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domenica 31 gennaio 2016

IL DIPINTO



La giovane donna passeggia assorta tra gli ambienti della vasta galleria. Quando si trova davanti a un grande dipinto che occupa l'intera parete si blocca. Inspira profondamente poi fissa lo sguardo sulla tela, ne osserva concentrata i particolari. L'espressione del suo viso muta a ogni istante; a volte si tratta di un lieve sorriso, che poi si trasforma in una smorfia di sofferenza, per passare subito dopo a una maschera compiaciuta.
La donna, così raccolta, non si accorge dell'uomo che si avvicina alle sue spalle. Lui le appoggia una mano sull'avambraccio destro. Un tocco delicato, amichevole, che tuttavia la coglie di sorpresa e la fa sussultare.
"Oh! Sei tu".
"Buongiorno Magda" dice l'uomo.
Giovanni Alberti è il proprietario della galleria d'arte dove Magda Fermi, giovane pittrice di sicuro talento, espone le sue opere. Alberti indossa una giacca a grossi riquadri con dei pantaloni color rosso fuoco e scarpe sportive. I capelli, castano chiaro e lunghi fino alle spalle, sono lisciati all'indietro con l'olio. Il contorno dei suoi occhi è sottolineato da una sottile striscia di trucco.
Quest'uomo è gay, pensa per l'ennesima volta la pittrice appena incrocia lo sguardo dell'uomo. Oppure no, non lo è ma vuol far credere di esserlo, in un eccesso di stravaganza e snobismo.
"Finalmente ti sei decisa a farmi visita" dice Alberti.
"Già" risponde la donna, laconica.
"Allora? Che ne dici?" fa il gallerista osservando il dipinto. "La collocazione ti soddisfa?"
Lei non risponde subito, fa alcuni passi indietro, poi si sposta di lato, infine annuisce.
"Peccato che non rimarrà esposto a lungo" dice l'uomo.
Lei si allarma.
"Che cosa vuoi dire?" La voce è stridula.
"Vieni con me in ufficio, ti devo parlare. Se oggi non fossi venuta ti avrei cercata".
Lei lo segue, docile, attraverso un lungo corridoio. Entrano in un ufficio dalle pareti bianche dove l'unico arredo è una grande scrivania, anch'essa bianca, così come dello stesso candido colore sono le poltroncine. L'uomo si accomoda dietro la scrivania, lei gli siede di fronte.
"Il tuo dipinto è straordinario" dice Alberti.
"Ho impiegato quasi nove mesi per ultimarlo".
"Lo so, una lunga gestazione".
"E un parto difficile e doloroso" dice la pittrice.
"Ti va di bere qualcosa?"
"Soltanto un po' d'acqua, per favore" dice Magda Negri, che ha la bocca asciutta.
"Ho già trovato un compratore" dice lui all'improvviso, quasi dovesse liberarsi di un peso.
Lei impallidisce.
"Che cosa?" dice con un filo di voce. Poi beve un sorso d'acqua.
"Chi è?" aggiunge.
"Non lo conosci. Si tratta di un giapponese".
"Un giapponese?"
"Sì, si chiama Toshito Matamori ed è uno dei più grandi imprenditori del suo paese. Pesce in scatola".
"Che cosa ha detto?" domanda la pittrice, che non riesce a nascondere la profonda inquietudine.
"Ha guardato il dipinto per non più di un paio di minuti. Poi ha detto che lo compra, al prezzo che abbiamo stabilito".
"No!"
"Che cosa?"
"Ho detto di no, non lo voglio vendere!"
Giovanni Alberti sorride, anche se il suo risolino è più simile a una smorfia.
"Sai che non è possibile" spiega. "Hai firmato un contratto, hai l'obbligo di rispettarlo".
Lei si affloscia sulla sedia. I suoi occhi luccicano.
"Non voglio staccarmi da quel quadro. È parte di me".
Il gallerista sospira.
"Che cosa ti succede, Magda?"
"Non è giusto" dice lei, che stenta a trattenere il pianto.
"Perché?"
"Pensa a uno scrittore" dice lei.
"Uno scrittore?"
"Uno scrittore non si stacca mai dalla propria opera, la può tenere sempre con sé, pur condividendola con i suoi lettori. E la stessa cosa accade a un regista".
"Pensa a uno scultore" dice Alberti.
"Uno sventurato, come me. Giovanni, ti rendi conto che il mio dipinto finirà in qualche lussuosa villa di quel pescivendolo? In Giappone, e io non lo rivedrò mai più".
"Ci sono le riproduzioni, i cataloghi..."
"No! Non è la stessa cosa, quelle sono cose morte mentre il mio dipinto è vivo!"
"Magda, ti capisco ma qui si tratta del tuo mestiere. Sei giovane, e sei ricca di talento, produrrai tante altre opere".
"Altre opere? Allora tu non hai capito nulla, non riuscirei a sopportare un altro dolore simile. Io non dipingerò mai più".
La donna si asciuga le lacrime con il dorso della mano, si alza ed esce.


