Powered By Blogger

domenica 27 marzo 2016

SOGNO O SON DESTO?


Il convegno sta volgendo alla fine. Mi trascino stancamente nella sala cinema dove stanno proiettando un film. Tutti i posti sono occupati. Mi rassegno a stare in piedi, quando un collega mi fa un cenno.
"Laggiù c'è un posto libero" mi dice, e indica una direzione. Lo ringrazio e finalmente mi siedo. Sono stanco, i miei piedi sono doloranti. Accanto a me c'è una ragazza, alla quale non rivolgo nemmeno un'occhiata. Il film è interessante, anche se è quasi terminato. Dopo poco tempo si accendono le luci. Quello è il mio ultimo ricordo della giornata.
Quando mi sveglio, il mattino dopo, mi ritrovo in una vasca da bagno. Non sono solo. Percepisco l'acqua tiepida e soprattutto il calore di un altro corpo. Le mie gambe e i miei piedi sono intrecciati con quelli di una donna, che sta ancora dormendo. Entrambi siamo nudi.
Meravigliato, stupito, attonito, rimango immobile per un lungo istante. Poi il mio corpo inizia a reagire, stimolato da quella sensuale e calda presenza. La donna, senza risvegliarsi, inizia a muoversi. I suoi non sono, tuttavia, i movimenti di chi è pronto ad accogliere, ma di chi respinge. Non mi vuole.
Mi divincolo, mi alzo in piedi, scavalco con una certa difficoltà le alte pareti della vasca da bagno ed esco fuori. Mi dirigo nell'ambiente attiguo, una minuscola stanza con un letto, che è intatto. Voglio andare via, e mi metto alla ricerca dei miei vestiti. Che non riesco a trovare.
"Vieni qui". La donna, che deve essersi svegliata.
Obbedisco - che altro posso fare? - e ritorno da lei.
La guardo. Si sta stiracchiando con voluttà. Esegue delle piccole mosse, quasi una specie di ginnastica dolce. Ha i capelli lunghi, leggermente umidi, il corpo bianco e snello. I suoi occhi brillano.
Mi avvicino, allungo un braccio, e la tocco. Lei sembra gradire. Accarezzo le sue cosce, il ventre, infine i seni, che sono morbidi, quasi privi di reale consistenza. Lei chiude gli occhi e si passa più volte la lingua sulle labbra.
"Proviamo a fare l'amore" dice.
Annuisco.
"Lì dentro?" domando.
"No, andiamo sul letto" risponde lei. "Prima aiutami a svuotare la vasca" aggiunge.
"D'accordo" rispondo. "Dimmi che cosa devo fare".
Lei si mette a sedere. Poi inizia a dare spiegazioni.
"Sui due lati, proprio di fronte te, ci sono delle leve. Devi sganciarle, entrambe, e poi farle scorrere verso il basso. Lei hai trovate? Ecco, così. Giù, fino in fondo. Bene. Adesso devi smuovere il pannello, quello che ricopre lo smalto. No, non così, tiralo verso di te. Piano. Vedi quella piccola fessura? Guarda bene. All'interno c'è un telo. Afferralo in alto e in basso e poi sfilalo lentamente. Piano, con calma, altrimenti si può strappare. Adesso puoi rimuovere completamente il pannello. Appoggialo dietro di te. In fondo, sulla sinistra, c'è uno sportello. Sì, proprio quello. Devi fare leva e aprirlo. Non ci riesci? Prova di nuovo".
Ne ho abbastanza. Mi rialzo dalla posizione accovacciata in cui mi trovo.
"Che cosa fai, rinunci?" dice la donna. Nella sua voce c'è delusione.
"Non amo i preliminari troppo lunghi" dico, prima di lasciare la stanza. Nudo.

