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domenica 25 ottobre 2015

IO E ME


Avevo giurato a me stesso che non sarebbe mai accaduto. Invece, proprio alla soglia dei settant’anni, è capitato. L’altra sera ero seduto in poltrona, di fronte al televisore, e stavo seguendo il telegiornale. Quando è stato trasmesso il solito servizio che prevede la sfilata dei politici, prima quelli della maggioranza, poi quelli dell’opposizione, intenti a pronunciare le trite due battute utili soltanto per mettersi in mostra, ho sbottato.
“Basta! Smettetela di prenderci in giro!”
Poi mi sono voltato, prima da una parte e poi dall’altra, per cogliere le reazioni alla mia decisa affermazione. Niente, e non poteva essere altrimenti. Allora ho cambiato canale, dove stavano intervistando una famosa attrice, per la quale ho sempre avuto un debole. Non più giovane, però con ancora due gambe fenomenali, che stava mettendo in mostra.
“Però!” Ho detto, appagato da quella piacevole visione.
Da quel momento è stata una deriva. Non riesco più a frenarmi, non riesco più a fermarmi.
Stamattina, come sempre da quando sono in pensione, mi sono alzato presto. Erano da poco passate le sei.
“Adesso ci facciamo una bella colazione e dopo ci mettiamo in moto!”
E poi: “Buoni questi biscotti!”
Ancora: “Diamoci da fare, laviamo tutto per bene e poi andiamo finalmente a vestirci. Dobbiamo uscire!”
Ciò che mi dà soprattutto fastidio, al di là della cosa in sé, è l’enfasi di queste mie frasi. Quel punto esclamativo che sempre le conclude. Eppure non riesco proprio a farne a meno, non ce la faccio a pronunciarle in un altro modo. È assolutamente indispensabile che siano perentorie.
Ho sempre guardato con compatimento chi sapevo fosse affetto da quella afflizione che adesso è pure la mia. Non ho mai compreso come ci si potesse ridurre a quel modo. E, mi rendo conto adesso, io di questi individui vedevo solo la facciata pubblica, quella più irrilevante, minima, perché quando si è in presenza di altre persone ci si trattiene, si fa di tutto per evitare di essere commiserati, di essere additati come soggetti un po’ tocchi. Eppure non credo che nella mia mente alberghi l’insania, sono convinto di essere tuttora un uomo equilibrato. Quando sono per strada, infatti, taccio. Oppure parlo soltanto quando è necessario. Ma, appena mi ritrovo da solo, ecco che riemerge l’affezione, se così la si può definire.
“Ahhh! Sono tornato a casa! Ora ci prepariamo una bella cenetta!”
“Buono questo formaggio!”
“Basta. Basta con il pane! Non esageriamo!” E via di questo passo.
Come: “Su, alziamoci da questo divano, è ora di andare a dormire!”
“La finestra! Chiudiamo ‘sta finestra, cribbio!”
Avevo giurato a me stesso che non sarebbe mai accaduto. Invece, proprio adesso che mi appresto a essere vecchio, è successo. E so che non smetterò più, perché in fondo mi piace. Sì, mi piace parlare da solo ad alta voce.