sabato 30 gennaio 2016

LA SCONOSCIUTA


Cammino a piedi nudi nell'erba alta e soffice.
Mia madre, quando ero bambino, mi diceva: "Non parlare mai con gli sconosciuti".
Ero bambino, chi erano per me gli sconosciuti? Tutti, a parte lei mio padre mia sorella i miei nonni.
Poco per volta, crescendo, cominciai a frequentare altre persone. La maestra, i miei compagni e i loro genitori, i bidelli. Ma gli estranei, quelle persone ai quali non potevo concedere confidenza, che incontravo tutti i giorni sull'autobus per strada nei negozi in parrocchia rimanevano una moltitudine.
Il prato è molto esteso e in leggera pendenza. Ai lati è circondato da alti ed esili pioppi le cui cime ondeggiano al lieve soffio del vento.
Durante l'adolescenza, si sa, affiora nei giovani un desiderio di scoperta e di ribellione. E fu così anche per me. Iniziai a rivolgere la parola a perfetti sconosciuti. Non avevo più, di loro, alcun timore. Mi ero emancipato, a mio modo, contravvenendo a quella raccomandazione imposizione materna che per tanto tempo mi aveva condizionato. Scoprii che alcuni di loro, gli sconosciuti, potevano risultare molto interessanti. Stimolanti.
Mi fermo, scruto l'orizzonte, sollevo il capo e osservo il cielo, completamente terso. Annuso l'aria, ne assorbo i profumi.
Quando incontrai quella perfetta sconosciuta avevo appena iniziato a lavorare. Era trascorso ormai tanto tempo da quando rifuggivo la presenza di estranei, quelle paure indotte erano ormai un lontano ricordo. Senza dubbi, senza indugi e senza timori cominciai a frequentarla. Conoscevo il meccanismo: era sufficiente trascorrere del tempo insieme a un individuo, condividere attività e passioni e divertimenti, scambiare riflessioni pensieri ansie convinzioni, per trasformare quella creatura in qualcosa di noto, di familiare. Con quella ragazza spartii corpo e sentimenti.
Allargo le braccia e poi mi lascio cadere sul grasso materasso erboso color smeraldo. I fili spessi mi solleticano gli occhi, penetrano nella mia bocca e nelle mie narici. Sento sapore di linfa e di polvere.
Perché lei mi ha detto quella cosa? Lei, la persona che più al mondo ritenevo di conoscere, più di mia madre di mio padre di mia sorella e dei nonni che sono morti, ha atteso che fossi al culmine della felicità e poi mi ha informato di quella cosa che non riesco ad accettare. Ho deciso, la trasformerò di nuovo in una sconosciuta. Anzi, per me lo è già.
Mastico un filo d'erba, ne assaporo il succo. È amaro, molto amaro.