domenica 20 marzo 2016

AUSTRALOPITECHI



Non sono affatto estinti. No, sono ancora tra noi, anche se sono rimasti in pochi. Mi riferisco a quelli che, in maniera un po' scherzosa, mi piace chiamare australopitechi, dal nome di un genere di ominidi che si ritiene essere appartenuti alla linea evolutiva dell'uomo.
A volte succede di incontrare qualcuno di loro.
Mi è capitato proprio la settimana scorsa mentre stavo viaggiando in treno. Negli ultimi tempi, per i miei spostamenti di affari, preferisco l'utilizzo di tale mezzo. In parte perché il treno, a differenza dell'automobile, permette di rilassarsi, leggere un libro, sfogliare una rivista, sonnecchiare oppure di perdersi nei propri pensieri; in parte perché, da quando ho avuto un brutto rovescio finanziario, la macchina l'ho dovuta vendere.
Poco dopo che il treno si è avviato dalla stazione ho notato quell'esemplare di australopiteco. Stava dall'altra parte del corridoio, un paio di posti davanti al mio. Appena l'ho visto, compreso chi fosse, ho iniziato a osservarlo con morbosa curiosità. Era rannicchiato sul sedile, e stringeva qualcosa tra le grosse mani. A intervalli regolari emetteva dei piccoli grugniti di fastidio e di insofferenza. Inoltre non riusciva a stare fermo, si agitava di continuo, cambiava posizione, pareva quasi che il comodo sedile del treno ad alta velocità gli scottasse le natiche. Sono convinto che, se al posto del sedile ergonomico ci fosse stato uno scranno di pietra, quell'infelice avrebbe sofferto di meno. A un certo punto mi sono sporto di più dal mio posto per riuscire a scrutare meglio e ho finalmente capito quale fosse l'oggetto che il primitivo teneva tra le mani: si trattava di un moderno smartphone. L'australopiteco picchiava con forza sul display dell'apparecchio, pensando forse che fosse dotato di tasti. Oppure, altra ipotesi, pur conoscendo l'esistenza dello schermo touch screen (forse qualcuno, dotato di infinita pazienza, glielo aveva spiegato) le sue dita troppo grosse non avevano la necessaria sensibilità per attivare le varie funzioni dell'aggeggio.
Così l'ominide si innervosiva sempre di più, disturbando, tra l'altro, lo sventurato passeggero seduto accanto a lui. La scena, dunque, è diventata penosa. Insostenibile, per il mio animo sensibile, la visione dei vani sforzi di quel disgraziato. Non ho retto più e mi sono spostato in prima classe, pur non avendo il biglietto, per non soffrire più.
Avevo assistito a una scena simile appena qualche mese prima. Mi trovavo in un bar per il consueto tè delle cinque. Quando arrivò il cameriere con l'ordinazione rimasi raggelato: era di sicuro uno di loro. Lo sciagurato avanzava con passi insicuri sul lucido pavimento di marmo. Si trattava di un grosso esemplare, stretto in una giacchetta che minacciava di esplodere da un momento all'altro. Il palmo della sua mano era più grande del vassoio che reggeva teiera e tazza. Quando posò con movimenti incerti e legnosi quest'ultima sul tavolo chiusi gli occhi: una piccola pressione di quelle dita tozze e robuste avrebbe potuto stritolarla senza difficoltà. Esaurito il suo compito mi fece un cenno di saluto. Cercò anche di sorridere, ma il suo sorriso non era altro che uno spaventoso ghigno. Mentre si allontanava gli lanciai un'ultima occhiata. Era completamente fradicio di sudore: sulla fronte, sul naso, dal collo colavano rivoli d'acqua che si insinuavano nello stretto colletto. Sulla sua mascella quadrata si intravedeva un'ombra di barba (per questi individui primordiali non sono sufficienti neppure tre rasature giornaliere).
Finalmente mi rilassai e sorseggiai il mio tè. Mi augurai di non imbattermi mai più in un individuo di quella specie perché tali incontri mi provocano sempre un profondo turbamento. Invece, come si è visto, mi è accaduto di nuovo, in treno.
Sono rimasti in pochi, è vero, ma possono essere ovunque.

