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sabato 24 dicembre 2016

DIMISSIONI


L'Italia è tristemente nota per essere il paese in cui nessuno si dimette. Non dimettersi significa non assumersi la responsabilità del proprio operato. Non dimettersi evidenzia non ammettere mai i propri errori o torti. Non dimettersi, di fronte a fatti manifesti, vuol dire palesare la propria sfrontatezza, l'incredibile impudenza.
Non si dimette il ministro Poletti, che ha rivolto ai giovani costretti a lasciare, per motivi economici, il loro paese, frasi sprezzanti e offensive. Ciò ha causato grave imbarazzo alla sua parte politica di riferimento, ha scatenato la reazione indignata e forte dei giovani che si riconoscono in quello stesso partito. Sono arrivate le scuse, certo, come sempre capita in questi casi. Scuse chissà se davvero sincere, la cui eventuale schiettezza potrebbe essere accolta soltanto nel caso di contemporaneo disimpegno dall'incarico ricoperto.
Non si dimette la neo-ministra dell'Istruzione Fedeli, colpevole non di non avere conseguito la laurea, che non sempre è attestazione di preparazione, capacità e merito, bensì di avere mentito, indicando sul proprio curriculum tale titolo di studio. Non ci si può fidare di una donna delle istituzioni che altera la verità, che soffre di complessi di frustrazione.
Non si dimette l'ex governatore della Regione Lombardia Formigoni, condannato in primo grado per fatti corruttivi. L'attuale senatore, che ricopre tra l'altro un importante incarico parlamentare, e che si è sempre proclamato fervente cattolico, non teme affatto di affondare in una melma di menzogne e ipocrisia. La sua spavalda sfrontatezza non ne è stata per nulla intaccata.
Non si dimette la sindaca di Roma Raggi, esserino impreparato, inadeguato e incapace mandato allo sbaraglio da un movimento politico a sua volta manchevole, confuso e oscuro. La povera donna, che sembra non rendersi conto della propria penosa situazione, continua comunque a fare sfoggio della sua antipatica tracotanza, e ciò le impedisce di compiere il solo gesto che potrebbe ancora salvaguardare quel poco che rimane della sua dignità di persona: andarsene.
In verità, negli ultimi tempi, c'è stato un personaggio politico che è andato controcorrente. E naturalmente è stato massacrato, come sempre capita a chi ha il coraggio di distinguersi. Si tratta dell'ex Presidente del Consiglio Renzi. Al di là di simpatie o meno, e di probabili e facili accuse di partigianeria, rimane un fatto nudo e crudo: la sua poltrona è vuota. Anzi, è già occupata da altra persona. Renzi non ha rubato, non ha corrotto, non ha mentito, e proprio per questo avrebbe potuto rimanere incollato a quella sedia che con grande fatica, impegno e buona dose di discutibile spregiudicatezza, era riuscito a conquistare. Invece non lo ha fatto, se n'è andato semplicemente perché ha perso. Forse ci ritornerà, su quella poltrona, tuttavia dovrà rinnovare i suoi sforzi, sgobbare di nuovo. Renzi, in ogni caso, rappresenta un cattivo esempio per tutti quelli che invece non si dimettono mai.

domenica 18 dicembre 2016

PREFERENZA


Non illudetevi: non avrete mai la possibilità di esprimere il vostro voto di preferenza a favore di quel vostro vicino di casa onesto e rispettabile che fa il falegname, non potrete mai votare per quel bonaccione di vostro zio Nicola, oppure per il vostro simpatico cane Tommy. No, questo non si verificherà mai. Mai vi si presenterà l'occasione di votare in tale maniera, illusoria e soltanto in apparenza libera. Si discute molto sull'opportunità di reintrodurre il voto di preferenza sulla scheda elettorale. Si tratta di un dibattito molto acceso che, in realtà, non conduce a nulla se non a rafforzare e alimentare uno dei tanti falsi miti della democrazia: la preferenza. La scelta dei candidati è fatta dai partiti, organizzazioni indispensabili di intermediazione tra rappresentati e loro rappresentanti. Dei partiti, in un sistema politico davvero democratico, non se ne può fare a meno. Condizione essenziale, naturalmente, è che i partiti siano plurali. È indispensabile quindi che gli elettori si affidino ai partiti riguardo alla selezione della classe politica che li dovrà rappresentare. Quando l'elettore esprimerà il proprio voto alla lista prescelta, in quel voto dovrà essere implicito il giudizio sulla bontà o meno del processo di selezione attuato. Tra avere la possibilità di non esprimere alcuna preferenza (è il caso delle liste bloccate) oppure quella di poterne esprimere una (le preferenze multiple sono state bocciate anni fa da un referendum abrogativo, per ovvi motivi legati al loro favorire corruzione, clientele e voto di scambio) la differenza è minima, in ogni caso di scarso rilievo. Ciò che conta veramente è la qualità del processo di selezione della classe politica che, come detto, non può che essere operato dai partiti e sottoposto alla verifica degli elettori attraverso il voto. E, di conseguenza, occorre evitare derive minoritarie, fantasiose e anche pericolose comunque incompatibili con un sistema politico democratico, quali la scelta di candidati per mezzo della rete, opzione tanto cara a un certo movimento politico.
Non illudetevi: con il voto non potrete mai scegliere il vostro vicino di casa, quell'amabile persona che continuerà a fare il falegname, mestiere in cui è tanto bravo. E neppure preferire il buon zio Nicola, che seguiterà a godersi la meritata pensione. Tanto meno toccherà al vostro amato cagnolino Tommy, perché cani in politica non ce ne sono, mentre purtroppo continueranno a esistere tanti politici cani, scelti o meno con il voto di preferenza.