domenica 24 gennaio 2016

VENT'ANNI


Mi sveglio e il primo pensiero non può che essere quello.
Vent'anni! Oggi compio vent'anni!
Per niente assonnato balzo giù dal letto come una molla che scatta all'improvviso.
Vent'anni! Da oggi in poi si comincia a vivere sul serio. La vita è nelle mie mani, il mondo intero è ai miei piedi. Vado in bagno, svuoto il canarino, mi rinfresco, passo il rasoio canticchiando felice.
"Dei diciotto me ne fotto, mentre i venti son bollenti. A diciotto niente botto, mentre a venti siam contenti".
Mi fiondo in cucina, devo assolutamente ingurgitare qualcosa.
Vedo mia madre seduta al tavolo, con lo sguardo perso. È ancora in pigiama, gli occhi cisposi, i capelli arruffati, il volto esangue. Avrà già fumato almeno dieci sigarette e bevuto chissà quanti caffè. E pensato che cosa?
"Ciao mamma".
"Oh, ciao. Già sveglio?"
"Sì. Non devi dirmi nulla?"
"Non saprei..."
"Oggi compio vent'anni!"
"È vero. Tanti auguri". Tutto lì.
"Senti..."
Mi interrompe.
"Vuoi di nuovo fare la festa?"
"Eh?"
"Sì, come quella che abbiamo fatto per i diciotto anni".
"No, vorrei chiederti qualcosa".
"Che cosa?" Le sue labbra sono blu.
"Che cosa hai pensato quando hai compiuto vent'anni?"
Si accende un'altra sigaretta poi mi guarda. I suoi occhi sono ancora belli.
"Non mi ricordo" dice.
"Come? Non ti ricordi? Possibile?"
"Lo sai quanti anni ho, vero?"
"Certo, ne hai quaranta".
"E tu ne hai venti, proprio oggi".
Rifletto un attimo, poi ci arrivo.
"Ah! Ho capito". Distolgo lo sguardo, imbarazzato. Mi ficco in bocca tre biscotti, sorseggio un succo di frutta e poi mi alzo.
"Dove vai?"
"A fare due passi".
Esco. Imbocco la stradina che conduce al paese. Poco prima di arrivare in piazza c'è l'abitazione di Carletto. Lui, come sempre, è seduto davanti casa su una panca.
Carletto ha poco più di quarant'anni e non lavora. Anzi, non lavora più. Lo ha fatto per molti anni ma da qualche tempo ha smesso. Non è in pensione, d'altra parte è troppo giovane per esserlo, ma vive di rendita. Una rendita che non deve essere granché, dal momento che Carletto ha persino venduto la macchina, ma che tuttavia sembra essergli sufficiente per sopravvivere. Per spostarsi usa una vecchia bicicletta che era di suo padre, non frequenta bar o ristoranti o cinema, non compra giornali, non è mai andato in vacanza e non frequenta nessuno. Ogni tanto si alza dalla sua panchetta, va a comprare il pane e quel poco che gli serve, oppure si prende cura di alcuni cespugli di rose che crescono nel suo piccolo cortile e che sua madre aveva piantato. Nient'altro. In paese si mormora: Carletto, ormai, ha fama di sfaccendato. Lui se la ride. Eppure una volta non era così. Quand'ero bamboccio mi ricordo che andava sempre di fretta, era sempre affannato. Carletto era proprietario di un'officina di autoriparazioni molto ben avviata. Aveva diversi meccanici alle sue dipendenze. Me lo ricordo eccome quando tornava a casa per il pranzo, frettoloso e agitato. Allora era magro come un chiodo e non svestiva mai la tuta blu sempre sporca di grasso. Adesso si è appesantito ma il suo viso tondo ha la pelle liscia e levigata come quella di un bambino, non c'è la minima traccia di rughe sul quel volto pacioso.
"Ciao Carletto" lo saluto.
"Ohi!"
Lentamente si alza, mi si avvicina restando aggrappato alla rete di metallo che circonda la sua casetta, la stessa dei genitori e dei nonni.
"Tutto bene?" dico.
Lui si guarda attorno.
"Tutto tranquillo" risponde sorridendo.
"Lo sai che oggi compio vent'anni?"
"Bravo" dice, poi annuisce più volte.
"Carletto, ti posso chiedere una cosa?"
"Pronti, ho tutto il tempo del mondo".
"Quando tu hai compiuto vent'anni, che cosa pensavi?"
Lui mi guarda, non ha capito ciò che intendevo.
"Voglio dire, quali erano le tue aspirazioni, i tuoi progetti di vita?" preciso.
Carletto, prima di rispondere, si umetta le grosse labbra.
"Pensavo soltanto a lavorare. Già allora avevo capito che più avrei lavorato, più soldi avrei guadagnato. Andavo avanti per dodici-quattordici ore al giorno, senza mai un attimo di respiro. E di riposo".
"Volevi diventare ricco?" domando.
Carletto fa una smorfia.
"Io ai ricchi ci piscio sopra" dice.
"Allora?"
"Allora niente. Prima avessi messo da parte tanti soldi, prima avrei potuto smettere di lavorare. E così ho fatto, come ben sai".
Lo guardo. E un po' lo invidio, perché sembra davvero contento della sua attuale non-vita.
"Sai che ti dico?" riprende dopo un lungo silenzio. "Goditi i vent'anni, fai tutti i progetti che vuoi, ma sappi che tanto nulla di ciò che immagini si realizzerà. In realtà ti devi concentrare su una cosa soltanto: cerca di essere in pace con te stesso".
Non so che dire.
"Guarda, hai visto che le mie rose stanno sbocciando?"


