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martedì 26 aprile 2016

PASSEGGIATA NOTTURNA



Ho visto chiese squarciate dalla luce
Ho visto marciapiedi infiniti e grigi
Ho visto insegne del colore di uno spettro
Ho visto dita stringere bicchieri
Ho visto gente cenare senza gioia
Ho visto scie di automobili nervose
Ho visto donne agghindate come a festa
Ho visto femmine dal profumo d’Africa
Ho visto cani soggiogati alla corda del padrone
Ho visto una creatura nata per soffrire
Ho visto umanità logora e triste 
Ho visto un uomo camminare tutto solo
Ho visto ma non sono stato visto

sabato 16 aprile 2016

L'OTTAVO GIORNO



"Non dovrei essere qui".
"Come dice, signor Rolandi?"
La dottoressa lo aveva accolto, gli aveva stretto la mano e poi era andata a sedere dietro la scrivania. Lui aveva notato i suoi fianchi abbondanti e i vaporosi capelli rossi.
"Dico che non dovrei essere qui" ribadì l'uomo che, a sua volta, si era accomodato su una morbida poltroncina.
La dottoressa Bianchi, medico psichiatra, aprì la busta che l'uomo le aveva consegnato appena entrato.
"Il suo medico curante ha ritenuto opportuno avere un mio parere" disse mentre spiegava il foglio e inforcava un paio di occhiali dalle lenti minuscole.
"Sa che io e il dottor Conti siamo stati compagni di studi?" aggiunse. Poi iniziò a leggere. A mano a mano che scorreva le righe le lentiggini che tempestavano il suo viso prendevano una tinta più marcata. Infine posò il foglio ed esibì un finto sorriso.
"Nulla di grave" disse. "Mi parlerebbe di quella che il dottor Conti definisce 'ossessione per giorni e colori'?"
L'uomo sospirò, poi scosse il capo.
"Sono tutte sciocchezze" disse. "Non ho alcuna ossessione".
La donna gli piantò addosso i suoi occhi di un azzurro esagerato. Era molto seria.
"Il mio caro collega dice che più volte, e senza uno specifico motivo, lei ha insistito nell'affermare che i giorni sono... colorati. Dico bene signor Rolandi?"
"Esatto, tuttavia non credo che ciò possa avere una grande importanza".
"Un attimo, lasci che sia io a stabilire quale sia la rilevanza di ciò che lei dice."
"Come vuole".
"Mi parli del lunedì" disse la dottoressa, all'improvviso. L'uomo fu preso alla sprovvista. Si irrigidì.
"Il lunedì è viola scuro" disse in un soffio.
"Perché lei lo vede così? Per quale motivo lo vede colorato, e perché proprio quel determinato colore?"
L'uomo alzò le spalle.
"Non lo so. Tutti i giorni hanno un colore, è normale che sia così. E il lunedì ha quel colore".
"A lei piace che il lunedì sia viola scuro?" incalzò il medico.
"Sì, credo di sì. In ogni caso non ci ho mai pensato più di tanto. Il giovedì invece mi provoca un maggiore fastidio."
"Perché?"
"È troppo chiaro, e ciò mi disorienta".
"Si spieghi meglio, signor Rolandi."
"Vede, il giovedì è chiaro, molto chiaro. Troppo. Si tratta di un bianco lattiginoso, malsano, tale da causarmi un grande disagio".
"Quali sono gli altri giorni dal colore chiaro?"
"Beh... il martedì ha un bel colore marrone brillante, il sabato è giallo mentre la domenica è rosso-arancione. Però si tratta in tutti questi casi di toni netti, decisi, che non disturbano."
"Ho capito. Ci siamo dimenticati del venerdì..."
"Oh, è verde" disse l'uomo. "Davvero un bel verde".
"E il mercoledì?"
"Bruno" rispose con prontezza l'uomo.
"Da quando va avanti tutto questo?" domandò la dottoressa.
"Come?"
"Quando ha avuto inizio questa sua associazione tra giorno e colore?"
"Da sempre, naturalmente. Da quando posseggo dei ricordi".
"Fin da quando era bambino, dunque".
"Certo, anche se non l'ho mai detto a nessuno".
"Perché non l'ha mai detto a nessuno? Ne provava vergogna? Aveva paura di essere preso in giro?"
L'uomo guardò la psichiatra. Sembrava stupito.
"Che cosa dice? Vergogna? Paura? Assolutamente no! Ho sempre dato per sicuro che per tutti fosse così, che tutti vedessero, come me, i giorni dello stesso colore".
"Non può essere una specie di gioco?"
"Eh?"
"Un innocente divertimento di un bambino. Un bambino con tanta fantasia oppure un po' annoiato".
"Sì, può essere. Anzi, sarà sicuramente così".
"Il mio collega forse è stato un po' troppo apprensivo" disse la dottoressa sorridendo e mettendo in mostra denti bianchissimi. "Lo chiamerò per rassicurarlo".
"Visto che avevo ragione? Non avrei dovuto essere qui, le ho soltanto fatto perdere tempo."
"Ma no, ci siamo conosciuti".
"Sì, ed è stato un vero piacere. Posso andare adesso?"
"Certamente. Buongiorno, signor Rolandi."
"Buongiorno, dottoressa."
L'uomo si alzò e strinse la mano alla psichiatra.
"Mi toglie una curiosità?" domandò la donna quando lui era già alla porta.
"Mi dica."
"Perché nessuno dei giorni della settimana è azzurro? Sa, l'azzurro è il mio colore preferito."
L'uomo si bloccò e strabuzzò gli occhi.
"L'ottavo giorno è azzurro!" urlò.
"L'ottavo giorno?" sussurrò la dottoressa, basita.
"Sì, l'ottavo giorno, quello della pace, della felicità, dell'estasi, della beatitudine. Il giorno che ci è impedito di vivere!"
"Signor Rolandi, le spiacerebbe accomodarsi ancora un attimo?"

