il maggiore, è stato sospeso da scuola. D'accordo, ha subito un torto da un compagno, ma non poteva limitarsi a perdonarlo invece di riempirlo di botte? E poi c'è l'altro, il secondo, che di nome fa Secondo, come il nonno paterno, che tutte le sere rientra dopo le due, quasi sempre ubriaco per non dire altro, e non ne vuole proprio sapere di mettere la testa a posto. E anche il più piccolo promette bene: pochi giorni prima lo ha sorpreso a ricattare una ragazzina impegnandosi ad aiutarla nello studio della matematica in cambio di sesso. Sesso, a quell'età! Per non parlare del marito. E chi lo vede mai, quell'inutile e inesistente padre e marito? Sempre fuori, sempre in giro. Per lavoro, dice. Olga in realtà ritiene che lui abbia un'amante, ma non ha mai avuto voglia di domandargli se ciò sia vero. Un'amante con delle pretese, oltretutto, dal momento che Olga ha notato che i pochi risparmi della famiglia si stanno assottigliando sempre di più. Ma poi, riflette ancora la catechista, chi mai si prenderebbe quello scarto di uomo? Probabilmente il mentecatto si sta mangiando tutti i soldi frequentando squallide puttane o, peggio ancora, giocando a carte o alle slot. I soldi, l'eterno problema. Come si fa a vivere in cinque con un solo (scarso) stipendio? Tra un po' lei non riuscirà neppure più a mettere insieme pranzo e cena, dovrà ricorrere ai pacchi della parrocchia, e tale drammatica situazione va avanti da quando lei ha perduto il lavoro. Dopo quasi vent'anni di servizio il notaio l'ha lasciata a casa. Per limitare i costi dello studio, le ha detto. Sai, devi avere pazienza, ha aggiunto, ma la crisi mi ha messo in ginocchio. Per limitare i costi non poteva vendere una delle sue ville? Oppure rinunciare alla barca? No, ha preferito licenziarla. Naturalmente dopo pochi mesi ha assunto un'altra impiegata, una giovane minigonna. Olga si riscuote, i suoi allievi la stanno osservando, in attesa dell'inizio della lezione. Deve sbrigarsi, darsi una mossa, perché subito dopo dovrà correre da sua madre. L'anziana donna è inferma da anni, e tutta l'assistenza pesa sulla figlia. Il figlio, invece, non se n'é mai occupato. Per prima cosa lui è un uomo, e assistere un'inferma è cosa da donne. Inoltre il suo lavoro - è direttore di una grande azienda - non gli concede mai tempo. Neppure il tempo di scucire qualche biglietto di banca per un po' di aiuto economico. Bastardo egoista e tirchio. Olga si annota mentalmente che il giorno dopo dovrà passare finalmente dal medico, perché la sua salute, sempre trascurata, non va affatto bene, si schiarisce la voce e poi inizia.
"Ragazzi, oggi vi parlerò dell'inferno" dice. Tutti si fanno attenti. L'inferno è sempre l'argomento che più appassiona i ragazzi. Proprio come i film horror, considera tra sé la catechista.
"La Chiesa nel suo insegnamento afferma l'esistenza dell'inferno e la sua eternità" prosegue Olga. "Le anime di coloro che muoiono in stato di peccato mortale, dopo la morte discendono immediatamente negli inferi, dove subiscono le pene dell'inferno, il fuoco eterno. Vi è mai capitato di scottarvi un dito? Vi ricordate l'immenso dolore che avete provato? Ecco, l'inferno è così, ma mille e mille volte di più. E per sempre".
Qualcuno dei ragazzini, al pensiero, rabbrividisce, altri rimangono indifferenti. Troppo difficile da immaginare, il concetto. Uno di loro arriccia il naso, in una espressione scettica. È il solito, sempre lui, il piccolo Fulvio dai capelli rossi. Un ragazzino molto intelligente, vivace, pronto, perspicace. Un insieme di qualità che lo rendono un autentico scassaballe. Olga sospira. Tra pochi secondi il bricconcello testa di carota farà qualche strana domanda e la metterà in difficoltà. E infatti, cazzo, Fulvio alza la mano. Olga la parola cazzo non la pronuncia mai, ma durante le sue tormentate giornate la pensa spesso, tutte le volte (e sono davvero tante) che deve affrontare una difficoltà.
"Posso chiedere una cosa?" domanda il ragazzino.
"Certo" risponde la catechista, paziente e colma di cristiana rassegnazione.
"Lei ha detto che all'inferno si va dopo la morte. E poi ci ha descritto l'inferno. Siccome nessuno torna indietro dalla morte, da dove arriva la descrizione che ci ha fatto? Sarà mica tutto inventato?"
La logica dello sveglio ragazzino è ineccepibile, pensa Olga, che poi annuisce. E subito dopo crolla.
"Hai ragione, Fulvio" dice con voce tremante. "Non tutti quelli che vanno all'inferno sono morti. Può capitare di finirci anche da vivi e poi di tornare indietro. E poi di andarci di nuovo, subito dopo".
Il ragazzino la fissa con la bocca spalancata, stupito. Poi la sua curiosità prevale.
"E chi sarebbero questi che vanno e vengono dall'inferno?" domanda.
"Ne hai una proprio davanti a te" dice Olga.