domenica 11 dicembre 2016

IL MONUMENTO


I colpi alla porta, secchi e insistiti, interruppero il suo sonno. Il campanello, cazzo! Perché non usate il campanello? C'è proprio bisogno di fare un tale baccano? Si alzò a sedere sul letto mentre le mazzate sull'uscio continuavano. Si accorse di avere come un cerchio alla testa, reso ancora più tormentoso dal fracasso. Scese dal letto a fatica e indossò una pesante giacca da camera. Faceva freddo e fuori era ancora buio. Accese la luce e guardò l'ora: erano le cinque del mattino. Si passò le mani sugli occhi cisposi, poi si lisciò all'indietro i capelli grigi e ribelli. Scalzo, un po' claudicante, andò nell'ingresso. Risuonò una voce imperiosa.
"Aprite! Polizia federale! Aprite subito altrimenti..."
Aprì di scatto la porta.
"Altrimenti sfondiamo la porta" disse. Si trovò davanti due uomini in completo scuro, uno alto e magro, l'altro basso e tarchiato. I due fecero irruzione in casa, quasi lo travolsero. Poi lo afferrarono e lo guidarono verso una poltrona. Non oppose alcuna resistenza. D'altra parte, che cosa poteva fare un anziano scultore di fronte a quei due indemoniati energumeni?
"Non cambiate mai" disse, mentre i poliziotti lo costringevano a sedere.
"Stia zitto" gli intimò lo spilungone. Poi estrasse dalla giacca un foglio spiegazzato.
"Signor McGregor, abbiamo un mandato di perquisizione" aggiunse, quindi fece un cenno al compare, che si rimboccò le maniche svelando avambracci pelosi e grossi quanto cosce.
Lo scultore alzò un braccio.
"Aspettate" intimò, con voce ferma. I due si bloccarono.
"Le abbiamo detto di stare zitto" disse il perticone. McGregor lo ignorò.
"Voglio soltanto aiutarvi, evitare di farvi perdere tempo".
L'altro sospirò.
"Dica".
"Andate nel mio studio. Sulla scrivania troverete ciò che state cercando".
Il bassotto trottò verso lo studio. Fu subito di ritorno. In mano aveva alcuni fogli, una piccola pila di volantini. Ne porse uno allo stangone.
"È arabo" esclamò dopo averlo scorso.
McGregor sorrise.
"Vuol dire che non ne capisce il senso oppure che è scritto in lingua araba?" domandò.
Per tutta risposta il poliziotto gli afferrò i lembi della vestaglia e lo strattonò.
"Non faccia il furbo, McGregor! Che cosa c'è scritto su questi pezzi di carta?"
Lo scultore di divincolò dalla stretta. Riappoggiò la schiena alla poltrona.
"C'è scritto proprio ciò che pensate voi" disse.
"Ce lo dica lei".
"Si tratta di materiale di propaganda a favore della jihad"disse lo scultore.
"La nostra segnalazione parlava proprio di questo. Lei è un terrorista, McGregor?"
Il vecchio scoppiò a ridere.
"Guardatemi, vi sembro forse un terrorista? Se non mi aiuterete voi credo che non riuscirò mai a sollevarmi da questa poltrona".
"Dovremo comunque perquisire il suo appartamento" disse il lungo.
"Certo, ma con calma. In ogni caso non troverete altro".
"Con quali modalità lo stabiliremo noi. Il fatto è che lei è nei guai, signor McGregor. Come ha avuto questi volantini?"
"Non ricordo. Me li ha dati qualcuno tempo fa. Un amico, credo" rispose lo scultore.
"Un anno fa lei è stato in Medio Oriente. Siria, Irak e altri paesi dell'area. Che cosa ci è andato a fare?"
"Oh, io viaggio molto. Anzi, lo facevo. Attualmente le mie condizioni fisiche non me lo permettono più".
"Lei è in arresto, McGregor" aggiunse il magro.
Lo scultore alzò le spalle. Sembrava indifferente alla sua sorte.
Il tarchiato si avvicinò al vecchio. Gli puntò contro l'enorme indice.
"Lei è un pervertito! Un depravato! Un pedofilo!" Urlò sputando saliva ovunque. Fino a quel momento non aveva ancora parlato.
"Calmati, Tom" lo rimproverò il compagno.
L'altro non desistette.
"È un degenerato!"
Lo scultore scosse il capo.
"Posso conoscere le ragioni di tale livore, signor poliziotto?"
L'altro proseguì a parlare e a sputare, sempre gridando.
"Lei sa bene a ciò che mi riferisco. A quella sua dannata scultura! Il monumento!"
McGregor strizzò gli occhi miopi.
"Il monumento alla gioventù? Ma il monumento non è ancora stato inaugurato! Lo sarà tra tre giorni, e finora nessuno lo ha ancora visto, tranne il sottoscritto e, in via del tutto riservata, il presidente".
"Noi abbiamo visto i bozzetti".
"Che cosa?"
"Noi sappiamo tutto e vediamo tutto" disse il giraffone. "Il nostro compito è quello di proteggere i cittadini, e lo possiamo eseguire soltanto conoscendo tutto".
McGregor si finse offeso.
"Ditemi, allora" disse, rivolgendosi in particolar modo al tracagnotto. "Anche il mio e vostro presidente è un depravato? Lui ha approvato il mio lavoro. Fra tre giorni, all'inaugurazione, lui sarà seduto in prima fila, accanto a me!"
Il lungo si chinò e avvicinò il volto a quello dello scultore. Parlò a bassa voce, scandendo bene le parole.
"Noi siamo al servizio del presidente, non lo giudichiamo. Inoltre le rammento che lei non parteciperà all'inaugurazione. Lei sarà in galera e, me lo lasci dire, mi auguro che ci rimarrà a lungo".
McGregor fu profondamente colpito da quell'affermazione quasi sussurrata. Il suo viso, di colpo, sembrò subire una trasformazione. Divenne di colore grigio, le rughe si accentuarono, i suoi occhi diventarono acquosi.
Quell'uomo aveva ragione. Non avrebbe partecipato all'inaugurazione del monumento. Non sarebbe stato presente quando la grande scultura sarebbe esplosa, quando il potente ordigno collocato al suo interno e collegato a un dispositivo a tempo sarebbe deflagrato investendo tutte le personalità presenti, compreso il presidente, e avrebbe fatto scempio dei loro corpi. No, lui non ci sarebbe stato, sarebbe stato in prigione, da dove i suoi avvocati lo avrebbero prima o poi tirato fuori, ma non abbastanza in fretta. Il suo martirio non sarebbe avvenuto. Era rimandato, o forse non ci sarebbe stato mai più.