sabato 9 aprile 2016

ELEGIA



Tutti dicono che non ci sei più, e lo dicono ormai da troppo tempo, ma io non lo voglio credere. No, proprio non posso, davvero non riesco a parlare di te al passato. Dentro di me nasce inarrestabile un senso di rifiuto, di ribellione, e dunque non parlerò di te al passato. Il passato è per i ricordi. E il primo ricordo che conservo di te è molto bello. Tu sei sempre stata una guida, e ne ebbi dimostrazione quando ti vidi la prima volta. Eravamo giovani, allora, mentre adesso non lo siamo più. Eravamo giovani ed eravamo un po' impauriti, quel primo giorno. Tutti, tranne te. Tu invece eri serena, e riuscivi a trasmettere quella tua tranquillità a tutto il gruppo, perché allora eravamo un gruppo. Poi ci siamo un po' disuniti, poco alla volta ci siamo dispersi. Ci siamo persi. Tu parlavi e tutti ti stavano ad ascoltare. Eri autorevole, davi l'impressione di essere sicura di te stessa, delle tue potenzialità, delle tue qualità, prerogative che poi ti sono state riconosciute. La tua, fin da allora, era una credibilità non soltanto limitata alle doti professionali - che pure erano eccelse e indiscutibili, come poi si è visto - si trattava di un prestigio nel quale prevaleva e trovava evidenza le tua grande umanità. E poi, la tua ironia, la tua capacità di dissacrare, di ridurre al semplice ciò che a noi, tuoi compagni balbettanti, appariva complesso. Senza dimenticare la tua enorme sensibilità, che si manifestava (e si manifesta) nei rapporti con le altre persone, e nel tuo immenso amore nei confronti delle bestiole pelose. Chi ama gli animali ama la vita.
Tu ci sei, tutti i giorni. Qualche tempo fa mi sono trovato di fronte a un problema di lavoro. Chi lo può risolvere, ho subito pensato, se non lei? La mia mano è corsa al telefono. Poi, però, ho considerato che forse eri molto impegnata, e ho deciso di non disturbarti. In ogni caso prima o poi lo farò, ti chiamerò e tu risponderai e farai di tutto per aiutarmi, come hai fatto altre volte, perché tu sei sempre gentile e disponibile, e ancora di più quando a cercarti è uno di noi. Noi che non sempre parliamo di te, noi che non sempre ci parliamo, noi che invece sempre pensiamo a te. 