LA CASA ABBANDONATA


“Dici che verranno?” domando a Giuseppe.
“Certo. Le donne sono curiose” risponde il mio amico.
Sospiro, poi appoggio la mano sulla cintura, alla quale è appesa la fondina che contiene il pugnale. Giuseppe ha con sé una grossa roncola, agganciata per l’uncino del manico a un passante dei calzoni.
“Non era meglio se portavi il coltello a serramanico?” gli dico.
Lui scuote il testone.
“Naa… mi sento più sicuro con questa.”
“Non è che vuoi metterti in mostra?”
“Eh? Io? Ma che dici?”
“Vai a vedere se arrivano” dico.
Giuseppe fa qualche passo, fin dopo la curva, con il falcetto che gli sbatte sulla coscia, poi torna indietro.
“Ci siamo, biciclette in vista. Te l’avevo detto che sarebbero venute” dice. Nella sua voce colgo l’emozione. La stessa che provo anch’io.
Tutto era accaduto poco più di tre ore prima, quando eravamo ancora a scuola.
“Perché non glielo chiediamo?” mi aveva bisbigliato Giuseppe indicando Simonetta e Rosa. Anche loro stavano confabulando tra loro, ignorando come tutti il povero don Aldo, impegnato in una fumosa illustrazione del concetto di carità cristiana.
“Chiedilo tu” avevo risposto. “Ce l’hai la lingua”.
“Ma tu sai parlare meglio” aveva ribattuto il vigliacco. Avevo annuito.
Simonetta era seduta proprio nel banco davanti al mio. Durante le lezioni non guardavo quasi mai l’insegnante di turno, il mio sguardo era sempre fisso su quella massa di capelli neri e ricci. A volte allungavo una mano e li toccavo, senza che lei se ne accorgesse. In quei momenti provavo una grande eccitazione. Simonetta mi era piaciuta sin dalla prima volta che l’avevo vista, all’inizio della scuola media. Lei era una ragazza molto socievole, io tutto il contrario, dunque era stato molto difficile attirare la sua attenzione. Infatti non c’ero riuscito. In ogni caso mi ero fatto coraggio e l’avevo sfiorata sulla schiena. Simonetta si era voltata e io avevo provato un tuffo al cuore. Mi ero sporto sul banco e mi ero venuto a trovare vicino al suo viso, al suo naso perfetto, alle sue sopracciglia ben marcate, a quella boccuccia rossa e intrigante.
“Tu e Rosa verreste oggi pomeriggio alla casa abbandonata?” avevo chiesto, indicando con il mento Giuseppe. Poi ero arrossito. Lei non aveva risposto, si era morsicato il labbro inferiore e poi si era ricomposta. Il mio imbarazzo era stato grande. Quel bastardo di Giuseppe sogghignava. Non importa, l’avrebbe pagata cara! Lo sapevo, una come Simonetta non poteva essere interessata a noi. Era una donna, ormai, noi soltanto dei ragazzini. Si diceva che avesse un ragazzo, uno molto più grande, che girava con una grossa moto. Ma forse non era vero, era qualcosa che aveva detto lei stessa per darsi importanza. Mi piaceva pensare che fosse così.
All’uscita dalla scuola, però, avevo trovato Simonetta che mi aspettava, in compagnia di Rosa. Aspettava me!
“A che ora oggi pomeriggio?” aveva chiesto, a bassa voce.
Incredulo di ciò che stava accadendo non ero riuscito a rispondere, avevo soltanto alzato tre dita. Poi mi ero allontanato. Anzi, ero scappato, ed ero andato alla ricerca di Giuseppe, per avvisarlo.
Le ragazze scendono dalle biciclette. Sono accaldate, bellissime. Simonetta indossa una camicetta leggera e una gonna corta, color ruggine, dalla quale spuntano le lunghe gambe snelle fasciate da calze scure. Rosa invece ha le gambe nude, gambe corte ma ben tornite che conservano ancora la bronzea tinta estiva. Devo ammettere che pure Rosa è una bella ragazza, anche se Simonetta è di un’altra categoria, e capisco che a Giuseppe possa piacere, pure se lui non lo vuole ammettere.