domenica 12 novembre 2017

TECNICA

Non ho intenzione commentare più di tanto la sconfitta subita dalla nazionale italiana di calcio contro la Svezia nel primo dei due spareggi per l'assegnazione di un posto ai prossimi Mondiali. Non lo farò, perché a proposito c'è ben poco da dire. Gli appassionati hanno assistito all'incontro e hanno avuto modo di fare le considerazioni del caso. Vorrei invece parlare di tecnica calcistica.
Si sente dire spesso, da tifosi, addetti ai lavori e giornalisti, parlando dei calciatori azzurri: "I nostri atleti sono inferiori dal punto di vista atletico, ma possiedono senza alcun dubbio una tecnica superiore".
Questa frequente e generale affermazione corrisponde al vero?
Che cosa si intende per tecnica?
Gli elementi principali della tecnica calcistica sono soprattutto quattro: il dominio della palla, il calcio della palla (passaggio e tiro), la guida della palla e la ricezione della stessa (lo stop). Vale a dire l'insieme dei movimenti e delle azioni attuati durante una partita nella quale il primo obiettivo è il possesso della palla, il secondo la difesa e la riconquista del pallone.
Esistono calciatori dotati di tecnica sopraffina (pochi), altri di livello tecnico intermedio e altri ancora che di tale qualità sono del tutto sprovvisti. Per esemplificare: Diego Armando Maradona e Lionel Messi appartengono di sicuro alla prima categoria. Anche tra i calciatori azzurri ve ne sono stati, in passato, alcuni dotati di tecnica eccelsa. Per stare ai miei ricordi, cito tra loro Rivera, Mazzola, Baggio, Totti, Del Piero, Pirlo.
Attualmente, però, qual è il livello tecnico dei calciatori italiani?
Torniamo per un attimo alla partita dell'altra sera. Il nostro miglior difensore, per applicazione, impegno e spirito agonistico è stato Giorgio Chiellini il quale, per manifesta incapacità nel costruire da parte dei centrocampisti, spesso ha dovuto impostare l'azione o appoggiare ai compagni. Ebbene, tutti sanno che il buon Chiellini, al posto dei piedi, si ritrova due scatole da scarpe.
La nota più dolente riguarda proprio i già citati centrocampisti. Nessuno di loro è apparso in grado di trattenere la palla, di smistarla con precisione, di proporre delle geometrie di gioco, di avere delle idee. Il più dotato tecnicamente tra loro (si dice), un tale Verratti, tutte le volte che riceveva la sfera si limitava a fare un paio di giravolte attorno a essa, per poi effettuare un passaggio di due metri, sovente all'indietro. Sarebbe questa la prodigiosa tecnica dei calciatori azzurri? Per non parlare degli attaccanti, assolutamente non in grado di effettuare movimenti utili, di smarcarsi, e del tutto incapaci di fermare il pallone. Infine, gli esterni o presunti tali, i vari Candreva o Insigne. Il primo, come sempre, costretto a sfiancarsi per coprire l'intera fascia, il secondo impiegato tardivamente e, come spesso gli capita in nazionale, in un ruolo che non gli si addice. Ma, per queste ultime considerazioni, entrerebbero in gioco valutazioni legate alla competenza commissario tecnico, per cui è meglio glissare.
Torniamo invece alla tecnica per dire che, con tutta evidenza, essa non accompagna più i calciatori italiani. A questo punto per la nazionale italiana le cose si fanno difficili. Le probabilità di non prendere parte a un Mondiale, dopo sessant'anni, sono purtroppo molto alte. Constatato che l'inferiorità fisica nei confronti della squadra svedese (e di quasi tutte le altre nazionale del mondo) è evidente e incolmabile, che non è vero che i nostri giocatori posseggano doti tecniche superiori, a che cosa ci si può appellare nell'affrontare la decisiva partita di spareggio per sperare di approdare ai Mondiali? Rimangono soltanto due elementi: il cuore e la fortuna. Basteranno?