SACCHI DI GRANO



Quando mi recavo da lui - e lo facevo quasi tutti giorni - lo trovavo sempre nel magazzino, disteso sui sacchi di grano e intento a leggere un libro. Suo padre era proprietario di un negozio di prodotti agricoli e lui, il mio amico, preferiva trascorrere i pomeriggi in quell'ampio e disordinato ambiente invece che nel contiguo e tetro alloggio. In estate, quando il caldo era davvero importuno, prediligeva indossare soltanto un paio di sdruciti pantaloncini, o addirittura delle vecchie mutande, e il suo corpo snello e flessuoso e madido era ricoperto da un sottile strato di polvere bianca.
"Sei pronto per essere passato in padella" gli dicevo, scherzando. Lui accennava soltanto un sorriso, poi iniziava a descrivermi con entusiasmo, gesticolando e alzando la voce, il libro che stava leggendo.
Dopodiché anch'io gli parlavo delle mie letture, e lui ribatteva concitato; in tal modo trascorrevano ore e ore senza che nessuno dei due avesse alcuna percezione del tempo passato.
I nostri discorsi spaziavano dalla letteratura alla musica al cinema alla politica e a qualunque argomento ritenuto di un qualche interesse. Eravamo invece più reticenti su tutto ciò che era giudicato di natura più personale: i rapporti con i genitori, con le ragazze, le nostre aspirazioni, i nostri pensieri più intimi e inconfessabili. Bloccati da eccessivo pudore, da una indefinita riservatezza, da semplice timidezza.
Ci conoscevamo fin dai tempi della scuola elementare. Il nostro rapporto si rafforzò poco alla volta, quando scoprimmo tutto ciò che ci accomunava. Dapprima furono i fumetti. Entrambi eravamo cultori di quella forma di espressione, all'epoca non troppo considerata. Leggevamo con avidità tutti quelli che riuscivamo a procurarci, ed erano davvero molti, di ogni genere, e per farlo non badavamo ai mezzi impiegati.. In seguito ci dilettammo entrambi a produrli, i fumetti. Tutti e due discreti disegnatori, ci sfidavamo a creare sempre nuovi personaggi, fossero essi spie imbranate o preti gaudenti, e li facevamo vivere in decine e decine di strisce che uno sottoponeva all'analisi critica dell'altro.
Trascorsero così molti piacevoli anni, gli interessi condivisi aumentarono, tra i quali anche la pratica ossessiva di alcune attività sportive.
Il suo aspetto, anche quando era ormai un giovanotto, rimase sempre trasandato. Lui aveva grande cura dell'igiene personale, ma per nulla di quanto riguardava l'immagine estetica. Non si pettinava mai, i suoi pantaloni erano sempre sdruciti o scuciti, la maglie vecchie e senza forma, le camicie non erano mai abbottonate in maniera giusta, le scarpe fruste e sporche. Quasi sempre, quando si usciva per andare al cinema o in qualche altro luogo di divertimento, la sua patta dei pantaloni era aperta. Questo stato di cose precludeva la sua (e di riflesso anche la mia) vita sociale, e soprattutto i rapporti con l'altro sesso. Iniziai, a sua insaputa, a frequentare alcune ragazze. Lui non sembrava interessato, non ne voleva parlare, finché a un certo punto si innamorò. Lei era una giovane della borgata, piuttosto graziosa. Ero costretto, tutti i giorni, ad aspettare che lei passasse, di ritorno dal lavoro sulla sua Cinquecento blu, di fronte a casa sua. Durante l'attesa era molto agitato, irrequieto. Quando l'evento finalmente si compiva allora si rilassava e potevamo ritornare alle nostre abituali attività. Lui e la ragazza non si parlarono mai. Non ho più assistito a un sentimento così intenso e, per forza di cose, non corrisposto.
Le vicende della vita, il trascorrere del tempo, l'età sempre più adulta, alla fine ci hanno allontanati.
L'ho rivisto qualche giorno fa. Indossava una impeccabile divisa.