“Perché portate quei cosi?” domanda Simonetta indicando roncola e pugnale.
“Non si sa mai” bofonchia Giuseppe.
“Può esserci qualcuno?” dice Rosa, indicando il rudere della casa abbandonata.
“Al massimo ci sono dei topi” dico io.
“Ahhh!” strilla lei.
“Paura?” dico.
“Macché! Però mi fanno schifo” dice lei facendo una smorfia.
“Mettiamo dentro le bici” suggerisco. “Così nessuno le vede”.
Entriamo tutti. Anche la recinzione della casa è in parte diroccata, sufficiente comunque a nasconderci alla vista di eventuali passanti. La casa abbandonata, in ogni caso, si trova in un luogo abbastanza isolato, e sulla strada acciottolata che le scorre davanti transitano a volte soltanto alcuni contadini con i loro rumorosi trattori.
Nel cortile interno le erbacce sono alte quasi un metro. Giuseppe inizia a sferzarle con la roncola, ne fa strage. Sfoga così la sua evidente agitazione.
“Smettila, che tanto c’è il sentiero” lo fermo. Noto che è tutto sudato e rosso in faccia.
Percorriamo in silenzio, in fila indiana, lo stretto viottolo. Simonetta mi cammina davanti. Osservo con grande interesse la sua vita stretta, l’ondeggiare dei fianchi, le caviglie sottili. Cammina un po’ a fatica sul terreno sconnesso a causa delle scarpe che hanno un piccolo tacco. Giungiamo di fronte alle rovine della casa.
“E adesso?” domanda Rosa. Un sottile velo di sudore le imperla il labbro superiore, dove noto una quasi invisibile peluria, decolorata. Chissà se quel sudore ha un sapore salato, penso, prima di essere colto da una breve vertigine.
“Si può entrare, anche se è pericoloso” sta dicendo Giuseppe. “Noi conosciamo una via sicura.”
“Ma è tutto crollato!” sbotta Simonetta.
“No, quella parte è ancora in piedi. Si può salire, anche se la scala non è molto stabile. Si può arrivare al primo piano e percorrerlo tutto, il pavimento ha ceduto in alcuni punti ma procedendo con cautela si può fare.” Noto con piacere che Giuseppe ha ritrovato la favella. È nel suo elemento, adesso. Al contrario, io sono assalito dal dubbio. Che ci facciamo qui?
“No!” Il rifiuto di Simonetta è categorico. “Io lì sopra non ci salgo”.
“Neppure io” dice Rosa.
Giuseppe si stringe nelle spalle ed entra nella casa. Guardo per un attimo le ragazze, con una espressione di scusa, poi lo seguo.
“Sei impazzito?” bisbiglio alla sua schiena. Lui comincia a salire sulla scala pericolante, senza rispondere. Quando lo raggiungo siamo già al primo piano. Sul pavimento si aprono dei buchi, qua e là, occorre molta prudenza oppure si finisce di sotto.
“Non vedi che a loro non interessa? Perché non le portiamo al parco?” dico, arrabbiato
“A fare che cosa?” dice lui.
Sbuffo.
“Dai, torniamo giù” dico toccandogli una spalla. Alla fine ubbidisce.
Quando siamo nel cortile vediamo che le biciclette non ci sono più. E neppure le ragazze.
“Se ne sono andate” dice Giuseppe. Sembra sinceramente sorpreso.
“Cosa credevi? Che stessero ad aspettare il ritorno dell’eroe?”
“Peggio per loro” dice.
“Peggio per noi, invece!” Sono davvero infuriato con il mio amico.
“Siamo troppo piccoli per loro” dice Giuseppe, un po’ mortificato.
“Non dire sciocchezze! Hanno la nostra stessa età!” ribatto.
“No, siamo troppo piccoli, ti dico. Non hai visto? Avevano il viso tutto truccato”.