domenica 20 novembre 2016

TIRI IN PORTA

E arriva il momento in cui tutti, uno dopo l'altro, se ne vanno. Perché la serata di svago è giunta al termine, perché fa freddo, perché ci sono degli impegni familiari inderogabili, perché la vita è complicata. E tu rischi di rimanere lì da solo, in mezzo a quel campetto di periferia, coperto di sudore, se non fosse per il tuo amico Giorgio, che ha compreso la tua difficoltà e decide di tenerti compagnia ancora un po'.
"Facciamo ancora qualche tiro in porta" propone, e tu acconsenti con gioia. Poi lui si piazza tra i pali.
Tu cominci a tirare, a destra, a sinistra, sotto e oltre la traversa, rasoterra, al volo, e di esterno e di interno e di collo pieno, cercando di sorprendere Giorgio che a volte si butta e altre rimane impassibile a guardare il pallone che gonfia la rete.
E mentre calci con forza e sfoghi così tutta la tua apprensione, tutta la tua rabbia, pensi.
Pensi a quando la prossima estate tornerai in quella fattoria, quella dei genitori di tua moglie, da dove manchi da un paio d'anni, da quando tu e tu e lei vi siete lasciati. Ma adesso ci ritornerai perché, dopo tutti quei dissapori e quelle incomprensioni, quegli sfoghi e quelle parole dure scagliate, sussurrate e gridate, adesso state di nuovo insieme, vi siete riappacificati e vivete di nuovo sotto lo stesso tetto. E allora ti tocca tornare in quel posto che non ti è mai piaciuto molto, dove ti sei sentito sempre un po' un estraneo, una impalpabile presenza, un sopportato. E magari incontrerai il fratello di tua moglie, quello più anziano e molto serio, che ti accoglierà con un ironico sorriso di circostanza, e ti dirà di fare attenzione, ti dirà di non appoggiare la giacca sulla panchina, ti dirà di non farlo perché la panchina è stata appena verniciata, e nei punti in cui la vernice non è stata stesa con la necessaria cura può essere ancora fresca, e ti potrebbe macchiare la giacca. Non vorrai mica macchiare la giacca, caro cognato? E di nuovo quel sorriso da faina, colmo di scherno e di derisione. E poi ti imbatterai in Nicola, l'altro fratello, quello giovane e simpatico che, nonostante tutto, ti accoglierà con un sorriso, circondato dai soliti amici e che ti inviterà a fare una passeggiata con loro. Ma tu rifiuterai, perché non sei pronto, perché non ne hai voglia, perché non vedi l'ora che tutto ciò finisca. E infine tua suocera, la tua anziana suocera, che ti squadrerà con severità dalla soglia di casa, che ti domanderà se stai bene, che non farà alcun cenno a ciò che è accaduto tra te e sua figlia, ma che ti ha già giudicato e condannato. Tu le chiederai di suo marito, perché non l'hai ancora visto e temi quell'incontro, temi l'imbarazzo, paventi il suo sguardo arcigno e intransigente, il suo silenzio.
"Adesso mettiti tu in porta" dice Giorgio, e ti riscuote dalle tue amare riflessioni.
"D'accordo, ma soltanto se tiri piano" rispondi. Ti accomodi tra i pali. E ricominci a pensare.
Pensi a Graziella. Pensi che non l'hai lasciata e che stai ancora con lei. E che tua moglie lo sa, anche se finge di non sapere. Ti ha ripreso con sé nonostante tutto, perché non voleva perdere, perché ti considera sua proprietà, e per questo è disposta a condividerti, l'importante è che tutto ciò avvenga nell'ombra. Ma Graziella soffre, è titubante, è piena di dubbi. Ogni giorno mette in discussione il vostro rapporto, quel rapporto così strano, e ti accusa di essere debole, di non essere in grado di decidere, minaccia di piantarti ma poi non lo fa mai. E tu sai che invece vuoi stare con lei, avevi già scelto di farlo ma poi sei ritornato sulla tua decisione anche se non ne conosci il vero motivo. Forse è perché sei davvero fragile, come afferma tua moglie, oppure perché non vuoi scontentare nessuno e invece scontenti tutti, e alla fine rendi la tua vita, e quella degli altri, un inferno.
E quando ti distrai un attimo e la pallonata scagliata con la consueta violenza da Giorgio, nonostante le raccomandazioni, ti colpisce in piena faccia dai tuoi occhi escono lacrime di dolore, un dolore che non è soltanto fisico, ma che esprime anche tutta la sofferenza dell'anima.

sabato 12 novembre 2016

FREEZER


Si svegliò tutto intirizzito. Guardò l'ora: erano le quattro del mattino. Decise di alzarsi per andare in bagno. Appena appoggiò i piedi a terra si rese conto che il pavimento era gelido. Rabbrividì. Entrare in bagno fu come entrare in un frigorifero. Urinò osservando con stupore il sottile strato di brina che si era formato sulle piastrelle. Azionò lo sciacquone ma non accadde nulla. Sollevò il coperchio del serbatoio: l'acqua era in parte gelata. Scosse il capo, poi andò a controllare la caldaia. Era accesa al minimo, anche se in apparenza non produceva alcun effetto. Alzò la temperatura al massimo.
Il giorno prima, alla radio, avevano detto che ci sarebbe stata una lieve diminuzione della temperatura. Si erano sbagliati, come accadeva spesso. La temperatura era precipitata. Le sue membra erano ormai completamente intorpidite per il freddo, quindi decise di tornare a letto. Prima di farlo aprì l'armadio, prese due pesanti coperte e le stese sul letto, poi si tuffò sotto le coltri, nella speranza di riuscire a riscaldarsi un po' e riprendere sonno. Non ci riuscì. Si assopì soltanto per brevi periodi, il sonno tormentato da sogni nauseanti. Quando finalmente crollò fu ridestato dall'insistente suono della sveglia.
Spalancò gli occhi, si massaggiò a lungo il naso, diventato quasi insensibile, poi si alzò. Indossò due paia di calze, e aggiunse un paio di spessi calzettoni da montagna. Indossò i pantaloni su quelli del pigiama, una camicia felpata, due maglioni e un giaccone. Infine i guanti e un berretto, ma continuava a sentire molto freddo. Andò in cucina, con l'intenzione di preparare una bevanda calda. Aprì la manopola del gas, ma non accadde nulla. Notò che anche la caldaia si era spenta. Allora scaldò un tazzone d'acqua nel forno a microonde e si preparò un caffè solubile. Lo bevve bollente. Il beneficio durò poco. Cercò di aprire la finestra ma non ci riuscì, la serratura era gelata. La riscaldò usando un accendino finché non riuscì a forzarne l'apertura. Scostò a fatica le imposte e guardò fuori. La strada era ricoperta da uno spesso strato di brina. Non c'erano automobili, non c'erano passanti. Richiuse la finestra e la sigillò usando degli strofinacci. Accese la radio: si sentiva soltanto un debole ronzio. Provò con la televisione e sullo schermo apparve la desolante scritta: nessun segnale. Il freddo aumentò ancora e iniziò a tremare. Decise di prepararsi un altro beverone caldo ma dal rubinetto non usciva più acqua. Cercò disperato una bottiglia di acqua minerale ma non la trovò. Si sedette al tavolo della cucina, la testa tra le mani. Poi si riscosse e afferrò il telefono. Digitò il numero dell'ufficio ma la linea era muta. In un accesso di rabbia scagliò a terra il telefono. Poi cercò di calmarsi. Si trattava di aspettare. Tra breve sarebbe sorto il sole, acqua e gas sarebbero state ripristinate. Trascorse quasi mezz'ora ma non accadde nulla. Anzi, il freddo aumentò ancora di più. Batteva i denti, le spalle erano rigide, non sentiva quasi più le gambe. Riacquistò un po' di lucidità. Tornò nella stanza da letto, prese una pesante sciarpa e se la avvolse intorno al viso. Tolse il piumone e lo drappeggiò attorno al corpo. Andò in salotto e si distese sul divano. Proprio in quel momento le luci si spensero. Chiuse gli occhi. Strano, pensò. A causa del freddo non era riuscito a dormire. Adesso che il freddo era notevolmente aumentato, aveva sonno. Quasi senza rendersene conto si assopì. E fu la sua ultima volta.
Le navi arrivarono il giorno dopo. Erano milioni di enormi vascelli, e oscurarono il cielo. Si posarono ovunque sul suolo ghiacciato. Iniziarono rapide le operazioni di stivatura.
Un essere mostruoso - oppure solamente diverso - si fa strada nell'ingresso di un palazzo. Sale le scale, dai gradini rivestiti di uno spesso strato di ghiaccio, e sfonda la porta di un appartamento. Vi si introduce, si guarda attorno. La cucina è vuota, e così la stanza da letto. In salotto una forma allungata, ricoperta di ghiaccio, è adagiata su un divano. L'essere la stacca dal giaciglio, la solleva senza alcuno sforzo e la passa a un compagno che nel frattempo lo ha raggiunto.
Al termine dell'operazione, che dovrà essere molto rapida, ci saranno scorte per non più sei mesi, riflette tra sé l'essere mostruoso o forse semplicemente diverso. Poi si dovrà ricominciare a cercare, pensa. E nel frattempo ci si dovrà nutrire solo di cibo congelato. Quanto sono odiosi, i cibi surgelati!