domenica 3 aprile 2016

QUESTA E' CASA MIA!


La convivenza, fin da subito, si era rivelata difficile. Erano venuti a stare da noi perché non avevano altro posto dove andare. Lei aveva perso il lavoro - li perdeva tutti - e avevano dovuto lasciare la casa dove abitavano. Lui, invece, un lavoro non l'aveva mai avuto.
Ornella e Bruno si conoscevano dai tempi in cui quest'ultimo era il fidanzato mia moglie. Poi quella storia era finita, dopo un po' i due si erano di nuovo incontrati e si erano messi insieme.
Fino a poco tempo prima non avevo mai visto Bruno, ne avevo soltanto sentito parlare. Adesso addirittura me lo ritrovavo in casa. Ciò aveva scatenato in me una certa irritazione e, lo ammetto, anche un po' di gelosia. A fare le spese di questo risentimento era soprattutto mia moglie, che non mancavo mai di tormentare.
"Com'è possibile che tu abbia potuto frequentare un individuo simile?" domandavo con rancore.
"Un tempo non era così" si difendeva lei, con scarsa convinzione.
"È completamente svitato. È poco più di una bestia" continuavo a infierire sulla povera donna.
Quel giorno sentimmo dei forti rumori provenire dalla stanza accanto, quella che occupavano i nostri ospiti. Trambusto di mobili che venivano spostati, grida.
"Che stanno facendo quei due idioti?" dissi.
"Lascia stare" rispose mia moglie. Sul suo viso era disegnata una certa apprensione.
"Non lascio stare affatto! Questa è casa mia!"
Mi alzai dal divano e irruppi nella loro camera.
"Che cazzo state facendo?" urlai.
Ornella e Bruno si immobilizzarono all'istante. E tacquero. Osservai quel ridicolo fermo immagine.
Lui, grande e grosso e tutto sudato, stava trascinando una libreria colma cercando di spostarla. Lei, di sicuro, fino a qualche istante prima stava zampettando attorno a quel deficiente come una cavalletta e strepitando con la sua vocetta stridula.
"Volevamo spostare la libreria lontano dalla finestra" disse infine Ornella. "Toglie energia".
"Non potevate prima svuotarla?"
"Non ci abbiamo pensato" grugnì Bruno.
I montanti del mobile si stavano piegando, i libri minacciavano di cadere. Il pavimento era tutto graffiato. Uscii sbattendo la porta e imprecando. Mi ributtai sul divano, furibondo. Mia moglie non disse nulla, continuò a lavare i piatti, perché tutti i lavori domestici li svolgeva lei, quei due parassiti non muovevano un dito.
Dopo alcuni minuti Ornella mi raggiunse. Era una donna di corporatura minuta, completamente diversa dalla sorella. Aveva capelli lunghi e sottili, disordinati, la pelle diafana. Quel giorno indossava una maglietta bianca, non stirata, che le lasciava scoperta la pancia, e dei pantaloni larghi che a stento stavano su reggendosi alle sporgenze delle anche. Si acciambellò sul sofà e si accese una sigaretta. Fumava di continuo, pur sapendo quanto mi provocasse fastidio.
"Ti sei arrabbiato, stronzetto?"
"Non chiamarmi in quel modo!"
"Non essere così irritato" aggiunse, soffiandomi il fumo addosso. Poi mi toccò un braccio.
"Non mi toccare!"
"Ehi, stronzetto. Si può sapere che cazzo hai?"
Prima di esplodere, ebbi il tempo di vedere mia moglie che si portava le mani alle orecchie.
"Ascoltami bene" urlai. "Non sono un medico né un assistente sociale, ma ho capito che voi due avete dei seri problemi psichiatrici. Dovete farvi curare, intesi? Non ne posso più di sopportare le vostre continue stronzate, i vostri litigi, la vostra sciatteria. Dovete trovare qualcosa da fare oppure, meglio ancora, ve ne dovete andare fuori dai coglioni. Basta, non ne posso più!"
Ornella assistette divertita al mio sfogo, e fece cadere la cenere sul divano.
"Però, lo stronzetto!" disse.
In quel momento si aprì la porta della camera. Apparve l'enorme sagoma di Bruno. Con passi da elefante raggiunse il centro del soggiorno, incrociò le braccia possenti.
"Invece di stare qui a fare un cazzo, perché non venite a darmi una mano a spostare quella maledetta libreria?"