sabato 17 ottobre 2015

L'UNICO BACIO



Entriamo in classe.
Rumore di banchi spostati, di zainetti buttati a terra senza alcun riguardo, brusio molesto.
Il professor Pezzana è in piedi davanti alla cattedra, i suoi occhi ci scrutano curiosi dietro le spesse lenti. Indossa il solito abito grigio, la camicia azzurra d’ordinanza e la cravatta rossiccia con qualche macchia di troppo. Solleva il mento, dal quale spunta una ridicola barbetta appuntita che non lo fa assomigliare né a D’Annunzio né tantomeno a Pirandello, come lui vorrebbe, ma soltanto a una stupida capra. Aspetta, per un tempo che pare interminabile, che ci sistemiamo, poi inizia a declamare con la sua voce nasale.
S’i’ fosse foco, arderei ‘l mondo;
 s’i’ fosse vento, lo tempestarei;
 s’i’ fosse acqua, i ’l’annegherei…
Che lagna. Roba vecchia, roba stantia, roba che annoia. Il capo mi crolla sul banco. Intendiamoci, io amo la poesia. Fatemi sentire versi di Federico Garcìa Lorca o di Dylan Thomas e il mio corpo sarà scosso da brividi. Cecco Angiolieri, al contrario, mi fa cagare.
Mentre il povero Pezzana si accanisce, del tutto inascoltato, con l’analisi del testo appena recitato, la mia distrazione diventa totale. Con lo sguardo cerco Luana. È seduta due banchi avanti, di lei scorgo soltanto i lunghi capelli lisci e neri. Pure lei è disattenta, sta parlando a bassa voce con Margherita. Chissà, forse stanno discorrendo di me. Questa mattina, quando ci siamo incontrati davanti alla scuola, io e Luana abbiamo appena scambiato un minimo cenno di saluto. Poi, quando stavo salendo i gradini, mi sono accorto che mi stava guardando, e che sorrideva. Un po’ imbarazzato ho ricambiato il sorriso.
Dopo ciò che è accaduto ieri tra noi mi sarei aspettato, da parte di entrambi ma in particolare da me, ben diverso comportamento. Avrei dovuto dirle qualcosa, soprattutto avrei dovuto dirle la verità.
Pezzana, dopo aver a lungo predicato nel deserto, decide di cambiare registro e di interrogare. Subito si presenta volontaria Valeria, miss Secchiona, rovinando così il divertimento al vecchio caprone. Lo confesso, in quattro anni di scuola non ho mai rivolto la parola alla mia compagna Valeria, una stangona che indossa sempre degli eleganti tailleur. Tailleur! Sembra mia nonna, che cosa potrei mai dire a una così? Preferisco ignorarla. Mentre Valeria sdottora su Petrarca cerco ancora Luana. Ha il viso rivolto alla finestra, lo sguardo spento. Oppure sognante? Non lo so, mi limito a scrutare il suo delicato profilo, mi soffermo sulle sue labbra socchiuse. Le sue labbra! Cristo, le devo proprio parlare, lei deve sapere, merita di sapere.
Ciò che è accaduto ieri ci ha traumatizzato. Non mi riferisco a quel che è successo tra me e Luana, bensì a quell’altro fatto, a quel fatto molto grave. Per mesi, per anni, ci siamo riempiti la bocca di espressioni sempre più dure, sempre più violente. Ne andavamo fieri, ne godevamo nel pronunciarle, finché non siamo stati messi di fronte all'autentica brutalità. A quel punto ci siamo resi conto di non essere attrezzati per affrontarla. Ci siamo sgonfiati, ne siamo rimasti sconvolti. Nessuno naturalmente lo ha ammesso, ma è sufficiente guardare i volti turbati angosciati impauriti dei miei compagni per comprendere che nulla sarà più come prima. Siamo stati ridimensionati, siamo stati ridotti a ciò che in effetti siamo, ragazzotti che a parole giocavano, ora non più, a fare i grandi.
