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martedì 8 dicembre 2015

ESSERE LIBERO


Il presidente Bertazzoni era seduto dietro l’imponente scrivania, con l’immancabile sigaro tra le labbra. Al suo fianco, in piedi, c’era il direttore sportivo Loschi.
“Accomodati, Furlan” biascicò Bertazzoni, sbuffando una nuvola di fumo.
Libero Furlan sistemò in qualche modo il lungo corpaccione sulla scomoda poltroncina.
“Sai perché ti abbiamo convocato, vero?” sibilò Loschi con la sua voce sottile.
Il calciatore annuì.
“Il contratto, dobbiamo parlare del contratto” disse il presidente.
Libero Furlan, all’inizio Anni Novanta, era rimasto uno dei pochi calciatori a non fare ricorso a un procuratore per essere rappresentato nei propri interessi. Li odiava, i procuratori, li considerava null’altro che squallide sanguisughe. Lui si riteneva perfettamente in grado di occuparsi delle proprie questioni economiche. Tutti i suoi compagni di squadra confermati avevano già provveduto a rinnovare il contratto per la futura stagione. Rimaneva soltanto da discutere la sua posizione, quella del capitano, della bandiera della squadra, del trascinatore che, nella stagione passata, aveva contribuito al grande risultato ottenuto, il secondo posto nel massimo campionato. Un successo incredibile, considerando che la società, fino a quel momento, aveva militato soprattutto nella serie cadetta e, le poche volte che aveva conquistato la promozione nella serie superiore, era subito retrocessa.
“Non siamo riusciti a cederti” disse Loschi, mentre il presidente distoglieva lo sguardo.
Furlan, per un attimo, rimase senza parole. Poi si riprese.
“Che cosa? Intendevate cedermi? Non mi avete detto nulla.”
“Se fossimo riusciti a trovare una buona sistemazione per te l’avremmo comunicato soltanto a cose fatte. Abbiamo pensato a qualcosa di prestigioso, di adatto a un atleta della tua levatura, della tua grande esperienza. Il fatto è che nessuno ti ha richiesto.”
“Per quale motivo non mi volevate più?” chiese Furlan, frastornato.
Bertazzoni sospirò a lungo prima di parlare.
“Rodrigo Macchi” disse. “Dice che non rientri nel suo progetto. In ogni caso, adesso che abbiamo deciso di tenerti, dovrà farsene una ragione e cercare di utilizzarti nel migliore dei modi. Cribbio! Comando ancora io, qua!” E sbatté un pugno sul tavolo. Loschi sobbalzò.
Rodrigo Macchi era il nuovo allenatore, appena ingaggiato. Quello vecchio, Salvatorelli, aveva deciso di ritirarsi, chiudendo in bellezza una lunghissima carriera. Aveva appena compiuto settantacinque anni, dei quali gli ultimi venti trascorsi alla guida della stessa squadra. Salvatorelli, persona serena e bonaria, per Furlan era stato come un secondo padre. La sua decisione di abbandonare lo aveva molto rattristato.
“Torniamo al contratto” disse infine il presidente. Prese la parola Loschi.
“In considerazione della tua età avremmo deciso di rinnovare il contratto per un solo anno, con un piccolo ritocco dell’ingaggio verso il basso. Cerca di essere ragionevole, Furlan, hai appena compiuto trentaquattro anni e la nostra intenzione è quella di investire sui giovani, così come vuole il nuovo allenatore. Allo stesso tempo non vogliamo rinunciare a te, convinti che hai ancora molto da dare alla squadra, al servizio della quale potrai mettere, come sempre, capacità ed esperienza.”
Loschi si asciugò la bocca con un fazzoletto.
Furlan scosse il capo spelacchiato. Aveva perso i capelli a causa dei troppi colpi di testa, amava dire scherzando. Un po’ però ci credeva davvero.
“Almeno due anni di contratto con un piccolo adeguamento verso l’alto” disse, risoluto.
Loschi allargò le braccia. A suo avviso si trattava di una richiesta del tutto irragionevole.
Il presidente Bertazzoni si riaccese il sigaro, che nel frattempo, come spesso gli succedeva, aveva lasciato spegnere.
“Forse possiamo trovare un accomodamento” disse. “Tenendo conto della tua grande ultima stagione to ti offro un anno di rinnovo con l’opzione per un secondo anno, a stipendio invariato.”