sabato 11 novembre 2017

L'ALPEGGIO


Tratto dal libro "Le storie di Magnìn", di Enzo Sopegno (Youcanprint Edizioni) in uscita a novembre 2017. Le storie di Magnìn, il figlio dello stagnino, e della sua stravagante banda di amici. Storie ad alto contenuto alcolico, irriverenti e un po' scorrette. 
Le storie di un tempo che non c'è più.

"Andiamo su alla malga a salutare il bergé" ordinò Magnìn.
"No!" esclamò lagnoso Giors, che era stanco e completamente ciucco. Lo legarono con la fune e lo trascinarono su per il sentiero. Giunsero quasi subito in vista dell'alpeggio, costituito da un paio di baite in pietra in parte diroccate e da una vasca di cemento piena d'acqua, l'abbeveratoio degli animali. E poi videro l'immenso gregge: centinaia di pecore. L'unico capro, che avevano già conosciuto, cominciò subito a puntare Nando con i suoi occhietti maligni.
"Dov'è il bergé?" domandò Giors.
"Dovrebbe essere in mezzo al gregge" rispose Magnìn.
Era quasi impossibile distinguere il pastore dalle sue pecore. Alla fine lo riconobbero perché non portava il campanellino appeso al collo. L'uomo venne loro incontro. Da due mesi viveva da solo nell'alpeggio e non si era mai lavato. L'assoluta mancanza di contatti umani lo aveva privato dell'uso della parola. Si esprimeva a gesti, ogni tanto gli scappava qualche sommesso belato. Riuscì in qualche modo a farsi comprendere e invitò Magnìn e i suoi amici all'interno di una delle due stamberghe, quella che utilizzava come abitazione. L'interno della baita era buio e puzzolente. Dappertutto c'erano bottiglie, piene e vuote, tanto che era difficile muoversi in quello spazio angusto. È dei nostri, considerò Magnìn con soddisfazione. In un angolo c'era un tavolaccio sul quale erano appoggiate alcune splendide forme di formaggio. Il pastore invitò gli ospiti a servirsi. Tutti rifiutarono tranne Nando, che era molto affamato.
"Accettiamo volentieri un goccio di vino" disse il figlio dello stagnino, mentre Nando si avventava sulle invitanti tome. In pochi minuti divorò mezza forma. Gli altri, nel frattempo, asciugarono tre bottiglie.
Il pastore osservava con insistenza Nando.
"È un bravo ragazzo, ma beve poco" commentò Magnìn. Il vecchio bergé scosse il capo. Nel suo sguardo c'era commiserazione.