Otto! Soddisfatta, compiaciuta e ancora più stronza, Valeria torna al suo posto. Interrogazione perfetta, come sempre. Mi auguro che adesso Pezzana chiami me. Sono del tutto impreparato perché ieri, agitato per la faccenda di Luana, frastornato per l’altra vicenda, ho trascorso il pomeriggio davanti al televisore passando da un telegiornale all’altro, meditando sulla mia misera condizione personale. Gli occhi incollati al video, nella retina immagini di sangue, proprio in quei momenti ho maturato la decisione di informare Luana. Lei deve sapere.
Invece lo sguardo caprino del professor Pezzana non si posa su nessuno. Nell’ultimo quarto d’ora spiegherò, dice con voce stanca, rassegnata. Intorno a me sento sospiri di sollievo. Tutti si rilassano. Luana si volta all’improvviso e mi fissa. I suoi occhi brillano, risplendono di una luce particolare, che dopo un po’ mi mette a disagio. Abbasso la testa, fingo di prendere appunti, incapace di sostenere quell’occhiata che esprime desiderio, sete d’amore.
Ieri, appena abbiamo appreso la notizia, siamo subito usciti dall’aula. Come automi ci siamo diretti nell’atrio, dove è sorta dal nulla un’assemblea spontanea alla quale, fatto unico e raro, hanno partecipato anche gli insegnanti. Toni concitati, a tratti rabbiosi. La rabbia vuota di chi si sente smarrito. Dopo ci è stato consentito di andare a casa, anche se nessuno ne aveva voglia. Sono passato attraverso diversi capannelli di compagni. Alcuni erano ancora infervorati, la maggior parte di loro aveva un atteggiamento mesto. Mi sono allontanato perché ho sentito il bisogno di stare solo. Ho raggiunto il retro della palestra, dove lascio la mia bicicletta. Lì ho incontrato Luana. Era immobile, vicino alla recinzione, le braccia strette al corpo, come se avesse freddo. Mi sono avvicinato a lei, le ho chiesto se andava tutto bene. Ha risposto con un cenno affermativo, con scarsa convinzione, però. Non so perché l’ho fatto, forse ero ancora sotto choc, ma l’ho abbracciata. Lei si è stretta a me con forza. L’ho guidata verso il muro della palestra, in un punto dove nessuno ci poteva scorgere. Ho sollevato le braccia dalla sue spalle e le ho afferrato il viso, l’ho indirizzato verso il mio. Immediatamente lei ha schiuso le labbra, alle quali ho appoggiato le mie, ho incollato le mie. Il bacio è stato lunghissimo, sembrava non dovesse finire mai. Io tenevo gli occhi aperti, i suoi erano socchiusi. Alla fine ci siamo separati, bisognosi d’aria. Luana ha sorriso, lo stesso sorriso di stamattina. Dovevi farlo prima, ha aggiunto con voce roca, sensuale, prima di andarsene. Attonito, ho slegato la bicicletta e sono tornato a casa.
Suona la campanella, Pezzana non riesce neppure a completare la parola che stava pronunciando. Un’intensa onda sonora lo travolge, gli scolpisce sul volto una smorfia triste, poi tutti si lanciano verso la porta dell’aula. Io esco per ultimo e trovo Luana che mi aspetta, sulla soglia. Ho un paio di minuti prima che la professoressa Sarti faccia il suo rumoroso ingresso in classe. Adesso o mai più. Glielo devo dire. Sì, glielo devo proprio dire, alla povera Luana, che io durante quel bacio, quell’unico bacio, non ho provato nulla. Che se quello stesso giorno, appena poche ore prima, non avessero rapito Aldo Moro io non l’avrei mai baciata.