sabato 16 gennaio 2016

FURFANTE


La pistola è stata acquistata due giorni prima. Adesso riposa, e pesa, nella saccoccia dei suoi calzoni sformati. Non si tratta di una vera pistola, perché quelle costano troppo, e chi ha appena perso il lavoro e non sa come pagare la prossima rata del mutuo un'arma autentica non se la può permettere. No, si tratta di una semplice scacciacani, che all'occorrenza può scacciare anche i gatti, perché no, pensa l'uomo. Ma a lui non interessano né i cani né i gatti, bensì i soldi, poiché è di quelli che ha bisogno.
Cena: mangiato ha mangiato e bevuto ha bevuto. Adesso si alza, trattiene un rutto e fa per uscire.
"Dove stai andando?" lo blocca la moglie.
La moglie! Lui la squadra un istante, la fotografa con la mente, e la fotografia è uguale a tutte quelle scattate negli ultimi anni: i capelli un cespuglio incolto, la pelle del viso grigia e macchiata, gli occhi da tapiro e il naso bombato, le labbra assenti. E poi, quel seno smisurato e quelle ridicole gambette!
"Vado in garage" risponde.
"A fare che?"
"Non rompermi i coglioni!"
Esce. In garage serra la pistola nella morsa e inizia a lavorare con cacciavite punteruolo lima martello (e bestemmie) finché lo stupido tappo rosso sguscia fuori dalla canna, che rimane tutta sfregiata e deve essere ritoccata con un po' di vernice nera. Ecco, adesso il ferro non sembra più un giocattolo, ma quasi una vera rivoltella. Ficca dentro il tamburo sei colpi di quelli che fanno solo bum bum, sputa e poi torna nell'appartamento, che è già tutto buio. Quella se n'è già andata a ronfare, lui dopo aver guardato un po' di televisione rimane a dormire sul divano.
Il giorno dopo parcheggia l'auto scassata nella piazzetta del paese, a cento metri dall'ufficio postale. Non il suo, di paese, ma un altro, perché lì nessuno lo conosce e lui è mica scemo. Lascia le chiavi nel quadro, dopo potrebbe avere fretta, e scende. Le precauzioni, tuttavia, non sono mai troppe. Allora prende una calza di sua moglie, che prima di uscire ha rubato dal cesto della roba sporca e tagliato, e se la infila in testa. Subito sente puzza di sudore. Che maiala, quella! Era meglio se prendeva delle calze nuove, o almeno pulite, ma ormai è fatta. Con quella cosa sugli occhi non è che ci veda benissimo ma, tempo alcuni istanti, si abitua. Appena prima di entrare nell'ufficio postale. Apre la porta, tira fuori la pistola e urla: "Fermi tutti, questa è una rapina!" Subito si pente di non aver pensato a qualcos'altro da dire, di più originale, di meno ridicolo. In ogni caso, ormai è andata.
I tutti sarebbero un campagnolo corpulento con i gambali incrostati di merda di bestia e una vecchietta vestita di nero. L'unica impiegata lo guarda con gli occhi sbarrati. È giovane, con i baffetti e i capelli unti. Niente concorsi di bellezza per te, mia cara.
Si avvicina allo sportello, arma spianata, e porge alla ragazza, facendola passare sotto la fessura, una busta di plastica firmata CONAD.
"Ficcaci dentro tutti i biglietti che hai" dice, con una voce che non sembra la sua. La tensione? No, la maledetta calza.
L'impiegata ubbidisce, la borsa si gonfia.
"Non passa più" dice la brutta.
"Eh?"
"Non passa più nella fessura, come faccio a ridargliela?"
"Cazzo!" esclama l'uomo, che si trova ad affrontare una difficoltà del tutto imprevista. Mantiene il sangue freddo e la risolve.
"Apri la porta, esci da lì dentro e dammela!" ordina imperioso.
"Non posso, sono chiusa dentro e non ho la chiave. Sa, è per motivi di sicurezza..."
Saltano i nervi. La pistola, puntata contro il soffitto, esplode un colpo. Una bella fiammata, e tanto fumo. Puzza.
"Il buco, sul soffitto non c'è il buco, quel ferro è farlocco. E adesso ti spacco il culo". Il campagnolo fa sentire la sua voce, mentre la vecchietta è quasi schiattata per lo spavento, è a terra accartocciata e mormora Madonna, Madonna..."
"Stai zitto, mentecatto. Guarda che carico il revolver un colpo buono e uno no, e il prossimo è quello buono, quello che bucherà la tua pancia". L'altro se ne sta calmo calmo. Un buco in pancia per difendere i soldi della posta? No.
Però il furfante adesso è preoccupato. Chissà quanti hanno sentito lo sparo! Magari qualcuno avrà già chiamato i carabinieri. Esce di corsa, dopo aver dato un'ultima occhiata all'impiegata. No, non vincerebbe lo stesso Miss Italia neanche buttando giù tutto e ricostruendo da capo.
Ancora con la pistola in pugno e la calza infilata sul muso raggiunge la macchina. Monta. Le chiavi non ci sono! Dirimpetto, attraverso il parabrezza lercio, scorge un ragazzino, tra le dita ha le chiavi e le fa oscillare. E ride pure, il disgraziato!
Scende dall'auto, incazzato come una iena alla quale hanno sottratto una carogna. Non ci pensa un attimo e spara al giovane briccone. Quello non fa una piega. Anzi, sembra ancora più divertito. Il furfante si avventa sul moccioso, che si allontana facendogli delle smorfie di dileggio. Nel frattempo in piazza sta accorrendo gente, non c'è più tempo da perdere o lo acciuffano.
Si ferma, prende bene la mira e scaglia con tutta forza il ferro verso un ginocchio del ragazzino. Toc, lo colpisce secco. Quello si accascia urlando e piangendo e finalmente molla le agognate chiavi.
"Ladro, ben ti sta" urla all'indirizzo dello sbarbatello. "Che ti serva da lezione!"
Poi sale in macchina e mette in moto. Cioè, tenta di mettere in moto, perché la scassona non parte. Con la coda dell'occhio intravede il campagnolo che sta arrivando di corsa e impugna una vanga. Ma dove mai l'avrà presa, una vanga? Ce l'aveva per caso in tasca?
Allora si mette a correre pure lui. Attraversa la piazza, aggira la chiesa, e si lancia nei campi. Salta fossi, abbatte nodosi steli di granoturco, affonda gli scarponi nell'erba alta. Si è scordato di levarsi la calza e, nella foga della fuga, anche se il suo tronco è bianco, non vede la grossa betulla che interrompe bruscamente la sua breve carriera di furfante. Testa contro albero, vince sempre l'albero.