domenica 23 ottobre 2016

ALLO ZOO

La madre e il piccolo si recarono allo zoo. Appena oltrepassato il cancello, si resero conto che stava per iniziare una visita guidata.
"Sbrighiamoci" disse lei. "Sarà interessante ascoltare le spiegazioni".
Si affrettarono e si unirono al folto gruppo di visitatori.
La guida li condusse di fronte a un recinto, poi si fermò. Indicò loro uno strano animale. Il suo pelo era bruno-grigiastro sporco, maculato, aveva quattro zampe e un muso mostruoso, ghignante.
I piccoli, un po' spaventati, indietreggiarono.
"Non abbiate paura" disse la guida. "Si tratta di una bestia molto mansueta. Naturalmente è stata sottoposta al trattamento e tutta la ferocia che c'era in lei è scomparsa. State fermi, altrimenti potrebbe impaurirsi, e osservatela con attenzione. Non siamo riusciti a cambiare le sue abitudini alimentari un po' disgustose, e non ci abbiamo provato più di tanto, poiché temevamo di snaturarla troppo. Questo animale, chiamato iena, si ciba di carogne".
Si levarono dei gridolini eccitati, sia da parte dei piccoli che delle loro mamme.
"Venite, proseguiamo" li invitò la guida.
Il gruppo giunse di fronte a un altro recinto, più vasto rispetto al precedente. Al suo interno erano presenti alcuni esemplari di un grossi animali, anch'essi quadrupedi. Uno di loro si avvicinò ai visitatori e leccò la rete metallica. Anche questa volta i piccoli indietreggiarono allarmati. La guida sorrise e in tal modo li tranquillizzò. La bestia era davvero enorme. Aveva il pelo raso e una lunga coda alla cui estremità c'era un ciuffo di peli. Nulla in confronto all'ammasso di crini che gli circondavano il collo possente. Nella sua bocca si intravedevano delle temibili zanne dalla lunghezza smisurate.
"Questo è un leone" illustrò la guida. I piccoli erano rimasti a bocca aperta.
"In questo caso i risultati del trattamento sono stati strepitosi. Queste bestie sono diventate così docili che, se non fosse per la loro stazza, potrebbero vivere con noi, nelle nostre abitazioni, come animali da compagnia. In loro non è rimasta la minima traccia di ferocia. Guardate gli occhi di questo esemplare, osservate quanto siano colmi di bontà".
A fatica la guida riuscì a staccare i piccoli e i loro accompagnatori dal recinto dei leoni. Li condusse davanti a un altro spazio. La recinzione, in questo, era composta da sbarre dallo spessore impressionante e molto alte. All'interno della cinta c'era una piccola casetta.
"Dove sono gli animali?" domandò un piccolo.
"Questa è la zona degli umani" rispose la guida. "È difficile riuscire a scorgerli. Loro non amano i visitatori e preferiscono non farsi vedere. Escono dalla loro tana soprattutto di notte, quando il giardino zoologico è chiuso. Quelle bestie, in ogni caso, sono molto pericolose. Il nostro zoo ne ospita una coppia. Nel loro caso il trattamento ha funzionato solo in parte. Siamo riusciti a privare loro della enorme ferocia che le contraddistingueva, ma non ci siamo resi conto che..."
"Possiamo assistere al loro pasto?" domandò il solito piccolo un po' sfrontato, che si stava annoiando non potendo vedere quegli animali. La guida scosse il capo
"No. Queste bestie provvedono da sole a prepararsi i pasti, noi forniamo loro soltanto la materia prima. Pasti che consumano sempre all'interno della loro tana".
Il piccolo annuì, deluso.
Proprio in quel momento un guardiano accorse verso il gruppo di visitatori, gridando.
"Attenzione! Spostatevi! Raggiungete subito una zona sicura".
"Che cosa è successo?" domandò la guida. C'era apprensione nella sua voce.
"Sono scappati! Gli umani sono scappati, dovete allontanarvi subito".
Le madri strinsero i piccoli ai loro corpi poi, tutti insieme, si diressero verso la direzione dello zoo.
Il direttore guidava personalmente l'evacuazione dei visitatori. Sembrava molto preoccupato e teso.
"Uscite! Uscite!" urlava affannato.
Dopo pochi minuti fu raggiunto da alcuni giornalisti che, chissà come, erano già venuti a conoscenza di quel grave accadimento. Fu così costretto a rispondere alle loro domande.
"Com'è potuta accadere una cosa del genere?" chiesero quasi in coro.
"Non lo sappiamo ancora" rispose il direttore. "Le misure di sicurezza erano massime. In ogni caso non dovete preoccuparvi, quelle bestie non possono andare lontano, le cattureremo presto".
"Sono davvero così pericolosi?"
Il direttore annuì, serio.
"Purtroppo sì" si limitò a rispondere, grattandosi con un artiglio ricurvo la piccola proboscide purpurea.
"É vero che per loro il trattamento non ha funzionato?" domandò un altro giornalista.
"È vero soltanto in parte. Siamo riusciti a estirpare da loro tutta l'incredibile ferocia che possedevano, ma non abbiamo fatto i conti con un altro aspetto della loro complessa personalità. Il fatto è che sono diversi da tutti gli altri animali".
"Si spieghi meglio, i lettori devono sapere" lo aggredì un cronista.
"Quelle bestie non sono solo feroci, sono soprattutto crudeli, e contro la loro malvagità non abbiamo potuto fare nulla".
Dal nutrito gruppo di giornalisti si levò un mormorio di stupore e di sbigottimento.