domenica 11 ottobre 2015

NOBEL OBLIGE


Mancava meno di un mese alla data di assegnazione del Premio. Erano le sette del mattino, il famoso scrittore P.R. era già seduto al tavolo del suo studio, di fronte al computer. Quel mattino si era destato all’improvviso, in preda a una feroce ispirazione. Aveva riflettuto per giorni interi per cercare di trovare la soluzione di quel problema che tanto lo angustiava. Poi, all’improvviso, durante la notte si era svegliato e finalmente aveva ben chiaro in testa ciò che doveva fare. Rifletté ancora un attimo prima di decidersi a premere un tasto con il dito indice, l’unico che usava per scrivere. Sul video apparve una virgola. Ecco, finalmente si era sbloccato, la crisi creativa era finita. Soddisfatto, si portò le mani alla testa e si scompigliò i radi capelli bianchi massaggiando il cranio. Strinse a sé i lembi della elegante giacca da camera che indossava e ricominciò a pensare. La sua intensa meditazione fu quasi subito disturbata dal suono insistente del campanello. Dapprima lo ignorò poi, infastidito, si alzò e si avvicinò al video citofono. Scorse la brutta faccia di Smith, il suo agente. P.R. sospirò e aprì. Dopo pochi istanti Smith comparve sulla soglia. Appariva trafelato, doveva aver fatto le scale di corsa. L’agente entrò e, ansimante, si buttò su un divano. P.R. si accomodò di fronte a lui, su una poltrona.
“Ti chiedo scusa se ti disturbo a quest’ora, anche se vedo con piacere che eri già al lavoro” disse Smith.
“Lo ero finché tu non mi hai importunato con la tua visita” ribatté acido lo scrittore.
“Ti chiedo di nuovo scusa ma proprio non potevo aspettare” disse l’altro.
“Esiste anche il telefono”.
“Tu non rispondi mai”.
“Vero. Allora? Che cosa mi devi dire di tanto importante?”
“Ci sono novità. Grosse novità.”
“Il Premio?” domandò lo scrittore, che era stato colto da un lieve senso di ansia.
“Esatto. Questa volte, forse, è la volta buona.”
I lineamenti del volto rugoso di P.R. furono alterati da una smorfia.
“Forse?” riuscì a domandare con fatica.
“Ho avuto una soffiata dal mio amico all’Accademia. Sembra che siate rimasti in lizza soltanto tu e un altro. Lo stronzetto muso giallo e quell’imbecille di norvegese sono fuori.”
“Ah! E chi sarebbe invece quest’altro? Il mio unico rivale, insomma.”
“L’altra, per la verità.”
“L’altra? Vuoi dire che si tratta di una donna?”
“Esatto” confermò l’agente.
P.R. scosse il capo.
“All’Accademia si stanno rimbambendo. Lo dovrebbero sapere che scrivere è un impegno da uomini.”
“Sono perfettamente d’accordo.”
“Non ti ho chiesto se gradisci qualcosa da bere. Un bicchiere di latte?”
“Grazie, ma preferirei qualcosa di più forte.”
“Bene, più tardi ti farò un po’ di tè.”
Smith strabuzzò gli occhi.
“Grazie” disse infine, rassegnato e disgustato.
“Parlami di questa donna. Chi è?” chiese P.R.
“Bah, non la conosce quasi nessuno. Pare sia soprattutto una giornalista. Il nome non me lo ricordo, è pieno di consonanti.”
“Una giornalista? Per loro non c’è il Pulitzer? Perché deve rompere le palle proprio a me?”
“Non è americana.”
“Ah no? E di dov’è?”
“È bielorussa.”
“Russa, hai detto?”
“No, bielorussa.”
P.R. cominciò a innervosirsi.
“Mi stai prendendo per il culo? È russa oppure no?”
“Ti spiego. Dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica…”
“So benissimo che cosa era l’Unione Sovietica!” lo investì lo scrittore.
“Aspetta…”
P.R. ormai era un fiume in piena.
“Non me ne importa un cazzo dell’Unione Sovietica, della Russia o di altre menate simili! Dimmi piuttosto che cosa ha scritto di tanto importante questa stronza!”
“Stai calmo P., ti prego. In questo modo ti si alza la pressione. Questa bruttona, perché ti assicuro che è davvero orrenda, ha scritto nient’altro che alcuni reportage.”
“Vale a dire?”
“Il più conosciuto parla di Chernobyl.”
“Chernobyl! E chi sarebbe questo Chernobyl? Un uomo politico? Un calciatore?” P.R. si stava di nuovo irritando.
“No. Non ti ricordi? La centrale nucleare…”
“No! Non mi ricordo più un cazzo di niente! Sono anziano, ormai. Ma sono il più grande scrittore vivente, per Dio!”
“Hai ragione P., ma calmati o ti sentirai male.”
“Non me ne fotte niente di schiattare, l’importante è che prima mi assegnino il maledetto Premio!”
“Lo avrai, ne puoi essere certo. Sei il più grande.”
“E poi? Oltre che di questo Cernobyl, che cos’altro avrebbe scritto quella donna?”
“Ha scritto un libro sull’Afghanistan” disse Smith, cauto.
“Afghanistan? E cosa sarebbe? Una guida turistica? Che vergogna!”
“Non te la prendere P., l’Accademia si è fatta prendere la mano dalle solite manovre politiche. Sai, pare che questa giornalista sia stata perseguitata nel suo paese, è stata anche costretta, per un certo periodo, a rifugiarsi all’estero.”
“L’esilio sta diventando una moda, anche tra gli scrittori.”
“E sembra che non sia affatto simpatica pure a Putin” aggiunse Smith.
“Putin! Quello sciagurato! Saranno almeno trent’anni che non legge un libro.”
“Già, pare sia stato impegnato un tutt’altre faccende. In ogni caso non ti devi preoccupare, sono sicuro che questa sarà davvero la volta buona. Dovranno finalmente riconoscere il tuo immenso valore”.
“Non possono conferire il Premio a quella donna” disse P.R., con voce lamentosa. “Persino il vecchio dinamitardo si rivolterebbe nella tomba.”

È trascorso quasi un mese. Il famoso scrittore P.R. è seduto al tavolo del suo studio, a testa china sul computer. Piange. Ha appena sentito alla radio che il Premio è stato assegnato. E ancora una volta non è toccato a lui. Vorrebbe suicidarsi, ma non ne ha la forza. Rialza il busto, sgranchisce le vecchie ossa rese rigide dall’artrosi, e decide di riprendere a lavorare. Vuol dire che sarà per l’anno prossimo, pensa. Sì, ne è sicuro, il prossimo sarà l’anno buono. Pieno di rinnovate energie, cala il dito indice sulla tastiera, l’unico che usa per scrivere, e cancella una virgola.