DUE RAGAZZI DI CORSA

I due ragazzi corrono sulla strada deserta. Il più robusto indossa una maglietta sbiadita, pantaloncini di raso blu con i bordi bianchi e sfilacciati, logore scarpette da corsa. L'altro una canottiera rossa e calzoncini gialli. Ai piedi porta scarpe nuove fiammanti. Ogni giorno, dopo la scuola e qualche ora passata a riposare e studiare, i due amici si incontrano e partono. La corsa è la grande passione di entrambi. I loro allenamenti non sono quasi mai programmati, sia in durata che in difficoltà. Corrono sul nastro d'asfalto, nei campi, sui sentieri sconnessi e nei boschi lungo il fiume. Un rito quotidiano, che ora ha appena avuto inizio. Questione di poco tempo e la condizione dei due podisti muterà all'improvviso. Le falcate diventeranno più sciolte, il cuore pomperà una quantità di sangue sufficiente a permettere la piena espansione dei loro polmoni. Cambierà anche lo stato psicologico dei corridori. L'organismo sotto sforzo produrrà una quantità di endorfine tale da determinare l'insorgere di benessere, eccitazione e euforia. All'improvviso Beppe rallenta fino a fermarsi. Ha notato, sul bordo della strada, un oggetto che ha attirato la sua attenzione. Proprio vicino al fossato. Si china e raccoglie il volante di un'automobile. Come è finito in quel posto? È mai possibile perdere un volante? Le domande durano lo spazio di un attimo. Beppe riprende a correre e cerca di recuperare il terreno perduto. Impugnando saldamente il volante, in pochi istanti raggiunge il compagno che nel frattempo ha rallentato per aspettarlo. Vincenzo vede l'amico che corre e... guida. Sorride e sta al gioco. Si affianca a Beppe e finge di essere il passeggero di un'automobile immaginaria. I rari passanti li guardano stupiti, sbalorditi. Qualcuno di loro sembra divertito, qualcun altro scuote il capo in segno di disapprovazione. Beppe imita il rombo della macchina con la bocca, fa il gesto di suonare il clacson. Dopo alcuni minuti i due amici si stufano. Il volante, come fosse un disco, è lanciato lontano, in un prato. La corsa riprende, adesso a ritmo più tranquillo. I corridori sono ormai giunti alle ultime case del paese. Vincenzo allunga il passo e si avvicina a una palazzina a più piani. Individua il quadro dei campanelli e, rallentando per un attimo, passa la mano sull'intera pulsantiera, con grazia da pianista. Poi accelera di colpo. Beppe, da lontano, si è accorto della manovra dell'amico. Pure lui aumenta l'andatura ma, quando transita davanti all'edificio, alcuni irritati inquilini sono già affacciati alle finestre e lo scorgono. Poco più avanti Vincenzo ride e corre, corre e ride finché non è raggiunto dal compagno che gli sferra una manata sulla schiena, fingendo di essere arrabbiato. Ma dopo ride anche lui. Si prosegue, con maggiore scioltezza, con più velocità, lo stato