mercoledì 9 marzo 2016

SUPERCHEF


Mi domando: che cosa rimane da fare a un giovane di bell'aspetto e di belle speranze, da tempo in cerca di lavoro, se non tentare la strada della notorietà televisiva?
Ho provato a partecipare ai provini per il Grande Fratello. Sono rimasto per tre giorni sotto il sole e la pioggia senza mangiare né bere. Alla fine ho dovuto rinunciare per sfinimento. La fila non era avanzata di un solo metro. Ho dovuto ripiegare su X Factor. Il canto non è la mia attitudine principale tuttavia ho azzardato lo stesso. Se si è disperati occorre mettersi in gioco senza esitazioni. Quando ho cantato, urlando a squarciagola, "...e se io muoiooo da artigianooo..." sono stato cacciato a pedate. Niente da fare. Non rimaneva che un'ultima possibilità: la famosa gara culinaria proposta dalla Pay Tv Earth, Superchef. Ovviamente io non so cucinare. Anzi, odio tutto ciò che ha a che fare con la cucina, tranne mangiare. Con mia grande sorpresa ho superato la pre-selezione, che consisteva semplicemente in un colloquio (mi è stato domandato, tra l'altro, se sul pesce si può grattugiare il formaggio. Ho tirato a indovinare e ho azzeccato la risposta esatta).
E adesso il gran giorno è arrivato. Mi trovo qui, pronto a partecipare alla selezione vera e propria, alla prova che potrebbe garantirmi un posto tra i concorrenti di Superchef. Prova che consiste nella preparazione di un piatto a scelta da sottoporre alla valutazione dei terribili giudici. Ed eccoli, i tremendi esaminatori, schierati proprio di fronte a me.
Ecco Giancarlo Bracco, il super figo, l'idolo delle donne. Le sue due stelle sono ormai ammuffite perché da almeno dieci anni non cucina più, i maligni dicono che non ne è più capace, ha dimenticato tutto ciò che conosceva. Trascorre tutto il suo tempo nei salotti televisivi, partecipando a party, eventi vari e presentazioni di suoi libri, tutti di grande successo, tra i quali ricordo Il filetto perfetto e Il pasto rimasto - l'arte di cucinare con gli avanzi. Accanto a lui c'è Giacomo Barbera. Di lui si dice che sia un gran bevitore e soprattutto che sia gay. Lui non lo ha mai ammesso. Quando, durante le interviste alle quali si sottopone di continuo, gli viene domandato con malizia quali siano i suoi rapporti con le donne, risponde immancabilmente: "Da quando sono diventato un personaggio noto, volo di fiore in fiore. Sapete, io sono scapolo". Barbera dimentica di precisare che i fiori di cui parla non sono orchidee, margherite o primule, bensì narcisi, gerani e caprifogli. Appuntate sul vezzoso e attillato maglioncino porta le sue tre stelle di cartone, che lo fanno sembrare uno sceriffo bulimico. Poi c'è Mino Turacciuolo, due chef in uno tanto è grosso. Un autentico armadio. Pure lui non si cimenta con i fornelli da tanto tempo, anche se continua a recarsi ogni giorno nella cucina del suo elegante ristorante. Va in cucina soltanto per mangiare, e spazzola tutto quanto trova a portata di fauci: cibi cucinati, pre-cotti e crudi. Una volta è stato sorpreso nella cella frigorifera mentre succhiava con avidità un grosso pezzo di manzo. L'ultimo giudice non è uno chef, bensì un imprenditore nel campo della ristorazione e dell'industria vinicola. È italo-americano e si chiama John Bastacosich, detto Bastian Contrario. Nel corso della sua carriera pare abbia aperto quindici ristoranti e ne abbia chiusi più di venti. Lo so, i conti non tornano, ma sulle riviste di gossip (sulle quali è sempre presente, insieme alla mamma, alla nonna e alla bis-nonna) sta scritto così.