domenica 16 ottobre 2016

IL PAPA STRANIERO


Ancora un'altra riunione di giunta con all'ordine del giorno sempre lo stesso punto, nonché unico: trovare un assessore al bilancio. Tutto il resto può aspettare.
"Perché si è dimesso?" domanda alla sindaca l'assessore all'urbanistica. "Avevi detto che era un tuo amico".
"Lo era, adesso non lo è più"risponde lei, indispettita come suo solito.
"Non lo poteva dire prima che non se la sentiva?"
"Ha voluto provare".
"Ma ha lasciato dopo ventiquattro ore!"
"Non gli sarà piaciuto l'ufficio, oppure la sedia non era abbastanza comoda" dice l'assessore alla viabilità.
La sindaca sbatte il pugno sul tavolo.
"Che botta, sindaca!" esclama sorpreso l'assessore alla cultura.
Lei sorride compiaciuta.
"È per via dell'anello" dice, e mostra a tutti un enorme anello al dito medio. "Lo uso anche per firmare".
"Non usi la penna?"
"Quale penna? Noi ci dobbiamo distinguere, noi siamo il nuovo che avanza. Adesso però basta perdere tempo".
La sindaca si rivolge al servile vicesindaco, seduto in silenzio alla sua destra.
"Tu! Prendi subito un altro curriculum!"
Il poveretto ubbidisce. Apre un cassetto, lo esplora a lungo con la mano, infine estrae un foglio sgualcito.
"È l'ultimo rimasto" dice con mestizia.
"Di già?" dice l'assessore all'arredo urbano.
"Leggilo e informaci" ordina perentoria la sindaca. Un sorrisetto antipatico le illumina il volto topesco.
Il vicesindaco scorre rapidamente le poche righe.
"Si tratta di una persona molto esperta" dice.
"In che senso?"
"È anziano".
"Qual è la sua attività attuale?"
"Non è una vera e propria attività, piuttosto un passatempo".
La sindaca, all'improvviso, schiaffeggia il suo vice.
"Ahi!"
"Leggi tutto, e sbrigati!"
"Romeo De Nardi, settantasette anni, ha lavorato per quarant'anni alle poste nel reparto smistamento. Da quando è in pensione si occupa dell'amministrazione del condominio in cui vive, dodici appartamenti in tutto compreso il suo. Si offre per fare l'assessore al bilancio, dice che una città, seppur grande, non è altro che un insieme di condomini. Questo è tutto".
"Mangialo" dice la sindaca.
"Eh?"
"Mangia quel foglio" ribadisce con un sibilo. L'altro esegue, masticando lentamente.
"Ho bisogno di proposte" dice la sindaca, rivolta ai componenti della giunta.
Prende la parola l'assessore alla viabilità.
"Cara sindaca, dobbiamo uscire..."
"Andiamo sul tetto?"
"Eh? No, niente tetto. Intendevo dire che dobbiamo uscire da questa difficoltà con un'idea originale. Avrei pensato a un papa straniero".
"Sarebbe?"
"Prenderemo il nostro assessore all'estero".
"Come nel calcio!" esclama con entusiasmo l'assessore ai servizi sociali.
"Prendiamo un brasiliano!"
"No, un argentino!"
"Meglio i tedeschi, sono più affidabili".
"Zitti tutti!" grida la sindaca. Poi si rivolge al proponente.
"Hai qualche idea precisa?"
"Sì. Ci sarebbe quel greco, Varoufakis. Pare sia uno in gamba, con le palle, ed è molto titolato".
"Ma è comunista!" dice l'assessore ai lavori pubblici.
"Però è molto affascinante" dice l'assessora all'ambiente, che interviene per la prima volta.
La sindaca la guarda.
"Che cosa vorresti dire?"
"Niente, che è bello".
"Dove li hai presi quei grossi braccialetti?"
"Questi? Al mercato delle pulci. Ti piacciono?"
"Sembrano delle manette".
L'assessora all'ambiente sbianca.
"Allora, non ce ne può fregare di meno che quel greco sia comunista. Noi non abbiamo alcun pregiudizio" riprende la sindaca. "Ricordatevi che noi siamo il nuovo che avanza. Piuttosto, quel Varouqualcosa è libero?"
"Altroché se è libero!" esclama con entusiasmo l'assessore alla viabilità. Da quando si è dimesso per contrasti con il suo capo di governo non ha più assunto alcun incarico".
La sindaca lo interrompe. La sua espressione è torva.
"Un capo di governo è come un sindaco?" domanda.
"Più o meno" risponde l'assessore stringendosi nelle spalle.
"E hai detto che si è dimesso?"
"Sì".
"Ne ho abbastanza di persone con le dimissioni facili!" sbraita la sindaca. "Bocciato!"
"Io non mi dimetterei mai" dice con voce soave l'assessora all'ambiente.
"Ti toccherà farlo quando andrai in galera!" la gela la sindaca. L'altra assume un broncio offeso.
"Ascoltatemi tutti" richiama l'attenzione si di sé l'assessore all'urbanistica. "Mi piace l'idea del papa straniero. La mia proposta vi strabilierà. Perché non cerchiamo di convincere Barack Obama?"
"Obama?" ripetono in coro tutti i componenti della giunta. La sindaca è rimasta a bocca aperta. L'assessore all'urbanistica ne approfitta per proseguire.
"Riflettete bene: il presidente Obama tra poco tempo sarà libero da qualsiasi impegno. Per un uomo che ha governato il più grande stato al mondo sarà un giochetto fare quadrare i conti del nostro comune. E poi si tratta di una personalità di grande prestigio, inattaccabile sotto qualsiasi punto di vista".
"Chiederà un sacco di soldi! Noi abbiamo le casse le vuote" dice preoccupato l'assessore all'arredo urbano.
"Figurati! Stiamo parlando di un prossimo disoccupato. Quando si cerca un lavoro non si guarda troppo per il sottile. Deve sfamare la famiglia pure lui. E poi, potremmo sempre pagarlo... in nero!"
Qualcuno ride.
"Bene" dice la sindaca. L'idea mi piace. É forte e spregiudicata, degna di un movimento che rappresenta il nuovo che avanza. Chi si incarica di contattare il presidente Obama?"
Gli assessori si guardano a lungo prima di rispondere.
"Io non parlo l'inglese".
"Neppure io"
"Dove lo prendiamo il suo numero di telefono?"
"Per chiamare in America ci vuole il prefisso?"
"E se risponde la moglie?"
Altra manata sul tavolo. Tutti zitti.
"Basta così! Sono stanca, voi incapaci mi farete invecchiare prima del tempo".
"Ha parlato il genio" sussurra l'assessore ai servizi sociali.
"Ho bisogno di rilassarmi" dice la sindaca. "Adesso vado sul tetto".

sabato 15 ottobre 2016

PRONTO?