FEGATO SPAPPOLATO


Appena metto piede all'osteria sento una risata agghiacciante. Mi avvicino al bancone.
"Ho sentito la risata di Angelo. Dov'è?" domando all'oste.
Lui sospira e scuote il capo.
"È di là" dice, indicando la sala piccola, quella vicino al gabinetto.
"Portami birra e gazzosa" dico, poi vado a cercare Angelo.
Lo trovo seduto da solo a un tavolo, immerso nella penombra. Si sta versando da bere da una bottiglia di rosso che è quasi vuota.
"Mi posso sedere con te?" gli domando. Angelo scrolla le spalle. Immagino sia un sì, allora mi accomodo di fronte a lui. Mentre lui fissa il vuoto, io lo scruto con attenzione. Sembra molto invecchiato dall'ultima volta che l'ho visto da vicino. Ha più o meno la mia stessa età, ma dimostra almeno dieci anni di più. Il volto è gonfio, quasi tumefatto, la pelle tirata e, ovunque, solcata da minuscoli e ramificati capillari di color rosso vivo. Le labbra sono scure, tinte dal vino. Non si è più tagliato la barba, che è incolta e striata di grigio. In testa ha il solito cappello di paglia, sporco e bucato in più punti. Anche la pesante camicia che indossa, a scacchi blu e neri, è lercia. Da tutto il suo enorme corpo proviene un dolciastro lezzo di stalla.
L'oste mi porta la birra, con la gazzosa per allungarla. Se ne va scuotendo il testone, dopo aver lanciato un'occhiata pietosa al povero bevitore.
"Ho il fegato spappolato!" sbotta all'improvviso Angelo.
"Che dici?"
"Me l'ha detto il dottore, e lui non si sbaglia. Mi ha fatto fare delle visite e poi ha detto che se continuo a bere non campo a lungo".
Indico la bottiglia, adesso asciutta.
"È l'unica cosa che mi piace fare" dice. "Comunque adesso all'osteria vengo solo la domenica, prima di pranzo".
"A casa non bevi più?" chiedo. Lui scoppia a ridere.
"Certo che bevo, mica posso morire di sete. Ma a casa bevo il vino che faccio io, quello non fa male, è genuino".
"Allora quando è che non bevi?" faccio.
"Quando dormo".
Poi Angelo si alza in piedi.
"Guarda che pancia" dice.
Osservo il suo ventre prominente, a forma di palla. Ascite, penso, se questo poveraccio non la smette con l'alcol è davvero spacciato.
"Ho iniziato a bere a cinque anni" dice Angelo, che si è rimesso a sedere e guarda con angoscia la bottiglia vuota. Poi sembra rasserenarsi, ha preso la sua decisione.
"Comando ancora un quarto" dice, e fa un cenno all'oste.
"Hai iniziato a bere ancora prima di andare a scuola?"
"Sì, era mio nonno che, a pranzo, mi versava sempre mezzo bicchiere di vino. Diceva che faceva sangue, e i miei genitori erano d'accordo. Poi, è vero, ho principiato la scuola, ma non ci sono andato per tanto tempo".
"Per quale motivo?"
Angelo dapprima fa una smorfia, poi lascia esplodere la sua spaventosa risata. Nell'osteria tutti si voltano a guardarlo. E a guardare me.
"La maestra diceva che ero ritardato. Il fatto è che a me piaceva mica andare a scuola. Non riuscivo a stare fermo, non stavo ad ascoltare e quindi non imparavo niente. Ma non ero scemo".