Loschi si esibì in una smorfia di contrarietà, mentre Furlan si alzò in piedi e strinse la mano al presidente, a suggello dell’accordo.
Libero Furlan, fresco di rinnovo, due giorni dopo conobbe il nuovo allenatore.
Rodrigo Macchi era un tipo bassotto, dalla pelata talmente lucida che pareva incerata. Indossava sempre occhiali a specchio e aveva la parlantina sciolta, contraddistinta da uno spiccato e quasi fastidioso accento romagnolo.
Furlan gli strinse la mano molliccia poi, da buon veneto, non gliela mandò a dire.
“Mister, ho saputo che non mi voleva”.
L’altro non si scompose per nulla. Anzi, sogghignò.
“È vero. Avrei preferito averti come avversario.”
“Perché?”
“Vedi, un calciatore con le tue caratteristiche non può rientrare nella mia concezione di calcio. Tu sei Libero di nome e anche di ruolo, e a me i liberi non piacciono, non li voglio, per me il ruolo che tu hai sempre ricoperto non esiste.” Sorrise soddisfatto.
“Non giocherò?” domandò Furlan, che già si stava irritando ma che si sforzava di rimanere calmo. Quel tappetto era proprio antipatico e pieno di boria come gli era stato descritto da molti.
“Come ho promesso al cavalier Bertazzoni cercherò, in qualche maniera, di utilizzarti. Tuttavia tu dovrai snaturarti, cambiare completamente modo di giocare, altrimenti con me non avrai spazio.”
“Non farò più il libero?” chiese ingenuamente Bertazzoni. Una squadra senza libero, per lui, era come una messa senza il prete.
Rodrigo Macchi si lanciò in uno degli sproloqui per i quali era ben conosciuto e che rappresentavano la gioia dei giornalisti sportivi.
“I ruoli, nelle mia squadre, sono indefiniti e ininfluenti. Tutti attaccano e tutti difendono…” Si bloccò.
“A proposito, nei quindici campionati che hai disputato, quanti gol hai segnato?”
“Due, entrambi di testa” rispose prontamente Furlan. Era molto orgoglioso di quelle due reti. Segnate da un libero!
“Visto? Questo rafforza ancora di più le mie certezze. Sei antico, preistorico.”
“La devono buttare dentro quelli che stanno davanti, mica quelli dietro!” disse Furlan.
“Lasciami continuare, per favore. I difensori, vale a dire quelli che, indipendentemente dal ruolo inizialmente occupato, si trovano in posizione più arretrata nel momento in cui la compagine avversaria contrattacca, devono rimanere perfettamente allineati, pronti a far scattare la trappola del fuorigioco.”
Macchi prese fiato e Furlan ne approfittò per inserirsi.
“Trappola? Si gioca a pallone, mica alle imboscate!”
Il mister non gli badò.
“Un calciatore, come fa il libero, che ciondola dinnanzi al portiere, impedisce di attuare tale strategia. Insomma, giocare con il libero è come giocare in dieci. Inoltre, anche da un punto di vista etico, il ruolo di libero è un ruolo scorretto, negativo. Il libero è anarchico, perché non segue i movimenti della squadra, è individualista, perché opera da solo, ed è una specie di parassita, anzi un avvoltoio che vive sulle disgrazie dei compagni, che si nutre dei loro errori, che si mette in luce a scapito di altri. Per me, invece, esiste soltanto il collettivo. Tutti sono uguali, tutti sono intercambiabili, tutti sono sostituibili e facilmente rimpiazzabili.”
Furlan notò con disgusto che agli angoli delle labbra di Macchi si era accumulata un po’ di bavetta bianca. Collettivo? Tutti uguali? Questo sarà comunista, pensò, lui che aveva sempre votato per la Democrazia Cristiana.
Rodrigo Macchi lo scrutava, le mani sui fianchi, proprio come il duce. Accidenti, ma questo era rosso o era nero? Libero Furlan prese la sua decisione. Estrasse dal borsone le scarpette e andò a gettarle in un cestino di rifiuti. Poi si avvicinò al mister, che ora sembrava stupito.
“Come dice lei, continuerò a essere Libero di nome, non più libero di ruolo, ma sempre libero di condizione!” gli urlò in faccia. Qualche goccia di saliva finì sui lucidi occhiali a specchio del mister.