Alle nove di sera squilla il cellulare. Guardo il display: numero sconosciuto. Le scelte possibili: non rispondere oppure rispondere affrontando il rischio di essere molestato da qualche operatore di call-center. Di solito prediligo la seconda opzione e stronco la chiamata sul nascere. Ma oggi, a differenza di sempre, mi sento in vena. Decido così di replicare trasformando la seccatura in divertimento. Leggera pressione del pollice sul tasto verde. Una voce femminile, ben impostata, con vago accento dell'Europa dell'est.
"Pronto? Sono Irina di Metrotel. Parlo con il signor Giulio?"
La blocco prima che inizi a snocciolare imperdibili offerte riguardo il contratto telefonico.
"Mi dispiace, il signor Giulio non c'è" dico con tono costernato.
"Oh! E quando lo potrei trovare?" domanda la ragazza.
Emetto un lungo sospiro nell'apparecchio.
"Il signor Giulio è mio fratello. È andato via".
"Quando torna? Quando posso parlare con lui?"
"Non le so dire quando torna. Lo vorrei sapere anch'io. Mio fratello è scappato".
"Scappato?"
"Proprio così. Ha abbandonato moglie e tre figli ed è sparito. Non ha portato con sé il telefono. Ho risposto sperando che fosse lui e che avesse finalmente deciso di farci avere sue notizie".
"Mi scusi..."
"Non si preoccupi. La moglie, mia cognata, è disperata. Sa, per i soldi. Chi porterà i soldi a casa? Cioè, non che mio fratello di soldi a casa ne portasse poi tanti. A lui piace giocare: poker, slot, scommesse, insomma tutte quelle cose lì. In pratica si è sempre mangiato tutti i suoi guadagni. Ma è pur sempre il capofamiglia, un padre affettuoso anche se non molto presente".
"Allora..."
"Aspetti. La faccenda più grave è che mio fratello è pure un gran puttaniere. Non lascia trascorrere una sera senza farsi un giretto al parco, quello vicino al fiume. Lo conosce? No, credo di no, perché lei starà chiamando dall'Ucraina o dalla Romania, come fa a conoscere il parco vicino al fiume? In ogni caso in quel posto non c'è che l'imbarazzo della scelta: bianche, nere, gialle, e alcune di loro credo siano sue connazionali. Senza offesa, naturalmente".
"Signore..."
"Un attimo, non ho ancora finito. Poco tempo fa Giulio si è preso una sbandata per una puttana brasiliana che ha incontrato proprio in quel lurido posto, quello che lei non conosce perché chiama dall'altro mondo. Io l'ho vista, quella. Era con mio fratello in un centro commerciale, di sicuro lei gli stava spillando gli ultimi soldi, soldi sottratti a quelle povere anime dei miei nipoti. Le ho già parlato dei miei nipoti? Sono tre, come le ho detto, e sono gli unici che ho. Sono un po' stronzi, perché ogni volta che mi vedono mi chiedono soldi, ma io gli voglio bene lo stesso. Il fatto è che tutti hanno preso dalla madre, quella baldracca di mia cognata, e in particolare hanno ereditato la sua perfidia. Oltre che la sua incredibile bruttezza".
"Va bene..."
"Va bene un cazzo. Aspetti, che ho quasi finito. Non sia impaziente, cerchi di comprendere il mio stato d'animo, e il mio dolore. Le stavo raccontando del centro commerciale. Io li ho visti, mano nella mano, mentre loro non hanno visto me. Mi sono nascosto dietro a uno scaffale e li ho osservati. Cioè, ho esaminato lei, perché mio fratello so com'é fatto. É una sventola, alta quasi venti centimetri più di quel tappo di Giulio. Capelli neri, lunghi e crespi. Labbra e tette rifatte e strafatte, due cosce che non finiscono più. Una meraviglia. Sono rimasto nel mio nascondiglio finché non si sono allontanati, però il giorno dopo ho telefonato a mio fratello, ho chiesto spiegazioni. Lui non si è scomposto più di tanto, si è solo raccomandato di non dire nulla alla moglie. Esortazione del tutto inutile perché io non parlo con quella cretina da più di dieci anni. Al termine della conversazione tuttavia Giulio mi ha detto una cosa che mi ha sconvolto".
"Eh? Che cosa?"
"Vede? Vede che si sta incuriosendo? Ah! Povero me! Sa che cosa mi ha detto Giulio? Davvero lo vuole sapere? E va bene, il disgraziato mi ha detto che quella stangona, quella donna stupenda... in realtà non è proprio una donna".
"Oh!"
"Parliamoci chiaro: quel puttanone ha tutte le cose a posto, e anche qualcosa in più. Il problema è proprio rappresentato da quel qualcosa in più. Insomma, ha il pisello. Si chiama Rodrigo ed è un transessuale. Un bel transessuale che non ha nessuna intenzione di privarsi dell'accessorio. Il giorno dopo il nostro colloquio, Giulio è sparito. La moglie e i figli sono convinti che prima o poi ritornerà, mentre io non sono dello stesso avviso".
"Ascolti..."
"No, ascolti me, piuttosto. E mi lasci finire. Io sono persuaso che mio fratello sia in Brasile, a spassarsela con il suo amico/amica carioca o paulista. Il mio convincimento si basa sull'ultima cosa che Giulio mi ha detto quel giorno, quando ci siamo sentiti al telefono. Mi rivelato un segreto, qualcosa che non ha mai confessato a nessuno, tanto meno ai suoi familiari. Mi ha detto che a lui le donne non sono mai piaciute, che lui è omosessuale!"
Click!
L'ucraina o romena che sia non ha retto all'ultima rivelazione e ha finalmente riattaccato. Guardo l'orologio. Le ho fatto perdere quasi venti minuti, senza che lei abbia potuto dire una sola parola, senza che abbia potuto parlare delle sue odiose offerte. Sono soddisfatto, e mi rilasso stendendomi sul divano. Poi, all'improvviso, sono colto da un senso di colpa. Penso che quella poveretta stava facendo il suo lavoro e che io mi sono fatto beffe di lei. Rifletto ancora un attimo, poi esplodo in una risata che fa tremare le pareti.