Ci siamo, tocca a me, devo presentare il piatto che ho cucinato, dal quale dipenderà il mio destino.
"Vieni avanti" dice Bracco con un ghigno.
Sposto il carrello e mi posiziono di fronte ai quattro carnefici.
"Come ti chiami?"
"Natale" rispondo.
"Sei nato a Pasqua?" dice Bastian Contrario. Tutti ridono.
"Che cosa fai nella vita?" chiede Barbera.
"Sono disoccupato".
"Non hai voglia di lavorare?" chiede l'odioso italo-americano. Nuove sghignazzate del quartetto.
"Sono perito elettrotecnico" dico, in un sussulto di dignità.
"Bene, allora ci presenterai un piatto elitri...zante!" Ancora il ripugnante ristoratore, che mi ha preso di mira. Cerco di mantenermi calmo.
"La mia filosofia di cucina si impronta sulla estrema semplicità" dico. "Pochi ingredienti, e una ricerca ossessiva del sapore attraverso la loro esaltazione" aggiungo.
"Bene, allora non resta che assaggiare. Qual è il nome di piatto?" dice Bastian Contrario, che poi si avvicina.
"Pasta in bianco" annuncio, serio. Lui fa una smorfia, poi afferra una forchetta. e infilza alcune penne.
Porta alla bocca, altra smorfia.
"Questo piatto..."
"...è una merda" concludo io.
"Stop!" interviene il regista.
"Quello lo doveva dire il signor Bastacosich, non lei!"
"E perché non me l'avete detto?"
"Pensavamo avesse visto le altre edizioni del programma. Su, riprendiamo."
Bastian Contrario, come da copione, sputa la mia pasta in un bidone e poi ritorna al suo posto scuotendo la testa.
È la volta di Barbera. Assaggia il mio piatto, e anche lui scuote il testone.
"È un piatto triste" dice, con espressione desolata. "La pasta è scotta, troppo peperoncino, e poi questa erba cipollina secca suscita malinconia". Se ne va e lascia il posto a Turacciuolo, il quale assaggia a sua volta. Poi, continuando a masticare, mi guarda.
"In questo piatto non c'è amore" dice.
"Chef..." dico io.
"Eh?"
"Anche se non c'è amore se la sta mangiando tutta, ne lasci un po' per chef Bracco".
Lui piega con le mani la forchetta, la butta e poi se ne va. Il pavimento trema.
Bracco mi si mette di fronte, avvicina il suo viso al mio, mi squadra fisso a lungo con i suoi occhi gelidi.
"Non ho nessuna intenzione di assaggiare" dice alzando la voce. "Tu ci stai prendendo in girooo!" urla.
"Il mio verdetto è no" dice Barbera.
"No" dice Turacciuolo. "Ed era anche poca" aggiunge.
"Anche per me è no" dice Bracco.
"Questo ci ha preso per culo" dice Bastian Contrario. "Vai via!"
"Posso dire una cosa?" domando.
"Vuoi salutare mamma e fidanzata?" dice Bastacosich, beffardo.
"No, volevo dirvi di andare affanculo!"
"Stop!" interviene il regista. "Tagliate!"
Esco dallo studio. Purtroppo è andata male. Non tutto è perduto, però. Ho sentito dire da un tecnico delle luci che stanno per iniziare le selezioni per un nuovo programma, L'isola degli sconosciuti, vuol dire che proverò lì. Mai arrendersi.