"E hai lasciato la scuola?" domando.
"Sì. Mia madre era arrabbiata con la maestra, ogni tanto le andava a parlare, ma io ho continuato a comportarmi male. Allora a mio padre una sera sono presi i cinque minuti, aveva bevuto, e ha detto che a scuola non ci sarei più andato, che tanto a casa c'era da lavorare. E poi ha anche detto che la maestra era una puttana".
Sospiro. Povero Angelo.
"Allora hai cominciato a lavorare in cascina" dico.
"Sì, ero bravo a lavorare. Già da giovane sapevo fare di tutto. E poi ero forte come un toro, riuscivo a spostare da solo il rimorchio del trattore e portavo in spalla i sacchi di grano da mezzo quintale senza il minimo sforzo".
"E anche adesso continui ad ammazzarti di fatica".
"Mi piace farlo. Da quando i miei poveri genitori se ne sono andati sono rimasto da solo, perché mio fratello ha una cascinotta tutta sua. Riesco a governare quaranta mucche. La mattina mi alzo alle quattro, quando è ancora buio, e le mungo. Poi tutto il giorno nei campi. La sera vado a dormine..."
"...con le galline!" lo interrompo. Lui ride, ride alla sua maniera, spaventosa.
"Prima! Ci vado molto prima delle galline!"
Angelo beve un sorso del vino che l'oste gli ha appena portato. Poi guarda il mio bicchiere.
"Non ti farà mica male bere quella roba lì? Ti gonfia lo stomaco" dice, sinceramente preoccupato. Penso al suo ventre smisurato.
"No, stai tranquillo, non mi fa male".
"Ah!"
"Angelo" dico. "Non pensi mai a divertirti?"
Scuote il capo, il cappellino gli casca, se lo rimette calcandolo meglio.
"Non ho tempo, e poi non saprei che cosa fare. Il mio divertimento è il lavoro".
"Non frequenti neppure più gli amici. Un tempo ti vedevo sempre qui, con loro".
La sua espressione diventa dura. Beve ancora, poi si pulisce la bocca con la manica della camicia.
"Quelli non erano amici. Quelli si divertivano soltanto alle mie spalle. Mi facevano bere e poi mi portavano in giro e ridevano di me. L'ho capito quella volta che mi hanno convinto a prendere a calci la mia macchina nuova. Io l'ho fatto e l'ho ammaccata tutta. Ero troppo ciucco, non capivo più niente. Ma poi ho detto basta, non ho più voluto sapere niente di loro. Meglio stare da solo".
Annuisco. Sono d'accordo con lui.
"Angelo, hai mai pensato di sposarti?"
"Bah! A me le campagnole non piacciono, sono sempre messe male in arnese" dice. Poi, prima di proseguire, abbassa la voce e mi guarda in maniera furba. "A me piacciono le donne moderne, quelle tutte truccate e che vanno sempre dalla parrucchiera. Ma quelle sono difficili da accontentare, vogliono andare al ristorante, al cinema, e a fare le vacanze. Come faccio io ad andare in vacanza? Come faccio con le mucche? Mica posso portarmele dietro!"
Dal vicino campanile rintocca il mezzogiorno. Angelo scola gli ultimi resti del quartino, poi si alza di colpo.
"Devo andare a mangiare" dice. Si volta e si dirige verso l'uscita, senza salutare.