domenica 11 settembre 2016

PERDITA E ASSENZA


L'ultimo l'ho perso poco tempo fa.
Prima ce ne sono stati altri, e la faccenda è seria. Ci si chiede quando sia nata la consapevolezza dell'importanza di tale tipo di rapporti. Scavando nella memoria, il lampo di coscienza risale a un'età ormai lontana, quella infantile.
A. è seduto accanto a me, sul banco di scuola. Dapprima presenza estranea, quell'essere minuto e impiccione a poco a poco diventa cospetto familiare. Lo scambio di una matita, il prestito della gomma, un commento bisbigliato, elementi che avvicinano, che creano un legame. Da un giorno all'altro, dopo pochi mesi di conoscenza, A. scompare. La sua famiglia si trasferisce, lui non lo vedrò mai più. Non esistono ripieghi, la sensazione di perdita è grande, impossibile da colmare. Non c'è possibilità di sostituzione nell'immediato. Il tempo tuttavia lenisce il dolore, attenua la privazione, genera nuove opportunità. In alcuni casi la perdita si trasforma in assenza.
Con V. si instaura un vincolo di nuovo genere. Più adulto, più virile. Lottiamo, ci scontriamo a pugni su ring immaginari, sfidiamo il pericolo con spericolate corse in bicicletta. Esploriamo le vecchie case abbandonate e diroccate. Camminiamo interi pomeriggi tra i boschi, armati di coltello e di fionda e di piccoli machete, con i quali tagliamo spezziamo mozziamo rami e fronde, dominiamo quella giungla in miniatura. Diamo la caccia ai passeri, distruggiamo spietati le capanne delle bande rivali, che non vediamo l'ora di affrontare. Cosa che non avviene mai. V. non ama lo studio, lui preferisce i lavori manuali. La sua abilità è sorprendente, gli schiavisti della fabbrica non se lo lasciano sfuggire. Al termine di tante scorribande ci ritroviamo entrambi prigionieri, rinchiusi tra quattro pareti. Un muro. I muri dividono, i muri allontanano, i muri impediscono il contatto e lo scambio. I muri, alla fine, separano in maniera definitiva, per sempre.
Tra imprigionati, tuttavia, si finisce con il solidarizzare. Ci si guarda intorno, si cerca di individuare chi, tra tutti, appare più simile. Si ricercano le affinità, gli interessi comuni, le passioni condivise.
G. corrisponde a tutto questo, ma nel legame che si viene a creare è assente lo slancio. Si trascorre il tempo insieme, quasi tutto il tempo libero. Si studia, si scambiano facezie, si corre senza convinzione, e senza grande bravura, dietro a un pallone su prati che uno dopo l'altro, quasi fosse una magia, spariscono davanti ai nostri occhi per lasciare posto a scheletri di palazzi. Quando tali edifici saranno terminati, finirà anche il percorso comune con G. Mi rimarrà il suo ricordo, abbastanza piacevole, e nulla di più. Ognuno di noi due ha avuto, per un periodo della vita, bisogno dell'altro. Per crescere, per spartire le paure e le insicurezze dell'adolescenza. Adesso però è il momento di cambiare, tutto ciò che ci accomunava sembra essere scomparso. Una perdita che diventa assenza.
B., a differenza di tutti gli altri, c'è quasi sempre stato. Una presenza ingombrante, scomoda, sporca, che ha attraversato molte età. Ci univa lo sport, quello praticato, ma soprattutto l'amore per la musica e per la letteratura. Non soltanto i muri dividono, a separare gli individui provvede anche la distanza fisica. E così è stato per noi. Non una grande distanza, ma tale lontananza si è rivelata fatale, decisiva. Tutto ciò che era stato si è dapprima attenuato e poi spento. La perdita è dolorosa, ben più dell'assenza.
L'ultimo invece l'ho perso poco tempo fa. Ciò che è più recente è ciò che fa più soffrire. Non ne parlo, preferisco non farlo perché non sono ancora pronto, non c'è stato il tempo per la necessaria rielaborazione.
Sì, l'ultimo l'ho perso poco tempo fa, e adesso non ho più amici.

domenica 24 luglio 2016

IL CONTE


Il suo nome era Conte, ma noi fin da subito lo chiamammo il Conte. Era arrivato da noi con un incarico di tre mesi, nel quadro di un programma di reinserimento lavorativo per persone non più giovani che avevano perso l'occupazione. Lui diceva di avere cinquant'anni, ma noi pensavamo che ne avesse almeno dieci in più. Ne dimostrava settanta. Aveva un viso con guance paffute e il naso rosso, i pochi capelli rimasti, sempre in disordine e unti, gli contornavano i lati del cranio. Un grosso ventre cirrotico gli tendeva la camicia. Il Conte camminava con passetti brevi e veloci, scivolando sul pavimento senza alzare i piedi.
Ci raccontò che aveva lavorato tutta la vita sulle navi da crociera. Era un pianista. Aveva girato tutto il mondo, toccato tutti i porti. Aggiunse che negli ultimi anni, tuttavia, preferiva non scendere più dalla nave. Preferiva starsene da solo in cabina, oppure passeggiare per i ponti deserti, per godere di un po' di tranquillità, lontano dalla confusione che regnava durante i giorni di navigazione, quando la nave era come un immenso formicaio. In più poteva dedicarsi alle sue passioni, che in realtà era una sola: bere.
Il Conte ci disse che, al momento di stipulare un contratto di ingaggio, la sua preoccupazione era una soltanto. Non l'entità del compenso, del quale gli importava poco, ma l'inserimento della clausola che gli consentisse di avere bevande a volontà. In pratica era sempre ubriaco, sia quando dormiva sia quando rallegrava gli ospiti suonando il pianoforte. Ci confessò che di interi periodi della sua vita non si ricordava nulla. Alla fine, aggiunse, quel genere di esistenza gli era venuto a noia e aveva così deciso di non imbarcarsi più. Sospettammo che quella fosse una pietosa bugia. La verità era che, a causa dei suoi eccessi alcolici, non era più in grado di svolgere il suo lavoro. Notammo che le sue mani erano sempre percorse da un leggero tremito.
Il Conte non nominava mai nessun compositore o autore di musica. Non citava mai alcun brano musicale. Quando gli chiedevamo quali musiche eseguisse durante le lunghe serate sulla nave lui sorrideva, poi scrollava le spalle e diceva: musica da intrattenimento, pezzi romantici e roba simile.
Essendo un appassionato di pianoforte e tastiere, nonché esecutore dilettante, gli chiesi se fosse stato disposto a darmi qualche lezione. Pagando, naturalmente. Il Conte si indignò, si offese, poi mi disse che mi avrebbe impartito tutte le lezioni che desideravo, ma non voleva sentire parlare di compenso. Al più, gli avrei potuto offrire qualcosa da bere. Non se ne fece nulla. Non intendevo approfittare della sua generosità, né tanto meno alimentare il suo vizio.
Il Conte non era tagliato per il lavoro d'ufficio. Non imparò mai neppure a utilizzare la fotocopiatrice. Confondeva le pagine, inceppava di continuo la macchina, le sue fotocopie quasi sempre consistevano in un foglio bianco. Rinunciammo e ci accontentammo dei racconti delle sue avventure.
Il Conte, a suo dire, era stato un gran dongiovanni. Durante le crociere le occasioni di sicuro non mancavano: mogli annoiate, gruppi di amiche in cerca di trasgressioni, ragazzine che non vedevano l'ora di sfuggire al controllo dei genitori. Una vera pacchia. Ma quelli erano vecchi tempi. Al momento, il nostro amico doveva accontentarsi di amori mercenari. Ci raccontò, ammiccando, che una volta alla settimana si recava in un grande parco cittadino, a piedi perché non aveva la macchina, munito di una coperta. Sceglieva una ragazza, sempre nera perché erano le sue preferite, e con lei si appartava dietro a qualche cespuglio. Diavolo di un Conte.
Quando mancavano pochi giorni al termine del suo periodo di presunto lavoro, il Conte si ammalò. Cercammo di avere sue notizie, tentammo di rintracciarlo ma non sapevamo dove abitasse, e lui non aveva il telefono. Non lo vedemmo più.