sabato 10 ottobre 2015

STIVALICIDIO


Non erano mai stati i preferiti, tranne che in caso di bisogno, di assoluta necessità. Ciò avveniva quando pioveva. Di notte, quando sentivano cadere le prime gocce di pioggia, i due compari iniziavano a ridere, e ridevano fino a sganasciarsi. Anzi, fin quasi a scucirsi. Sapevano che l’indomani sarebbe toccato a loro, alla faccia di tutti gli altri che, in quel momento, stavano riposando all’interno delle loro scatole: quelli con il tacco alto, altissimo, quelli di pelle lucida e morbida, gli altri dal pelo delicato, che non dovevano assolutamente mai prendere acqua, pena la loro fine prematura.
Un giorno nel ripostiglio fu posata un’altra scatola, che odorava di nuovo. Destro e Sinistro si destarono di soprassalto.
“Ehi, è arrivato qualcuno” disse il primo.
“Ancora? Ma non finiscono mai!” rispose l’altro.
“Andiamo a dare un’occhiata”.
Cercando di non fare rumore, nel buio del piccolo sgabuzzino, i due sollevarono il coperchio della loro vecchia e consunta scatola e uscirono. Destro emise un fischio.
“Ma guarda! Roba di lusso!” esclamò.
“Buon per noi” rispose il compagno. “Sarà il solito paio di fighetti.”
I due si avvicinarono di soppiatto all’elegante scatola. Con cautela sollevarono il coperchio da un angolo.
“Guardali” disse Sinistro, sogghignando. “Dormono come due angioletti”.
“Ti ricordi?” domandò l’altro.
“Che cosa?”
“Quando siamo arrivati noi, tanto tempo fa, dopo aver lasciato il negozio. Eravamo molto stanchi. Prima tutte quelle prove, intorno a quei piedi che non conoscevamo, poi il lungo viaggio. Eravamo così esausti che abbiamo dormito per due giorni consecutivi.”
“Mi dispiace ma non ricordo nulla. Rammento soltanto la prima volta che abbiamo preso la pioggia: che goduria!”
“Alziamo un po’ di più il coperchio, li voglio vedere bene”.
Così fecero.
“Ehi! Ma sono dei tappetti!” disse Destro.
“Non gridare!” rispose l’altro annusando l’aria. Dai due stivaletti neri proveniva un intenso odore di cuoio nuovo.
“Non dobbiamo temere nulla da questi due sfigati, hanno pure un po’ di tacco” disse ancora Destro. Il compare non rispose, era intento a osservare con attenzione un particolare che all’altro era sfuggito.
“La suola” disse infine, con tono preoccupato.
“Come?”
“La suola, porco sandalo! Guarda bene la suola”.
Destro si avvicinò.
“No! È a carrarmato!” esclamò.
“Lo sai che cosa vuol dire?”
“È a prova d’acqua”.
“Quindi?”
“Siamo finiti, non sentiremo mai più l’acqua sotto le suole” disse Destro con un filo di voce.
“No, non è detto” rispose Sinistro. Nel suo sguardo comparve una luce… sinistra.
“Davvero lo vorresti fare?”
“Non abbiamo scelta. O noi o loro”.
Agirono la notte successiva.
Di soppiatto, ancora una volta lasciarono la loro vecchia e confortevole scatola e si diressero verso quella nuova e lucida. Buttarono all’aria il coperchio e si gettarono addosso ai due giovani stivaletti che si svegliarono all’improvviso e quasi non compresero ciò che stava loro accadendo. Furono presi a calci con estrema violenza, tramortiti e storditi. Uno dei due, con la pelle ormai tutta squarciata, perse subito i sensi ma i due stivali da pioggia continuarono a infierire su di lui. L’altro, intravedendo la porta dello stanzino socchiusa, tentò una disperata fuga. Saltellando in preda all’angoscia, attraversò il soggiorno, subito inseguito da Sinistro, e si buttò contro la porta-finestra. Era soltanto accostata, allora il terrorizzato stivaletto si lanciò sul balcone, spiccò un prodigioso balzo e scavalcò la ringhiera. Precipitò in strada dove, proprio in quel momento stava transitando un tipo un po’ alticcio che era appena uscito dal bar. Lo stivaletto cadde proprio davanti alle sue scarpe, che assistettero con orrore a quella scena tragica. L’ubriacone, colto da insolito senso civico, raccolse la sventurata calzatura e la gettò in un bidone della spazzatura. Dall’alto, Sinistro sogghignò soddisfatto. Fu raggiunto sul balcone dal complice.
“Tutto a posto?” domandò.
“L'altro non si muove più, è stecchito” rispose l’altro, che aveva ancora il fiatone.
Proprio in quell’istante il cielo si coprì di nuvole scure, grosse e pesanti. Una prima grassa goccia d’acqua cadde proprio sulla punta di Sinistro. Una agghiacciante risata risuonò nella notte.