sabato 2 aprile 2016

LILLI E IL VAGABONDO




Ritorno al mio posto. Un angolo di cemento, sotto il porticato della piazza. Mi avvicino lentamente, la stampella rallenta il mio passo. Sul mio materasso, sulla mia coperta di lana, quella calda, è seduta una ragazza. Comprendo subito che è una di noi. Gambe lunghe magre nei pantaloni di una logora tuta. Macchie. Capelli lunghi incolti e sporchi e labbra screpolate. Occhi infiammati.
"Chi sei?" dico e lei non risponde, distoglie lo sguardo.
Appoggio la stampella e mi siedo con un sospiro.
"Non puoi stare qui" dico.
Lei si volta. Siamo spalla a spalla, e sento una puzza che non è la mia.
"Non so dove andare" dice in un soffio.
Sistemo la borsa che ho con me. Liscio la coperta poi torno a osservarla.
"Come ti chiami?" chiedo.
"Liliana, ma gli amici mi chiamano Lilli" risponde.
"Quali amici?"
Lei alza le spalle.
"Io sono Bartolomeo". Porgo la mano sudicia che si intreccia con la sua, altrettanto sporca. Le sue unghie sono sozze e rovinate, la pelle del palmo ruvida.
Silenzio. Guardiamo per un po' sfilare la gente. Appoggio un bicchiere di plastica sul marciapiede. Rimane vuoto.
"Devi trovare un posto per dormire" dico infine.
"Credevo di averlo trovato" dice.
Mi arrabbio. Alzo la voce.
"Questo materasso è mio, non c'è posto per tutti e due. Vattene".
"Aiutami".
Frugo nel mio zaino, tiro fuori mezza pagnotta. La mia cena.
"Tieni, mangia".
Lei obbedisce, dopo aver spezzato il tozzo in due parti uguali.
"Hai del vino?" domanda.
"È finito tutto qua dentro" dico, accarezzandomi lo stomaco incavato.
"Non importa".
"Da dove vieni?" domando.
"Da lontano" dice, poi volta il capo. Non vuole parlare di ciò che è sgradevole. Così come non lo voglio io.
"Quanti anni hai?" domanda all'improvviso.
"Più di sessanta".
"Non li dimostri" dice.
"È vero, ne dimostro dieci di più".
Scoppiamo a ridere. Poi, con fatica, mi alzo e afferro la stampella.
"Dove vai?" dice.
"Alzati anche tu e prendi la tua roba. Ti accompagno a un dormitorio, non è lontano".
"Ma io non voglio andare al dormitorio, voglio stare con te" protesta.
La fulmino con un'occhiata e finalmente si alza.
"Non è male" dico.
"E perché tu non ci vai?" chiede con tono di sfida.
"Per gli uomini è diverso. Devono stare soli" dico, e non aggiungo altro.
"Sono stanca" dice dopo un po'.
"Io lo sono ancora più di te. Dove hai passato l'ultima notte?"
"Nei giardinetti, ormai non fa più freddo".
"Sei pazza, è un luogo pericoloso per una donna".
Lei alza di nuovo le spalle. Siamo arrivati. La lascio al dormitorio, una volontaria si prende cura di lei. Stremato, torno al mio posto e mi fumo e mi gusto una mezza cicca che ho raccolto alla fermata del tram. Mi stendo e mi addormento subito. Dormo bene, dormo davvero bene.
Quando è già mattino una voce mi sveglia. Qualcuno mi tocca.