di esaltazione aumenta. I due giovani podisti ora imboccano un sentiero dal fondo irregolare, che porta nel bosco. Sono accaldati, sudano. Su un lato della traccia scorre una piccola roggia. Acqua fresca. Vincenzo, concentrato, aumenta ancora di più l'andatura. Beppe invece si ferma un istante, il tempo di rinfrescarsi il viso. Quindi si porta le mani, racchiuse a coppa, verso la bocca e lappa un po' di quel liquido corroborante. E poi di nuovo via, rinfrancato. I due ragazzi si godono la frescura del bosco. Alberi, cespugli, vegetazione rigogliosa e incolta creano un budello ombroso che allenta la morsa di calura. A un tratto i corridori si trovano di fronte un ostacolo imprevisto: un'automobile. Il veicolo è fermo sul sentiero, quasi incastrato tra enormi arbusti che lo stringono ai lati. Una specie di tappo, che ostruisce completamente il passaggio. I due ragazzi sono costretti ad arrestarsi, con loro enorme disappunto. Non è proprio possibile proseguire, ma non è altresì pensabile tornare indietro. É ormai troppa la strada percorsa, mentre andando avanti si riuscirebbe a tornare in paese in poco meno di venti minuti. La macchina naturalmente è ferma, il motore è spento, tuttavia si muove. La vettura ondeggia lievemente, è possibile persino udire i piccoli gemiti emessi dagli ammortizzatori, che si alzano e si abbassano. Beppe e Vincenzo si avvicinano in silenzio al mezzo. Accertano una volta di più l'assoluta impossibilità di passare ai lati. A questo punto, sempre più contrariati, ma comunque curiosi, si accostano sporgendosi al lunotto posteriore e sbirciano all'interno dell'autovettura. Scorgono delle persone. La prima, una donna, è sdraiata sulla schiena. Della sua figura è possibile vedere soltanto una minima parte del volto e una gran massa di capelli neri. L'altro, un uomo, è adagiato su di lei. Ed è nudo. In realtà indossa ancora i pantaloni, ma questi sono calati fino alle caviglie. I due ragazzi osservano la nuca di quell'individuo. I suoi capelli, tagliati corti, sono biondi e molto chiari, quasi fosse un albino. Le sua natiche, marmoree, si muovono a stantuffo e spiccano per la loro tinta pallida. Beppe e Vincenzo, dapprima sbalorditi, ora si scambiato un sorriso complice. Poi uno annuisce all'altro. I due tornano indietro di alcuni metri sul sentiero, muovendosi con circospezione per non fare rumore. Infine prendono la rincorsa e, prima uno e poi l'altro, saltano sulla parte posteriore dell'auto, poi sul tetto e sul cofano. Una serie di tonfi sordi, sulle lamiere che dapprima si flettono e poi restituiscono la spinta. L'odioso ostacolo è superato. I due ragazzi, correndo ormai liberi, si voltano indietro per un attimo. La macchina non si muove più. Al suo interno intravedono un agitarsi frenetico di ombre. I due ragazzi proseguono la corsa, carichi di adrenalina.