giovedì 21 luglio 2016

LA SCOMPARSA - 6° E ULTIMA PUNTATA



Fuori la pioggia cade sempre più forte. Tra uno scroscio e l'altro, all'investigatore pare di sentire un suono familiare, quello dell'Inno alla gioia. Il cellulare!
"Capo, sono io". Frank Saturnio ha la voce ansimante.
"Che succede, Frank? Il becco ti ha beccato e ti sta prendendo a cornate?"
"Non scherzare, capo".
"So io se devo scherzare o no? Intesi?"
"D'accordo, capo. Mi ha chiamato il mio amico poliziotto".
"Ah! Che fanno le giacche azzurre?"
"Lo hanno trovato!"
"Che cosa?"
"Lo hanno ripescato dal canale. È morto, capo".
"Porca troia! Dov'è il corpo?"
"All'obitorio, capo. Che facciamo?"
"Passa a prendermi. Sono di fronte alla sede della Lega Nazionale".
"Non ho la macchina, capo".
"E come sei arrivato al lago?"
"Con gli autobus di linea. Ne ho dovuto prendere ben tre. Il primo partiva da..."
"Non farla troppo lunga, Frank. E il cervo?"
"Lui è venuto in auto. Sai, il suo è un macchinone grosso e nell'incidente di ieri non si è danneggiato troppo. Ha soltanto un'ammaccatura sul..."
"Rubala, Frank".
"Eh?"
"Fotti quella macchina del cazzo e raggiungimi al più presto".
"Si tratta di un furto, capo".
"Ma guarda! Sei un autentico intelligentone, Frank. Fai come ti ho detto e sbrigati!"
"E lui come farà a tornare a casa?"
"A casa è meglio se torna il più tardi possibile. Vero, Frank?" Tom Pozzo riattacca e cerca rifugio sotto la pensilina dei bus. Compone un numero.
"Tommaso!" risponde una voce debole e gracchiante. Il telefono si sta scaricando, oppure è mezzo affogato.
"Scusa se ti disturbo, Davide. Ho bisogno di te".
"Lo immagino".
"Eh?"
"Hai saputo?"
"Sì, Davide. Ho saputo".
"Ciò significa che sei implicato in questa brutta faccenda?"
"Lo stavo cercando su incarico di un cliente".
"Capito".
"Devo parlarti, Davide".
"Sai che non è possibile. Per adesso, almeno".
"Tra mezz'ora sono da te".
"No!"
"Davide, non ti ricordi il temperamatite?"
"Che cosa? Non ti sento bene".
"Non fare il furbo, Davide. Il temperamatite. Lo scordavi sempre a casa, e chi te lo prestava se non il sottoscritto? Per merito mio non sei mai stato punito. Allora?"
"Va bene, Tommaso. Ma la tua dovrà essere una visita molto breve. Tra qualche ora qui si scatenerà un autentico pandemonio".
"Ciao, Davide. A presto".
Tom Pozzo si sporge oltre la pensilina e osserva il cielo. È completamente buio nonostante sia ancora pomeriggio. Il detective ha i piedi immersi nell'acqua, i vestiti incollati al corpo, che è percorso da brividi di freddo. Guarda nervosamente l'orologio, più volte, impreca. Finalmente, in fondo alla via ormai tutto allagata che sembra un fiume, scorge un enorme SUV che avanza con difficoltà procedendo a zig-zag, come se fosse pilotato da un ubriaco impasticcato reduce da una nottata in discoteca.
Frank Saturnio vede il suo capo che si sta sbracciando e accosta al bordo del marciapiede sollevando un gigantesco spruzzo che investe il povero Tom Pozzo e altri due sventurati passanti. Imperturbabile, sempre più fradicio, l'investigatore si issa a bordo del veicolo.
"Scusa, capo" dice Frank Saturnio
"Frank, guidi come un cane. Veloce, all'obitorio".
I due ripartono di gran carriera fendendo l'acqua. I tergicristalli fanno fatica a spazzare il parabrezza.
"Più in fretta, Frank. Schiaccia quel pedale."
"Non ci vedo un cazzo, capo".
In qualche modo, assistiti dalla fortuna, i due investigatori raggiungono il piazzale dell'ospedale.
"Capo, se lo spengo poi non riparte più".
"Te lo vuoi portare a casa, Frank? Ti sei affezionato a questo bestione? Ti ricordo che è rubato, e lo hai rubato tu".
"Era una questione di vita o di morte. Vero, capo?" dice Saturnio, un po' mortificato.
"Più di morte che di vita, Frank" risponde Tom Pozzo, lugubre.
All'ingresso dell'ospedale trovano ad accoglierli il dottor Davide Fogli, anatomopatologo.
"Ciao Tommaso. Presto, venite".
Davide Fogli guida i due visitatori alla sala autoptica. Su un tavolo di acciaio, ricoperto da un telo azzurro, c'è un corpo.
"È lui?" chiede Tom Pozzo all'amico.
Il dottor Fogli annuisce.
Il detective si avvicina al cadavere, solleva un lembo del lenzuolo e poi subito lo riabbassa. Frank Saturnio preferisce rimanere in disparte, non ama molto quell'ambiente di morte.
"Qualcuno lo ha identificato?" domanda ancora Tom Pozzo.
"Sì" risponde il medico. "Lo ha fatto un noto politico". E poi ne pronuncia il nome.
"Il mio cliente. Che cosa puoi dirmi sulle circostanze della morte?"
Davide Fogli si stringe nelle spalle.
"Devo completare gli esami tossicologici".
"Davide..."
"D'accordo. Il corpo è rimasto poco in acqua e mi sento di escludere il suicidio."
"Lo hanno ammazzato! Come?"
Il medico scuote il capo.
"Non lo, Tommaso. Sembra quasi che sia stato ucciso un poco alla volta, giorno dopo giorno".
Tom Pozzo annuisce.
"È anche colpa nostra. Siamo tutti responsabili. Non abbiamo creduto in lui. E questa ne è la tragica conseguenza.".
"Hai ragione, Tommaso. Non ci abbiamo creduto fino in fondo. Ora dovete andare via, appena la notizia si diffonderà qui ci sarà il mondo intero".
Prima di uscire Frank Saturnio trova infine il coraggio di dare un'occhiata al corpo. Posa lo sguardo su un alluce del cadavere che sporge dal telo, al quale con uno spago è legato un cartoncino che ne indica le generalità: Sentimento Europeo.
Tom Pozzo e Frank Saturnio escono dall'ospedale, affranti e a capo chino.
Non piove più.  (FINE)