domenica 3 gennaio 2016

MENELIK


Mi hanno detto: "Vai in giro a fare un po' di domande, vedi che cosa si ricorda la gente, che ne pensa, e poi scrivi un breve articolo che te lo pubblichiamo nel prossimo numero, abbiamo ancora un piccolo spazio da riempire".
Bravi loro! Anzi, bravo lui, il capo redattore, quello stronzo di Miccoli. A me non frega niente di lavorare nel giornale studentesco, perché preferirei di gran lunga andare a tirare due calci al pallone oppure fare un giro in bicicletta, invece mi tocca subire questa odiosa corvée.
"Vedrai, il professor Sensi avrà un occhio di riguardo nei tuoi confronti al momento di decidere l'ammissione all'esame" dice sempre Miccoli. Magari ha pure ragione, quel cazzone! Già, perché in italiano e storia non sono certo un mostro, e scrivere articoli a sfondo storico sul foglio della scuola mi permetterebbe di gabbare quel borioso insegnante di italiano e storia.
Ho detto a Miccoli: "Cosa faccio, chiedo della guerra?"
Lui mi ha guardato come se fossi un perfetto cretino.
"Che stai dicendo? Quale guerra? Mica c'è n'è stata una sola!"
Ha pure ragione, il brutto stronzo, di guerra c'è n'è stata più di una, questo lo so pure io.
"Devi definire meglio l'argomento. Perché non ti concentri su un particolare periodo, non molto conosciuto?"
"Fammi un esempio e io eseguo" ho risposto.
L'altro ha sospirato a lungo, scuotendo il testone.
"Chiedi del primo periodo coloniale italiano, quello di fine Ottocento in Africa Orientale. Sai, Crispi, Menelik, Adua..."
Ho annuito perché non vedevo l'ora di farla finita e sono andato al bar a riflettere. Ci ho ragionato su il tempo di tre consumazioni, poi ho preso un taccuino e una matita, sono salito su un autobus e sono sceso in pieno centro, dove posso trovare più gente che non ha un cazzo da fare e che magari si degna di darmi retta.
Vediamo: Crispi è meglio non nominarlo, su di lui non ho le idee chiare e poi lo confondo sempre con Depretis. Adua non so che cazzo sia, se un posto o una persona, quindi meglio lasciare perdere. Ecco, chiederò di Menelik, che mi pare fosse il re di qualche tribù africana che noi cercammo di colonizzare.
Vedo una anziana signora venirmi incontro, infagottata in una vecchia pelliccia spelacchiata. Le serro il passo.
"Signora, che cosa sa dirmi di Menelik?"
Quella si blocca e sbarra gli  occhi, si stringe al petto la borsetta.
"Le studiate tutte per derubare le povere vecchie, eh?" dice a brutto muso.
"Sono uno studente, sto conducendo un'inchiesta per il giornale scolastico" mi difendo.
"Sì, e io sono la regina Elisabetta" fa lei. No, non è la regina, ma di sicuro è una sua coscritta.
"Non mi vuole aiutare?" dico, cercando di intenerirla.
"Pussa via! Ladrone!"
Rinuncio e la lascio proseguire. Stupida vecchia! Incrocio lo sguardo di un ragazzo più o meno della mia età. Non me lo lascio sfuggire.
"Menelik?" gli faccio, al volo.
"Menelik vallo a dire a tua sorella!" dice lui e poi mi fa un gestaccio. Che razza di ignorante! Sdegnato, continuo la mia ricerca.
Mi avvicino a un uomo di mezz'età vestito modestamente. Accetta di parlare e allora gli pongo la solita domanda.
"Certo che so chi è!" dice. Poi ci pensa un po' su.