venerdì 3 novembre 2017

DAL MAGISTRATO


Il magistrato puzza. Il suo corpo, grosso e fasciato in una giacca pesante, emana un afrore penetrante. Una mescolanza di sentore di dopobarba ormai quasi del tutto evaporato e di olezzo di sudore. L'uomo appare accaldato, a un certo punto china il capo, accenna un sorriso più simile a una smorfia di sofferenza, poi si sfila la giacca e la appoggia sulla scrivania. Si stringe nelle spalle, quasi a chiedere scusa per quella che considera una caduta di rispetto tuttavia ineluttabile, dettata dalla necessità. In corrispondenza delle sue ascelle, a spiccare sulla camicia bianca, si allargano due chiazze di traspirazione. Il magistrato si volta, lento, si avvicina alla finestra. Osserva il cortile della Procura della Repubblica per alcuni istanti mentre, con un gesto quasi impercettibile e lesto si allenta la cravatta. Poi, di scatto, quasi a testimoniare una prodigiosa ritrovata vitalità, torna indietro e si siede alla scrivania, inforca gli occhiali. Con gli occhi bassi scorre alcune carte, annuisce tra sé, più volte, infine solleva la testa, e finalmente rivolge l'attenzione alla sua interlocutrice.
"Chiedo scusa se l'ho fatta attendere così a lungo" pronuncia, a voce bassa.
É vero, la donna ha atteso a lungo. Ha trascorso più di un'ora ad aspettare in una piccola anticamera adiacente all'ufficio, infastidita dalla presenza di un fotografo che infine è stato allontanato. Intendiamoci, lei adora essere ritratta, non ne perde mai l'occasione, tuttavia predilige ben altre situazioni: l'inaugurazione di una mostra d'arte oppure di una qualsiasi iniziativa a favore dei cittadini di cui può rivendicare il merito, un convegno, l'incontro con una delegazione di amministratori stranieri. In questo momento, invece, si sente a disagio. La sua è stata una giornata lunga e sofferta, interminabile. Si rende conto di non essere al suo meglio. É stanca, provata, e di sicuro anche il suo aspetto riflette quel malessere. Quasi certamente il suo trucco avrebbe bisogno di essere rinfrescato, i capelli spazzolati. Pur senza avere la possibilità di verificarlo, è consapevole del pallore del suo volto. Posa inorridita lo sguardo sulle ascelle pezzate del magistrato e teme che le sue lo siano altrettanto, che la sua camicetta sia lorda di sudore acido, che il suo corpo sottile, in ebollizione, diffonda nell'ambiente il miasma della preoccupazione e della paura. La donna, tuttavia, è pure molto contrariata. Anzi, incazzata nera. Come osa, quell'uomo stanco, approfittare in maniera così deliberata del suo prezioso tempo? Lei, si sa, non è una persona qualunque. Lei è un amministratore pubblico, una persona che risponde non soltanto a se se stessa ma ai cittadini che l'hanno scelta. I magistrati, invece, hanno sempre ragione. Dispongono delle persone, del loro tempo, delle loro azioni, protetti da quello schermo invisibile dietro il quale si riparano, quello della Legge. Nella donna monta sempre più l'indignazione. Lei non ha fatto nulla di male! Ha agito per il bene dei cittadini, si è dannata per inseguire e perseguire il bene pubblico, per tutelare ciò che appartiene a tutti. Non ha sbagliato, non può aver sbagliato. I suoi atti non possono essere messi in discussione. Eppure si ritrova seduta su quella sedia che scotta. Quasi non percepisce, dietro di lei, la presenza del suo avvocato. Il legale, in quegli istanti di attesa, prima che tutto abbia inizio, ha avvicinato un paio di volte il capo alla sua nuca, le ha bisbigliato alcune raccomandazioni. Lei non le ha sentite. Ha distinto il suono, ha avvertito il soffio d'aria che ha solleticato il lobo del suo orecchio, ma non ha compreso le parole. O meglio, non ne ha colto il significato. Sarà la stanchezza, pensa, oppure la tensione nervosa. In fondo, prima, lei in Procura non c'era mai stata. Non le era mai capitato, nella sua breve esistenza, di ritrovarsi di fronte a un magistrato. Di essere accusata di qualcosa. Non importa, c'è sempre una prima volta, e lei affronterà questa assurda evenienza con la risolutezza che i suoi sostenitori le riconoscono. Se necessario, con l'arroganza che gli avversari politici le rimproverano. Ma la sua determinazione sta venendo meno. All'improvviso riconosce che la sua mente è confusa, che di tutta la strategia difensiva, sapientemente elaborata con il suo difensore, non rammenta quasi nulla. Ha le labbra secche, la gola secca, gli occhi secchi che bruciano. É come se l'intero suo corpo fosse privo di liquidi, di quei fluidi preziosi che ne consentono il funzionamento. Osserva le mani, appoggiate in grembo, che tremano, le nocche sbiancate.
Il magistrato le rivolge un sorriso sghembo.
"Non si preoccupi, il nostro sarà un colloquio preliminare, del tutto amichevole. Servirà soltanto ad esaminare i fatti. Innanzitutto dobbiamo sbrigare alcune formalità, un po'  noiose e banali.  Dunque, mi confermi nome, cognome, luogo e data di nascita".
La donna annuisce e poi si accinge a rispondere. Spalanca la bocca, dalla quale però non esce alcun suono. Il suo nome non lo ricorda più.