domenica 6 marzo 2016

IL CANNIBALE


Dura la vita da scapolo. Giorno dopo giorno si cerca di protrarre il più possibile l'ora di uscita dal lavoro, dove si è in piacevole compagnia, dopodiché si vagabonda a vuoto attraverso la città per almeno un paio di ore, tanto che si esaurisce la voglia di andare in qualche supermercato allo scopo di raccattare a casaccio cibo spazzatura destinato a occupare in maniera triste i ripiani del frigorifero, luogo freddo e desolato.
Adesso sono quasi le otto di sera, ho una fame tremenda, dunque non mi rimane che recarmi dal mio amico Oreste, il gestore dell'omonimo bar-trattoria. Un epilogo scontato, ormai abituale, delle mie giornate.
Il locale è rumoroso, pieno di gente, caotico, ammorbato da odore di cibo. Mi avvicino al bancone dietro al quale Oreste dirige la sua dissonante orchestra.
"È rimasto un posticino per me?" gli domando.
Lui mi guarda preoccupato, poi dà un'occhiata verso i tavoli, sempre più corrucciato.
"È pieno zeppo" dice. "Non sei capitato in un bel momento".
"Merda, ma io ho fame!" mi lamento con tono infantile.
Oreste mi zittisce con un gesto.
"Aspetta, potresti chiedere a quel signore che sta cenando da solo se è disposto a ospitarti al suo tavolo".
"Chi è?"
"Oh, è uno di quelli" dice il mio amico, abbassando la voce.
"Un omosessuale?"
"Ma no! È un mangiatore d'erba".
"Un vegetariano? Un vegano?" domando, curioso.
"Non chiedere a me, di quelle cose non capisco nulla. So soltanto che non mangia né carne né pesce né uova né formaggio. Mi limito a servirgli roba verde e lui sembra soddisfatto. Non ho mai capito se mangia le patate oppure no e non ho mai avuto il coraggio di chiedere".
"Credo le mangi, e pure le carote" inizio a dire quando intravedo Marzia, la giovane cuoca di Oreste, che sbuca dall'inferno della cucina. Il suo viso, sebbene sudato e congestionato, è grazioso come sempre. La ragazza si sporge dal bancone e mi stampa un bacio in fronte. Poi appoggia le mani ai fianchi.
"Allora, che cosa ti preparo?" chiede.
Sorrido.
"Il solito: una bistecca enorme, spessa tre dita e cotta al sangue, con una montagna di patatine fritte".
Lei annuisce, allunga la linguetta maliziosa e sparisce in cucina, di corsa.
Mi reco al tavolo indicato da Oreste.
"Buonasera" dico. "Mi ospiterebbe al suo tavolo? Sa, il locale è pieno e..."
L'uomo smette di masticare, posa la forchetta e mi guarda. Avrà cinquant'anni, i tratti del viso affilati, i capelli radi e già grigi, una barbetta a punta della stesso colore. Sembra una capra.
"Volentieri" dice con voce sottile e dal timbro metallico. "È sempre piacevole mangiare in compagnia".
Lo ringrazio.
"Le devo dire una cosa" aggiungo. "Io non sono vegetariano, o vegano, spero quindi non le dia fastidio se..."
Mi zittisce con un cenno.
"Non ho nessun problema" dice. Rincuorato, mi siedo.
"Lei è molto tollerante" dico.
"Perché?" chiede lui inforcando delle foglie di insalata.
"Di solito chi non mangia carne assume posizioni integraliste, stigmatizza i comportamenti diversi dai suoi, tenta di insinuare negli altri sensi di colpa, oppure cerca di fare proseliti".
"Non è il mio caso" dice, attaccando un enorme piatto di spinaci. "Mi limito a non cibarmi di alcuna specie animale, le altre persone sono libere di fare quel che meglio credono".
Annuisco compiaciuto. Il cameriere, trafelato, mi porta il piatto. Dalla mia bistecca si spande un profumo invitante. Per me. Sbircio un po' allarmato il mio commensale: è impassibile. Taglio la spessa fetta di carne a metà, vedo minuscole gocce di sangue che trasudano dalla polpa, giudico la cottura perfetta. Brava Marzia. Porto alla bocca un grosso pezzo di carne, mastico estasiato. E poi le patatine, fritte nel grasso, e una lunga sorsata di birra ghiacciata.
"È da tanti anni che non mangia carne?" domando al mio compagno di tavolo dopo aver inghiottito il boccone.
"Sì, tanti" risponde lui rimanendo con la forchetta a mezz'aria, colma di zucchine.
"Quindi non si ricorda più com'é il sapore".
"No, non me lo ricordo più".
"E dunque non si ricorda nemmeno più se un tempo le piaceva" aggiungo.
Lui smette di masticare, posa forchetta e coltello con un gesto brusco e mi pianta gli occhi addosso.
"Certo che mi piaceva" dice alzando un po' la voce. "E mi piace tutt'ora! Non ho mai detto che non mi piace la carne! Ho detto soltanto che non mangio carne di alcuna specie animale!"
Alcuni avventori si girano a guardare. Mi sento un po' in imbarazzo.
"Io amo la carne umana!" prosegue faccia di capra, sempre più infervorato. "La adoro! Il fatto è che non la posso mangiare. No, non la posso mangiare, purtroppo. È proibito, dicono". Poi rivolge il suo sguardo a un piattino colmo di cetrioli, ne infilza uno con rabbia e lo porta alla bocca.
Colto da nausea improvvisa, mi alzo e scappo di corsa verso la toilette.