"Ciao, sono Lilli. Guarda che cosa ti ho portato".
La ragazza, un po' ripulita, mi porge un dolce. Lo prendo e inizio a mangiare.
"Ho delle monete, ti offro un caffè" dice, con un sorriso.
"La nostra presenza non è molto gradita nei bar" dico.
"Me ne fotto" dice lei, mi aiuta ad alzarmi e poi mi prende sottobraccio.
"Da quanti anni fai questa vita?" chiede mentre camminiamo.
"Tanti" rispondo. "E tu?"
"Pochi" dice lei.
"Non puoi continuare così, sei troppo giovane. Devi trovare una soluzione, e sono sicuro che nel tuo caso ci sia. Per me è diverso".
"Diverso?"
"Non ho più voglia di cambiare."
La ragazza annuisce, comprensiva.
"Io scrivo poesie" dico all'improvviso.
"Davvero? Recitane una, per me!"
"No".
"Perché?"
"Non me le ricordo".
"Oh..."
"Se vuoi le potrai leggere. E tu, che cosa facevi... prima?"
Lei diventa triste, le sue labbra inaridite assumono di colpo una piega amara.
"Non ne voglio parlare" dice.
"D'accordo" dico. Entriamo nel bar e tutti si scostano. Hanno ragione, puzziamo.
Trascorrono tre mesi. Lilli mi raggiunge tutte le mattine e trascorriamo tutto il tempo insieme. Diventiamo amici. Alla fine le racconto tutta la mia triste storia, e lei la sua.
"Secondo te che cosa pensano le persone di noi? Credono che sia tua figlia? Oppure che scopiamo?"
Ride, maliziosa.
"La gente non pensa nulla di noi perché non ci vede" rispondo sempre a quella sua domanda.
Finché, una mattina, lei non viene. E non si fa vedere neppure nei giorni successivi. Al dormitorio mi dicono che è stata da loro soltanto una notte. Forse, perché non se la ricordano quasi più. Lilli è sparita. Il fatto mi addolora. Poi, poco alla volta, non ci penso più. Sono sempre più stanco e consumato.
Un giorno, in piena estate, risento la sua voce. Mi sollevo a sedere sul mio giaciglio e vedo due gambe lunghe e abbronzate. Sollevo il capo. È lei, è Lilli, anche se è molto cambiata. La voce è l'unica cosa che riconosco. È più in carne, i capelli sono biondi e luminosi, è vestita con cura. Truccata.
"Ciao Bartolomeo" dice.
"Perché sei sparita senza dire nulla?" domando. La mia voce è ancora impastata dal sonno.
"Ti devo chiedere scusa, Bartolomeo. Ti ho mentito".
"Mentito?"
"Sì, non sono mai stata una senzatetto. Ho finto di esserlo".
"Che cosa?" Adesso sono del tutto sveglio.
"Sono una giornalista. Una scrittrice, come te" dice, un po' imbarazzata.
"Non capisco".
"Volevo scrivere un libro sulle condizioni di vita dei barboni" dice.
"Ah!" Sono sorpreso, stupito.
"Guarda" dice, e mi porge un volumetto.
"Il mio libro. È stato pubblicato e ha avuto un buon successo. Te lo regalo."
"Grazie" dico. Apro il libro, ne strappo una pagina e vi avvolgo una mela tutta avvizzita che ho raccattato il giorno prima al mercato.
"Così si conserverà meglio" dico.