sabato 28 ottobre 2017

DUE RAGAZZI IN CARTIERA


I due ragazzi camminano sulla strada deserta. Il più robusto procede con le mani in tasca e si guarda attorno, l'altro si trascina dietro un carrettino di legno. Vuoto. Non parlano. Adesso imboccano una discesa assai ripida. Il mingherlino fatica a frenare il carretto, che prende velocità. L'amico si fa più attento, osserva e sorveglia ma senza intervenire. Il nastro d'asfalto ridiventa piano. Sulla destra si intravede appena una traccia, un sentiero sterrato. I due ragazzi lo seguono. Il fondo del viottolo è molto sconnesso, rovinato dal ripetuto passaggio dei trattori. Il veicolo a traino sobbalza. È tardo pomeriggio di una domenica, siamo nel mese di luglio e fa molto caldo. I due all'improvviso si arrestano. Beppe e Vincenzo sono giunti alla loro meta. Il carrettino è abbandonato dietro alcuni grossi cespugli. Dalla strada è impossibile che qualcuno lo scorga. Avanzano ancora e dopo un po' si trovano di fronte un canale. É gonfio d'acqua ma largo poco più di un metro. Prima uno poi l'altro i due ragazzi prendono una breve rincorsa poi saltano attraversandolo. Entrambi  sono molto agili. Ora si trovano in un enorme piazzale. Ci sono degli edifici, e ci sono delle grandi tettoie. I giovani si trovano all'interno della cartiera. Oggi è festa e quindi non c'è nessuno. Tutto intorno c'è una alta recinzione, tranne che in un punto, il breve tratto di canale. Dopo numerose esplorazioni loro hanno scoperto quella via di accesso e l'hanno già utilizzata più volte. Nessun rumore. Nulla, non ci sono guardiani, non ci sono cani o sistemi di allarme. La cartiera è uno stabilimento di piccole dimensioni, e si trova in una borgata sperduta del paese. Per Beppe e Vincenzo tuttavia quella non è una fabbrica, loro la chiamano miniera. Al riparo delle tettoie ci sono vere e proprie montagne di carta. Centinaia e centinaia di balle quadrate, composte da carta più o meno compressa, disposte in maniera ordinata, impilate una sull'altra a formare delle vette di altezza differente. I ragazzi, eccitati come sempre per l'incursione, si guardano e, senza dire nulla, si mettono al lavoro. Comincia la scalata. I due attaccano, con rapidità, forza e decisione. Si arrampicano in scioltezza, aiutandosi tra loro. Certo, occorre fare molta attenzione, l'ascesa può diventare assai rischiosa. Tra una balla di carta e l'altra si aprono dei profondi crepacci, se queste non sono ben accostate. Una caduta avrebbe serie conseguenze. Finalmente i due arrivano in cima al mucchio selezionato in precedenza con occhio ormai esperto. È importante scegliere bene: da ciò dipende la riuscita di una parte dell'impresa. I due ragazzi riprendono fiato, si rilassano un attimo. Poi Beppe estrae dalla tasca posteriore dei pantaloni una tronchesina e, con gesti energici e precisi, inizia a recidere lo spesso filo di metallo che tiene unito il blocco. Il risultato è sorprendente. La carta, a lungo pressata, si rianima e riprende vita. Beppe ripone l'attrezzo e, aiutato dall'amico, comincia a scavare con le mani. I due cercano libri e riviste sfuggiti alla compressione. Ben presto Vincenzo esulta. Tiene in mano una vecchia copia, in discrete condizioni e di sicuro leggibile, di Il lupo dei mari di Jack London. Una grande soddisfazione si scorge sui volti dei due amici, che proseguono subito a lavorare, entusiasti. Estraggono delle riviste di sport, alcuni albi a fumetti. Ritrovamenti minori. Ma i due non si arrendono e continuano ora con metodo, mettendo a frutto le passate esperienze. Vincenzo sofferma lo sguardo su un romanzo erotico di ambientazione storica. Il volume è un po' spiegazzato, ma lui riesce ad aprirlo e a sfogliarlo. Legge, a caso, alcuni passaggi nella parte centrale del libro, incuriosito. Si narra di un gigante che è