domenica 6 dicembre 2015

OCCASIONI PERDUTE


Il sole sta per congiungersi con l’orizzonte. Il suoi ultimi stanchi bagliori donano alla superficie dell’acqua un colore grigio brillante con lievi riflessi dorati.
E lei è là, in mezzo alle sue amiche, nell’atrio della scuola. I miei occhi fissano il suo caschetto di capelli neri, il suo viso pallido, le gambe inguainate nei jeans, l’avambraccio nudo, ricoperto da invisibile peluria, che sorregge il pugno di libri legati con una cinghia rossa.
“E quella ragazza sarebbe bella? Lo hai visto il naso? Guardalo bene, ha una gobba” dice il vecchio, che però non esiste.
Gli occhi di Antonella sono scuri, sul suo nasino un po’ schiacciato è presente una minima gibbosità, che non mi disturba affatto. Anzi, questo suo piccolo difetto la rende ancora più bella. La perfezione assoluta non mi attira, mi annoia.
“E così hai deciso di fartela piacere per forza, vero? Sei proprio uno stupido. Ma poi, mi domando, a che serve tutto ciò, tutta questa costruzione mentale, se lei non ti guarda neppure? Dai retta a me, scegline un’altra, che sia bella sul serio, e sbavaci dietro. Tanto, è la stessa cosa”. Ancora il vecchio, che in realtà non esiste.
Mi avvicino al gruppo di ragazze, intente a confabulare tra loro, a ridere e scherzare. La più seria tra tutte è proprio lei, Antonella. La guardo, lei ricambia per un istante la mia occhiata. I suoi occhi brillano. Ancora un passo, soltanto uno. Lo faccio, ma nell’altra direzione.
“Coglione! Sei un povero coglione. Ormai era quasi fatta, qualsiasi cosa avresti detto la bruttona sarebbe caduta ai tuoi piedi. Non aspettava altro. D’altra parte, chi la vuole una come quella? Accidenti quanto è bassa!” Taci, vecchio, che tanto non esisti.
Sfilo la scarpa destra. In superficie la sabbia è ancora tiepida. Sotto, è umida.
Lui dorme sul ciglio della strada. La coperta tirata sul capo, per difendersi dal freddo, per proteggersi dagli sguardi pietosi, che fanno male. Al mattino, quando il suo spirito si risveglia, il corpo intirizzito fatica a rimettersi in moto. Il letto viene rifatto, le coperte sudicie vengono lisciate con cura, i pochi oggetti, uno zaino logoro, un bicchiere di plastica, una bottiglietta d’acqua, vengono allineati accanto al misero giaciglio.
“Tu racconti balle. Non dorme sul bordo della strada, ma sotto il portico, al riparo delle grandi colonne. Ti piace esagerare, adori costruire uno scenario più tragico di come sia in realtà? Quel miserabile è felice, è libero. Oppure quella visione quotidiana rimorde la tua delicata coscienza? Vuoi donargli qualche monetina? Fallo! Vorresti per caso prendere il suo posto? Accomodati!” Queste le parole del vecchio, e non esiste.
A volte mi chiedo se riuscirei a condurre una vita simile. Mangiare quando capita, aspettare paziente gli spiccioli di elemosina, dormire la notte quando il termometro scende sotto lo zero, e il gelo poco alla volta ti afferra e ti strapazza, ti annienta. Mi chiedo quali sarebbero i miei sogni. Morirei. Non voglio morire, voglio continuare a essere un vigliacco, voglio detestarmi, e tiro dritto.
“Hai visto? Non avevo forse ragione?” il vecchio, che non esiste.
È nuda, o quasi. Mi guarda. Mi sfida. Sollevo il frustino e inizio a percuoterla, con colpi deboli. Le frange di cuoio colpiscono la sua pelle con sempre minore forza, pelle che nemmeno si arrossa. Lei è delusa, lo sento, ma non dice nulla. Tacitamente mi invita a riprovare, cerca di incoraggiare la mia inettitudine, allo stesso tempo è sconcertata dalla mia mollezza. Ma il mio braccio è rigido, pesante, faccio fatica a sollevarlo, lo contrasto quando ricade.
“Frustala! Colpisci! Falle male! È quello che vuole, no? Ti chiede soltanto di batterla, di causarle dolore. È questo ciò che le piace, quello che si aspetta da te” dice il vecchio, che non esiste.
Rivoli di sudore freddo rigano la mia fronte. Ho la nausea. È inutile, ho paura di farle del male, abbandono il frustino.
“Dovevi insistere! Ancora qualche colpo ben assestato e avresti scatenato il piacere. Sei un incapace, non osi mai.” Zitto, vecchio, se non esisti.
Tolgo la scarpa sinistra, affondo entrambi i piedi nella sabbia. Sento fresco.
Parole, nel corso della mia vita di parole ne ho pronunciate tante. C’è chi dice, al contrario, che siano state poche. Io ritengo siano state troppe.
“Non è una questione di quantità ma di qualità. Ma, soprattutto, è una questione di opportunità” dice il vecchio, con voce finalmente tranquilla, anche se non esiste.
Sono d’accordo, ciò che importa è il contesto e, soprattutto, sapere scegliere il momento giusto. Quasi mai si riesce a farlo, e si fallisce di continuo. Finché si arriva al momento in cui le parole non sono più necessarie, non servono più. Perché tutte le occasioni sono perdute.
“Bravo, vai adesso” dice il vecchio, che pur non esiste.
Mi incammino verso il mare. Entro in acqua, che ormai è una immensa distesa scura. Chissà fino a dove riuscirò ad arrivare. E il vecchio non c’è più. Non c’è mai stato. Non esiste.