"É nero?" chiede infine.
"Sì".
"Feroce?"
"Be'... direi di sì".
"Abbaia di continuo?"
"Eh?"
"Ci sono! É il cane dei miei vicini. Mi pare si chiami proprio Menelik!" dice con entusiasmo.
"Ma..."
"Che cosa ho vinto? Una maglietta? Un buono sconto?"
Mi allontano dallo squilibrato e attiro l'attenzione di una donna che cammina lentamente trascinando due pesanti sporte ricolme di frutta e verdura.
"Sa chi è Menelik?" chiedo, mostrando il taccuino.
Sguardo vacuo, poi il suo viso si illumina.
"Menelicche? Quelle che si usano a Carnevale che ci soffi dentro e si allunga la lingua?"
"Non proprio, signora. Grazie lo stesso" dico. Lei, delusa, riprende i borsoni e prosegue la sua camminata da casalinga-automa.
Il mio notes è desolatamente intonso. Maledico Miccoli. Questa gente non sa un cazzo di robe così vecchie. Se facessi domande su attori e cantanti avrei di sicuro più successo, ma non posso scrivere di cantanti e attori sul giornale della scuola. Non io, almeno.
Incontro un uomo un po' in sovrappeso. Impugna una valigetta di cuoio e procede a piccoli passi. Lo fermo.
"Il nome Menelik le dice qualcosa?" domando.
Lui annuisce, si umetta le piccole labbra rosse e poi dice: "Il Negus, vero?"
Centro! Aspetto che il grassone prosegua. Lo fa rivolgendo lo sguardo al cielo.
"Mi ricordo che, quando ero piccolo e mi sporcavo la faccia, mia madre mi diceva che sembravo il Negus!" esclama. Poi la sua voce pigolante diventa all'improvviso triste.
"Ah, la mia povera mamma! Ricordo che, nei giorni di festa, quando tutta la famiglia era riunita intorno al tavolo da pranzo..."
Mi allontano mentre sta ancora parlando, perso nei ricordi d'infanzia.
Ultimo tentativo, poi tornerò da Miccoli e gli farò ingoiare il taccuino. E la matita invece...
Scorgo un vecchietto all'angolo della strada, Sta fumando, pensieroso.
"Sa chi era Menelik?" gli chiedo a bruciapelo. Lui mi lancia un'occhiata cattiva. Poi sputa a terra.
"Quel porco!" esclama rabbioso.
"Che cosa sa dirmi di lui?" domando speranzoso.
"Siete dei vigliacchi, tu e quelli come te! Vi siete fatti sconfiggere da un branco di negri!"
"Che cosa?" dico, interdetto. Perché se la prende con me?
"Voi giovani siete degli smidollati. Avete disonorato l'Italia!"
"Scusi ma..."
"Siete scappati, e vi hanno massacrato lo stesso. Vi hanno infilzato le chiappe con le lance. E voi avevate i fucili!"
Mi accorgo che il vecchio delirante è munito di un bastone e che ora lo sta brandendo. Cerca di colpirmi in testa. Lo evito per poco, indietreggio. Lui ha la schiuma alla bocca. Potrei neutralizzarlo facilmente, ma preferisco darmela a gambe. Mi insegue per un paio di isolati, il vecchio demonio addirittura corre! Finalmente riesco a seminarlo, mi fermo per prendere fiato e mi accorgo che ho pure perso il taccuino. Disfatta completa, non mi resta che ritornare alla base.
"Che cosa hai combinato?" chiede Miccoli appena mi vede. Lui è seduto al tavolo della redazione del giornale studentesco, circondato da un paio di ragazze.
"Guardati, sei stravolto. e sudato come un maiale" aggiunge. "Sembri un reduce della battaglia di Adua". Poi ridacchia, e le due stangone gli fanno eco.