stato rinchiuso in una prigione sotterranea. L'essere ha i lineamenti del volto deformi, ed è completamente nudo. In piedi, si afferra alle robuste sbarre della cella e le scuote con rabbia. Il suo membro, turgido e dalle dimensioni smisurate, sporge dalle sbarre e sembra animato di vita propria. Il gigante emette dei suoni gutturali, non è in grado di parlare, forse gli è stata recisa la lingua. All'improvviso entrano nella prigione due ragazze molto belle, una bionda e l'altra bruna. Non si riesce a comprendere chi possano essere e quale sia il loro ruolo nell'intreccio. Ma ciò non ha importanza. Vincenzo, ora piuttosto eccitato, prosegue la lettura. Le due giovani lanciano esclamazioni di stupore alla vista del sesso del gigante. Vi si avventano, se lo contendono, lo manipolano violentemente, lo strattonano. L'essere imprigionato mugola di piacere, finché non accade l'inevitabile. Basta così. Quelle misere pagine hanno già preso fin troppa aria. Il ragazzo chiude di scatto il libro e lo butta. Beppe ha notato tutta la scena e richiama l'amico all'attenzione. E così si ricomincia. Sotto la tettoia fa molto caldo e sui volti dei ragazzi si accumulano sudore e polvere. In più, si sta facendo tardi. I due amici si scambiano un cenno d'intesa, ripongono ciò che sono riusciti a recuperare in una borsa di plastica, e si dedicano alla seconda parte dell'operazione. Si tratta del lavoro più sporco, quello di quantità. Afferrano manciate di carta, quella più pesante, e la gettano a terra. I tonfi si susseguono per parecchi minuti. A un certo punto i due decidono che è arrivato il momento di smettere. Adesso sono alquanto affaticati, ma bisogna ancora affrontare la discesa dalla montagna di carta. Ciò deve essere fatto con estrema prudenza, il pericolo è sempre in agguato, in misura ancora maggiore rispetto all'ascesa. La stanchezza, la falsa sicurezza, potrebbero avere gravi conseguenze. Ma alla fine ce la fanno. Si ritrovano a terra, nell'ampio piazzale asfaltato. Intorno a loro c'è soltanto il silenzio della campagna. I due ragazzi sono circondati da disordinati mucchi di carta. Si tratta di prenderla e, poco per volta, di buttarla oltre il canale, nel prato che lo costeggia. Allora si danno da fare, e paiono infaticabili. Quando tutto il materiale è ormai sull'altra sponda, l'ultimo salto sull'acqua. La scioltezza di un paio d'ore prima non c'è più, e comunque rimane ancora da affrontare un'ultima fatica. Vincenzo, camminando lentamente, i muscoli dolenti, va a recuperare il carretto. Beppe ammucchia la carta. Tutto ciò che è stato raccolto è riposto in maniera ordinata sul trabiccolo a ruote. Si riparte, di nuovo Vincenzo traina il veicolo, ma adesso Beppe lo aiuta spingendo. Un paio di chilometri, con la difficoltà non da poco della ripida salita finale, e avranno finito. Per quel giorno, almeno. Domani i due ragazzi riprenderanno il carretto colmo e si recheranno di nuovo in cartiera. Stavolta però faranno il loro ingresso attraverso l'entrata principale. Lo stabilimento sarà aperto, animato dalle grida degli operai. E tra loro ci sarà pure il signor Luigi, il padre di un loro amico. Luigi è l'addetto alla pesatura della carta. Uno dei due ragazzi andrà con lui nell'angusto gabbiotto e assisterà all'operazione, l'altro sistemerà il carretto sull'ampia piattaforma di metallo. Poi fingerà di allontanarsi mentre invece rimarrà con i piedi sulla pedana, fermo sul vertice di uno degli angoli, per aggiungere un po' di peso in più. Il signor Luigi, come sempre, non se ne accorgerà. O lascerà intendere di non essersi accorto della furba manovra. Infine i due ragazzi passeranno in ufficio, dal contabile, a ritirare i soldi per la carta venduta, qualche centinaio di lire il chilo. Quel denaro sarà impiegato per comprare libri. Nuovi, finalmente.